(di Reno Brandoni) – La strada odora di nebbia, sensazione ostile, a me che sono sudista di nascita ed emiliano di adozione. Guidando non si vede molto, ma l’uscita appare ben chiara e la svolta è obbligata. Pochi grammi di pioggia cadono sopra la carovana di idee che di solito mi accompagna prima di lanciarmi in una lunga intervista. Non sono più un ragazzino infatuato da miti ed eroi, semplicemente inseguo la mia passione e spero di condividerla con qualcuno in cambio della sua storia. Così cerco i punti in comune e li collego come in un disegno da interpretare. Quasi sempre il dialogo si scioglie e l’intervista diventa racconto, partecipazione, emozione, e quando arriva l’ora dei saluti, la stretta di mano racconta tutto di quell’incontro e del reciproco amore per la musica e le chitarre. Sono coetaneo di Luciano, anagraficamente ci separa solo qualche settimana di vita, e non posso fare a meno di parlargli con la confidenza di chi ha visto con gli stessi occhi lo stesso mondo. Le parole diventano fiume e sommergono i racconti, spesso quello che ascolto è quello che penso: questa sua attenzione per l’uomo e per il suo destino, per ciò che accade e ciò che è accaduto, poiché tacere vuol dire perdersi e Luciano Ligabue non conosce i silenzi, ma esibisce il suo coraggio e la sua determinazione con orgoglio. Così, in un pomeriggio di dicembre, incrociamo i nostri sguardi e ci sediamo nella regìa del suo studio, con l’obiettivo di scoprire il suo percorso chitarristico. Contemporaneamente mi immergo in un mondo fatto di genuinità ed entusiasmo, che è sempre più raro trovare tra i marciapiedi delle nostre città. L’intervista diventa conversazione e mi allontano a fatica quando è l’ora di dire basta, perché per me non è mai abbastanza.
Inizio subito con una domanda per soddisfare una personale curiosità. Ho letto in un’intervista di due anni fa [Luca Valtorta, “Natale da Liga”, in Repubblica, 21 dicembre 2014] che hai iniziato a suonare la chitarra fingerpicking grazie alle tablature che venivano pubblicate su Ciao 2001. È interessante saperne un po’ di più visto che è stato l’inizio di molti di noi.
Sì, e proviamo a mettere i pezzi in ordine da un punto di vista anagrafico. Siamo nella seconda metà degli ani settanta, il ’75-’76 grosso modo. Io, che allora avevo quindici o sedici anni, vedo succedere le seguenti cose: si aprono le radio libere, di colpo, e la musica che ci veniva proposta solo da Per voi giovani o Supersonic o Pop Off, quindi dai programmi della Rai che andavano in onda al massimo due volte al giorno, diventava invece una musica che poteva andare in onda ventiquattr’ore al giorno, trasmessa da gente che aveva poco più dei nostri anni, quindi con un occhio anche sulla società, libero da tutto. La partenza delle radio libere è stata pazzesca, e poi ti ritrovavi a farne parte perché, per aprire una radio, bastava veramente niente all’epoca. Serviva uno che avesse un po’ di abilità tecnica, che avesse fatto casomai l’ITI o l’IPSIA, e praticamente ne veniva fuori una radio, magari fatta con un trasmettitore accroccato in una morsa; una radio che era capace di coprire trenta-quaranta chilometri, perché l’etere era vuoto, quindi non c’era bisogno di grandi trasmettitori, non c’era bisogno di ripetitori, non c’era bisogno neanche di pagare le frequenze. Era tutto libero. E, unitamente a questo, c’era il fatto che i cantautori vivevano probabilmente un periodo magico. In quel momento i cantautori, non solo producevano una qualità pazzesca, tutti quanti, ma avevano un credito tale da essere primi in classifica costantemente. Quindi era diverso l’approccio delle persone alla canzone e, in tutto questo, esisteva questo settimanale che era un settimanale di musica, molto appassionato, che quindi andava benissimo per noi appassionati. Ricordo ancora che mandavano gli inviati, tra cui Armando Gallo, a seguire le tournée internazionali della PFM e pubblicavano dei servizi in più puntate, quindi con un grande dispendio di energie e anche economico. E nel retro di copertina di ogni numero di questo Ciao 2001, c’era una tablatura. Ora io avevo ricevuto in regalo una chitarra da mio padre, misteriosamente, perché mio padre – che gestiva una balera – ci teneva a ripetermi ogni domenica a pranzo, di fronte al classico piatto di cappelletti, che ‘i musicisti sono tutti dei morti di fame’! Quindi pensavo veramente che lui non volesse proprio che io facessi nulla del genere. Poi di colpo, improvvisamente, mi ha regalato una chitarra acustica e non era neanche il mio compleanno!
Ti ricordi che chitarra era?
Era una Clarissa con corde di nylon. E a quel punto feci una prima lezione con la maschera del locale di mio padre, praticamente la persona che strappava i biglietti e che aveva promesso a papà che mi avrebbe insegnato lui a suonare la chitarra. In realtà abbiamo avuto soltanto un incontro, in cui mi ha fatto vedere che sapeva suonare un pezzo dei New Trolls, “Una miniera”, però sapeva fare solo quel pezzo lì ed era assolutamente incapace di spiegarmi come suonarlo. Così è successo che in seguito mi son dato da fare da solo, e lì le tablature di Ciao 2001 sono state molto importanti. La tablatura infatti ha questo di bello, che è molto intuitiva come mezzo e quindi, vedendo la posizione delle dita, mi permetteva di capire come mettere la mano sinistra, cosa fare con la mano destra, e di cominciare a suonare pian pianino i pezzi degli altri.
Sai che l’autore di quella rubrica era Andrea Carpi, che adesso è il direttore del mensile per cui ti sto intervistando?
Questo non lo sapevo! Allora salutamelo e digli che ha fatto un ottimo lavoro.
L’utilizzo delle tablature era molto importante, perché ti permetteva di imparare senza conoscere la musica. Era un primo retaggio della cultura musicale americana che, partendo da Reverend Gary Davis e passando per Stefan Grossman, ci permetteva di imparare a suonare la musica in maniera più semplice. Tu, quando leggevi Ciao 2001, avevi dei riferimenti legati alla chitarra acustica o seguivi solo la corrente cantautorale?
Ricordo che il momento in cui mi sono maggiormente impegnato con il fingerpicking è stato quando ho trovato la tablatura de “L’avvelenata” di Guccini [Ciao 2001, n. 30, 1976]. Certo, c’era un po’ da imprecare per via della mano destra, prima di prendere il ritmo dell’arpeggio. Però il giro armonico era ciclico e, una volta imparato, si poteva via via ripeterlo a volontà, il che era un buon modo per esercitarsi anche sulla tecnica.
Quindi hai iniziato da autoditatta ?
Sì, proprio con quelle tablature. Poi ricordo che comprai un Manuale di chitarra della cooperativa l’Orchestra [1976], che aveva allegati anche due 45 giri con gli esempi dei brani da suonare, tutti pezzi popolari da “Bella ciao” a “Per i morti di Reggio Emilia” e altre canzoni del genere, e che in qualche modo pure mi aiutò a imparare almeno gli accordi.
Era una passione o pensavi già a un futuro da cantautore?
Io sono sempre stato appassionato di canzoni, fin da bambino le canzoni le ho proprio amate. E ho avuto la fortuna di poter amare delle bellissime canzoni, quelle che chiamiamo canzonette, ma che in realtà sono canzoni stupende. Tra le canzoni degli anni ’60, nel loro essere un po’ canzoni da 45 giri, con nessuna ambizione se non la canzone stessa, in realtà ce n’erano veramente tante di belle. E c’era una grande capacità di produrle, con arrangiatori come Ennio Morricone. Non appena poi mi sono avvicinato all’adolescenza, verso i dodici-tredici anni, hanno cominciato a uscire canzoni che non capivo, ma che però erano affascinanti. È uscita “Alice” e non riuscivo assolutamente a capire di cosa stesse parlando, ma ne ero affascinatissimo. Così con “Alice” ho incominciato a fare quello che bisognerebbe fare con le canzoni, farla mia, nonostante l’intenzione in questo caso di Francesco De Gregori, cioè interpretarla come volevo io, renderla poetica a modo mio. Insomma ho avuto la fortuna di incocciare in questa cosa, che mi ha mosso una curiosità, una voglia di capire molto grande. Poi è successo che verso i sedici-diciassette anni, per l’appunto con l’esplosione delle radio libere, la passione per i cantautori non si è mai estinta, sono sempre stati per me una passione molto grande, che però è andata di pari passo con il rock. Più o meno a quell’età già mi ero perso con i primi album di rock progressivo, ero rimasto folgorato dai Genesis, che all’epoca avevano inciso tre album, Nursery Cryme, Foxtrot e Selling England by the Pound. E mi trovavo a canticchiare tutte le loro melodie nonostante fossero così articolate e conoscendo poco l’inglese, quindi immaginando ancora di più di quanto non stessi già facendo con le canzoni un po’ criptiche di alcuni cantautori.
Dei cantautori sentivi solo De Gregori?
No, no, c’era la ‘carboneria’ di De André, specialmente con i testi un po’ spinti come “Il gorilla”. Ci passavamo il disco dicendoci: «Senti un po’ cosa sta cantando questo qua!» E quindi in qualche modo facevamo il tifo per lui. Guccini poi era già conosciuto, era già presente all’epoca ed era importante. Tra l’altro si sapeva già che le canzoni più belle dei Nomadi in realtà erano sue.
E Claudio Lolli?
Di Claudio Lolli ricordo “Michel”, che m’era piaciuta, poi “Aspettando Godot” e soprattutto “Ho visto anche degli zingari felici”, di cui comprai l’album.
Era veramente un periodo magico e devo riconoscere che, con il tuo nuovo disco Made in Italy, tu hai ripercorso proprio quell’idea di composizione che aveva nell’album un filo conduttore per tutte le canzoni.
Sì, l’album – volendo raccontare una storia – per forza di cose ha questa intenzione dentro, di portare avanti la storia che voglio raccontare attraverso le canzoni. D’altra parte vorrei anche dire che siamo nel 2016, quasi nel 2017, e non si può avere la presunzione di inchiodare un ragazzino di fronte alla sua ‘responsabilità’ di ascoltatore. Perché in realtà non ha nessuna responsabilità: ognuno ascolta la musica come vuole. Mi sembrerebbe innaturale, oggi, costringerlo ad ascoltare l’intero album per tirar fuori tutto quello che c’è. In realtà la mia è una proposta, ma fortunatamente le canzoni hanno tutte una loro autonomia. Per cui, se uno vuole ascoltare una singola canzone, lo può fare ed è un ascolto – diciamo – meno impegnativo. È sicuramente meno appagante rispetto a quella che è la mia intenzione di base, cioè permettere a chi vuole, sia di affezionarsi alle canzoni cui vuole affezionarsi, sia di avere la possibilità di seguire questa storia per intero.
Ti racconto la mia esperienza. Ho ascoltato i brani senza aver letto il libretto, quindi senza aver seguìto la storia: le canzoni avevano un peso e un loro ordine totalmente diverso, probabilmente condizionato dai miei gusti; invece, dopo aver letto e seguìto la storia, tutto ha preso una strada più articolata e il significato di ogni nota ha assunto differenti connotazioni.
Le canzoni, se segui la storia, assumono un peso maggiore.
Affronteremo successivamente l’approfondimento del disco, ma una cosa che vorrei aggiungere è che ho molto apprezzato i ‘pezzi brevi’: finalmente delle canzoni che possono raccontare qualcosa anche in poco più di un minuto.
La canzoni brevi sono “Meno male”, “Quasi uscito”, “Apperò”. Devono fare a volte da legame fra le canzoni, a volte devono portare avanti la storia, altre volte devono semplicemente far percepire uno dei sentimenti del protagonista, un sentimento anche di spiazzamento, perché lui spesso viene spiazzato dalla realtà che via via incontra.
Ritorniamo al passato. Hai detto che una delle cose che ti aveva conquistato era stata “Alice” di Francesco De Gregori, poi nel suo album Vivavoce hai registrato il duetto con lui proprio con questa canzone. È stata una tua richiesta o la cosa è nata per caso, per pura coincidenza?
Devo dire che francamente non ci avevo mai pensato, perché “Alice” resta un pezzo per me molto importante, però non avevo mai pensato che lo potessimo cantare insieme. Me lo ha chiesto lui, un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: «Guarda, sono un po’ in imbarazzo, vorrei chiederti una cosa, però non so se posso»… Figuriamoci, credo che il modo in cui ho cantato questa canzone abbia mostrato con evidenza la mia soddisfazione e quanto io l’abbia amata! Mi sono sentito onorato dall’esser stato chiamato da Francesco a fare questa cosa. Noi ci conoscevamo già un po’, ma mi è piaciuto anche che l’aver cantato “Alice” insieme ci abbia permesso di conoscerci meglio, di diventare amici.
Eravamo partiti dalla Clarissa con corde di nylon. Quando sei passato alle corde di metallo?
Poco dopo, penso dopo due o tre anni, sono passato a una Ibanez. E devo dire che l’ho fatto anche con una certa sofferenza, come chiunque, perché la mano sinistra ne soffre e si devono formare i calletti. Però le corde metalliche erano tutta un’altra cosa, era proprio un passaggio necessario.
Suonavi anche pezzi di sola chitarra o solo canzoni?
Sempre pensavo alle canzoni, sempre solo a quello. Poi ben presto, per motivi non facili da individuare, mi son trovato da un lato a guardare cosa producevano in generale gli altri, però più che a riprodurre le loro cose, quindi a suonare il ‘repertorio’, mi veniva proprio di provare a buttar giù dei giri armonici miei, non so per farne cosa francamente, ma per vedere cosa succedeva, muovere un po’ gli accordi, vedere se nel frattempo uscivano anche delle melodie. Era un bellissimo gioco. Da questo punto di vista, al di là del primo periodo in cui ho dovuto imparare i rudimenti, devo dire che non ho mai lavorato tantissimo sul repertorio degli altri, ho sempre suonato poco le canzoni degli altri. Suonavo un pezzo fino al ritornello, tanto per capire di cosa si trattava, ma poi mi è sempre venuto automatico – immediatamente dopo aver passato dieci minuti sulla canzone di un altro – di andare a fare qualcos’altro. Evidentemente era una predisposizione.
Questa cosa è abbastanza presente nelle tue composizioni: la tua originalità compositiva evidenzia riferimenti e citazioni…
Credo sia normale trovare degli influssi nella musica di chiunque.
È come un buon vino: ha la sua personalità, ma puoi sentirci sapori e gusti ben distinguibili. Mi racconti della tua prima composizione?
Allora, il primissimo pezzo l’ho scritto a diciotto-diciannove anni ed era un bruttissimo pezzo, si chiamava “Cento lampioni”. Io, che ero stato totalmente affascinato dal mondo dei cantautori, cercavo di scrivere – tra virgolette – ‘canzoni d’autore’, che però mostravano più ambizione e presunzione che non qualcosa di sensato. “Cento lampioni” parlava di una puttana in cerca del proprio riscatto, una che sembra quasi pronta a cambiare vita, a potersi finalmente permettere un futuro senza quella professione, quindi era un una canzone con dentro una vaga idea moralistica… Ed era scritta tutta quanta sul Fa settima maggiore e il Do settima maggiore.
Erano i suoni dell’epoca, come gli America di “Ventura Highway”, la musica californiana.
Sì. Probabilmente.
La passione per lo strumento?
Quella è sempre rimasta. Devo dire che, dopo pochissimo tempo, ho capito che senza le chitarre acustiche… Vedi, posso fare a meno di suonare le chitarre elettriche, nel senso che le imbraccio quando devo fare dei concerti, ma non posso fare a meno delle chitarre acustiche, ho un bisogno fisico di quella vibrazione che viene dalla chitarra acustica. Io ho sempre scritto le mie canzoni sulla chitarra acustica, sempre. Tutte. E dopo pochi giorni che non la suono, ho proprio una sensazione di assenza di qualche cosa, per cui corro ai ripari. Questo fin dai primi tempi, dopo quattro o cinque giorni che non tocco una chitarra comincio a soffrire di una forma di astinenza.
Questo accade a tutti gli appassionati: la chitarra in qualche modo è uno scudo, un modo per mettere qualcosa tra te e il resto…
Questo no, non credo di aver mai vissuto questa sensazione. È proprio che la chitarra ancora oggi, dopo tante canzoni scritte e tante anche pubblicate, mantiene questo fascino per cui semplicemente la uso per lasciare andare le mani e vedere cosa succede con certe ritmiche; e alcune volte non so neanche io come mai certe ritmiche piuttosto che altre. In questo album, per esempio, avrai sentito che “Mi chiamano tutti Riko” è un funk, ed è una ritmica che viene dall’averla scritta sulla chitarra acustica, ma non so come mai sia venuta così questa volta; come quel vago andamento soul di “Ho fatto in tempo ad avere un futuro”, con quei levare che venivano dall’averla suonata con l’acustica.
Mi ha particolarmente sorpreso l’inizio di “Vittime e complici” con la chitarra slide.
Quello non è un merito mio , il merito va dato a Max Cottafavi che l’ha suonata.
Il mood è veramente interessante.
L’ho corrotto io Max sulla strada del bottleneck! Ricordo ancora che faceva parte dei ClanDestino, la mia prima formazione, e quando abbiamo registrato Lambrusco coltelli rose & popcorn [1991], gli dissi che avevo bisogno di quel tipo di atmosfera, parlavamo del brano “Camera con vista sul deserto”. Gli feci ascoltare Ry Cooder, lui storse un poco il naso, perché comunque era di base un metallaro, e invece sempre più nel tempo poi mi ha ringraziato per avergli fatto conoscere quel mondo.
Interessante questo riferimento a Ry Cooder…
Lui ha suonato a Correggio con i Little Village, nell’unica data che fecero in Italia, con John Hiatt, Nick Lowe e Jim Keltner!
La tua prima chitarra ‘importante’?
Ho ancora un sacco di belle chitarre, poi magari se vuoi te le faccio vedere…
Pensavo di fare qualche foto…
Le foto te le recuperiamo, se vuoi, perché abbiamo fatto un archivio fotografico e te ne posso parlare. Dell’Ibanez purtroppo non c’è più traccia, mentre la Clarissa l’abbiamo ancora. Dall’Ibanez poi passai a questa Morris [mostra le foto], che sentii promuovere all’epoca e che presi un po’ così. Queste due erano le chitarre che presi all’inizio e che continuai a utilizzare fino a quando ho iniziato a fare questo mestiere. All’epoca lavoravo e quindi la musica era sempre di più una passione praticata nel poco tempo a disposizione.
Per tanti anni la musica ha avuto semplicemente questa dimensione, e ho scritto tanti pezzi bruttissimi, che per il bene dell’umanità non usciranno mai e che avevano tutti quelle caratteristiche di cui ti parlavo prima. Era il mio tentativo di far vedere che potevo essere un cantautore, però in realtà con molto ‘vezzo’, con molto ‘atteggiamento’. Erano canzoni poco vere, in cui cercavo anche un linguaggio non mio, per far vedere che potevo accedere a quel mondo. Finché poi è successo che ho scritto una canzone, “Sogni di rock’n’roll”, che era veramente la fotografia di un mio sabato sera. Allora mi son detto che la mia strada era quella, che dovevo fare quello che sapevo, quello che conoscevo bene, scrivendo un po’ come parlo. E questa cosa mi ha permesso di trovare una chiave, che poi ha fatto sì che tutto di un colpo, molti anni dopo che avevo cominciato a suonare la mia prima chitarra, mi sono ritrovato a fare il mio primo concerto con il mio primo gruppo. Avevo ventisette anni, e da lì tutto è andato molto velocemente: nell’arco di un paio di anni ho trovato un contratto discografico, il mio primo disco del ’90 [Ligabue] è andato bene da subito… e via andare!
Da lì il mio rapporto con le chitarre è andato sempre in crescendo, perché a quel punto me le potevo permettere, quindi potevo apprezzarne anche le diverse qualità. Alcune addirittura me le regalavano…
Segui anche tu la filosofia de ‘la prossima che compro è l’ultima’?
Non mi pongo limiti, devo dire, ne ho fin troppe. Poi succede in realtà che alla fine ti affezioni sempre a quelle due o tre, e sono sempre quelle che imbracci. Guarda [mostra il suo catalogo di chitarre], ti faccio vedere. La Takamine [EF LTD 88] è la prima che ho usato nei live. La si può vedere in alcuni video del primo periodo, specialmente nei video di Lambrusco coltelli rose & popcorn: non è una gran chitarra senza amplificazione, ma amplificata svolgeva la sua funzione. Questa Gibson Hummingbird è la chitarra il cui manico mi piace più di tutti, un manico sottile, ed è strano perché ho le dita abbastanza lunghe. Inoltre ho un altro problema: ho rotto la capsula di un dito della mano sinistra, giocando a calcio tantissimi anni fa, e questo mi ha impedito di usare la mano sinistra come avrei voluto.
Cosa intendi come manico sottile, la forma o la larghezza al capotasto?
Non so esattamente che larghezza abbia il capotasto, ma da un punto di vista tattile questa chitarra è quella che mi fa godere di più nel rapporto con il manico. Quest’altra mi è stata regalata dai miei fan, che fecero una colletta e la presero da un liutaio di Verona.
La successiva è una Cole Clark [Fat Lady 3A]: questa la tengo a casa, è una di quelle che ancora oggi uso di più per scrivere; è anche molto bella da un punto di vista visivo, con intarsi in madreperla e dei legni che sono molto fighi. La prossima è una dodici corde Dave King [Kingsclere]: è una chitarra fatta a mano, anche questo un regalo, e suona da paura; ha una cassa molto piccola ma suona veramente molto molto bene. Il prossimo è un bouzouki, su cui mi sono un po’ avventurato per esempio in “Siamo chi siamo” di Mondovisione [2013]; in effetti viene un po’ anche dalla frequentazione di Mauro Pagani, che ha suonato con me in Giro d’Italia [2003]. Poi c’è un banjo chitarra: anche questo strumento, insieme al bouzouki e ad altri strumenti a corda, l’ho usato per Arrivederci, mostro! nella sua versione totalmente acustica [2012]: rifeci l’album suonando chitarre, banjo, bouzouki e altro, e fu un esperimento abbastanza particolare, perché volevamo vedere come reggevano le canzoni senza gli arrangiamenti molto curati e passati attraverso ProTools del disco originale. Questa è un’altra dodici corde, una Takamine [12FP4DOS] che comprai quando una dodici corde mi mancava, prima che mi regalassero quella che ti ho fatto vedere prima. Poi c’è una Maton [ECJ85 Custom Jumbo]: anche questa è un regalo, e le Maton dal vivo suonano molto bene. Ecco un altro regalo dei fan, anche questa viene da una colletta, è una bellissima Epiphone [FT-110 Frontier]: è l’altra chitarra che tengo a casa, e le canzoni che ho composto per Made in Italy sono state scritte su questa Epiphone e sulla Cole Clark.
Questa è la Gibson J-200 Elvis Presley, me la regalò il capo dell’agenzia con cui lavoravo all’epoca, all’indomani dei successi di Buon compleanno Elvis [1995]: è una J-200, per cui come tale una chitarra con una grossa presenza…
Questa è anche la chitarra usata da Reverend Gary Davis…
E la prossima che ti mostro è una Gibson Gospel, la chitarra che più ho usato all’epoca di Buon compleanno Elvis: tutti i pezzi di acustica li ho suonati con questa chitarra, è uno strumento che ho usato moltissimo ed ha un suono abbastanza caratteristico, che a me piace molto. Ecco una Gibson J-45, un classico che meriterebbe un uso maggiore, però ho anche poco posto in casa per tenerla. Ora passiamo a questa Martin 12 corde [D12-28], sempre a fare numero. Fa compagnia a quest’altra Martin, una D-35, che in realtà usavo dal vivo come chitarra di scorta.
Ma quest’anno l’ho promossa a chitarra principale, avendo montato un pickup suggeritomi da Cesare dei Negrita. Infatti il mio chitarrista Federico Poggipollini mi aveva detto che aveva sentito Cesare dei Negrita dal vivo e che aveva un suono bellissimo, così ho preso quel pickup, l’ho provato e ne sono rimasto contento; si tratta dell’L.R. Baggs M1. E a Monza ho usato questa chitarra con questo pickup, che ha un suono molto crudo ma molto vivo. Il gran problema delle chitarre acustiche è che non riesci mai ad amplificarle come vorresti, perché ci sono i problemi dei rientri e in qualche modo il loro suono naturale – passando da una qualsiasi forma di amplificazione – viene un po’ snaturato…
Infatti il successo delle Maton nasce proprio da questo, che non hanno un bel suono da ‘spente’, ma amplificate sul palco fanno bene il loro lavoro…
Ed ecco un altro regalo per A che ora è la fine del mondo? [1994], una Martin DX1: con questa ho scritto tutto Buon compleanno Elvis, anche se l’ho registrato con la Gospel, e un sacco di album successivi fino a Nome e cognome compreso [2005]; il che fa una decina d’anni di scrittura con questa chitarra! Poi ho una Taylor 513ce di ‘servizio’, e per finire una National Style Dobro, che ho usato soprattutto per la colonna sonora di Radiofreccia [1998] e anche per il progetto che ti dicevo di Arrivederci, mostro! in versione acustica.
Come usi le tue chitarre in studio e dal vivo?
In studio le uso solo microfonate. Sul palco, per forza di cose, devo usare la diretta. Anche mettendo il famoso ‘tappo’ nella buca, non c’è niente da fare. Ora, comunque, con questo L.R. Baggs nuovo mi trovo abbastanza bene. In tutti gli anni precedenti, invece, ho sempre usato la Gibson Emmylou Harris, che ha entrambi i pregi: suona molto bene da acustica – è molto precisa, molto dritta, ed è la chitarra che ho usato sempre su Arrivederci, mostro! acustico – e ha un buon sistema di amplificazione suo, originale. Buono nel senso di un classico suono di ‘servizio’, quindi in mezzo a tutto nella gestione delle frequenze. Sai, noi abbiamo sempre attive altre due chitarre oltre la mia, per cui è un po’ un inferno da gestire dal punto di vista del missaggio. La musica elettronica è molto più semplice da gestire. Con quella chitarra riuscivo in realtà a ottenere un suono di servizio, appunto, non che mi piacesse tanto, ma insomma le parti si sentivano bene e in qualche modo il missaggio era possibile. Per questo ho usato la Emmylou Harris per tanti anni dal vivo.
Sul palco ti dava soddisfazione …
Diciamo che era la chitarra che se la cavava meglio, per i problemi generati dalla chitarra acustica amplificata nel contesto del nostro suono di gruppo. Magari in un un gruppo che fa un suono un po’ più acustico, è più semplice ottenere un suono migliore.
I microfoni in studio?
Lascio fare sempre al fonico, ormai è una microfonatura standard: un microfono di riferimento al dodicesimo tasto e un panoramico. Poi a volte il fonico gioca anche a metterne altri, per vedere cosa può uscire, ma di solito sono quelli.
Che scalatura di corde usi?
La .012. Ma per quanto riguarda le corde mi affido anche al lavoro del mio backliner. Per cui, una volta trovato l’equilibrio, lui adatta le cose alle mie esigenze. A volte prova delle cose nuove, senza neanche dirmelo, quando capisce che ci sono dei margini.
Usi le accordature aperte sulla chitarra?
Sì, certo, nella colonna sonora di Radiofreccia sono quasi tutte accordature aperte. Nel tema principale, in cui suono il dobro, uso un Sol aperto. È un mondo interessante quello delle accordature aperte! Mi sono sbizzarrito soprattutto nel’Arrivederci, mostro! acustico, dove ho usato quella in Re aperto, per il brano “Il peso della valigia” e forse anche per “Caro il mio Francesco”. È molto figa quella in Do aperto, perché ti dà la possibilità di suonare un basso che non finisce mai. E abbiamo usato spesso anche quella di Mi. Lo stesso Luciano Luisi, che è il produttore di quell’album [poi anche di Mondovisione e di Made in Italy], si diletta moltissimo anche di accordature aperte. Ogni tanto anche lui propone degli arrangiamenti di chitarra acustica, spesso semplifica veramente il tutto con accordature di due note che si ripetono, tipo Mi Si Mi Mi Si Mi o roba del genere.
Anche sull’accordatura di Sol si può mettere il basso in Do, è l’accordatura che attualmente uso più spesso; devo fartela sentire anche in minore. Poi c’è un nostro insegnante, Giorgio Verderosa, che ha realizzato un arrangiamento della tua “Certe notti” con il Si abbassato in Sol, quindi con due Sol vicini. È interessante come questo brano possa essere adattato a diverse accordature e trasmettere mood diversi, come quello celtico in questo caso.
L’ascolto volentieri!
Ancora un paio di domande sul disco nuovo. Intanto sono rimasto molto impressionato dal mastering. Attualmente, non so per quale ragione, mi è presa la fissa per il mastering e la prima cosa che ascolto, in un disco, è proprio come suona: il tuo è incredibile, evidentemente ci avete lavorato parecchio!
Tu non hai avuto modo di sentire la versione in vinile?
No…
Perché quella veramente, credimi… Oltretutto è uscita come doppio LP, e questo ci ha permesso di stare entro i quattordici minuti per lato. Credo che il suono ottenuto sia veramente il massimo che abbiamo raggiunto ad oggi. Il mastering l’ha eseguito Stephen Marcussen [presso i Marcussen Mastering di Los Angeles], ma in parte anche Antonio Baglio, non è stato fatto tutto dalla stessa mano. Alcuni brani li ha fatti Baglio, che da qualche anno vive in America, per cui ci siamo comportati con lui come con Marcussen, spedendo il materiale via via e facendolo rimandare indietro. E penso che Antonio abbia fatto un lavoro considerando come l’aveva impostato Marcussen: nei pezzi che ha masterizzato, ci ha messo del suo, ma prendendo il ‘marchio’ che Marcussen aveva imposto sul sound generale.
Infatti la successiva riflessione era che questo disco suona da vinile…
Sì, ma se provi a sentire come suona la batteria di “La vita facile” sul vinile, sembra un’altra cosa anche rispetto al suono che c’è sul CD!
Comunque si percepisce che il disco suona bene e ha un’ottima dinamica.
Ecco, questo sulla dinamica è un discorso molto importante. Oramai la dinamica nei dischi è un optional, nel senso che non viene più considerata, perché il processo produttivo – mettendo in griglia tutto il materiale, prendendo la misura migliore suonata dal batterista e replicandola come fosse una batteria elettronica, e sistemando tutto il resto di conseguenza – fa sì che il fattore umano venga meno. Dopo di che, manca solo che vai al mastering e fai diventare il disegno della frequenza un mattone, spingendo tutto quanto: la dinamica non la senti più! Noi questo disco lo abbiamo fatto invece alla vecchia maniera, per lo stesso motivo per cui io questo disco l’ho scritto ‘urgentemente’, cioè seguendo proprio l’urgenza dello scriverlo. Lo abbiamo anche realizzato urgentemente, per cui lo abbiamo registrato insieme: praticamente il basso, la batteria e una chitarra sono sempre insieme, poi abbiamo fatto le sovraincisioni di un’altra chitarra e i cantati. Questo vuol dire che tutto ciò che senti, in qualche modo, viene veramente dalla qualità dei musicisti, che si sono messi lì a suonare con un certo tipo di ‘intesa’. E ovviamente quello che senti non suona ‘perfetto’, ma suona come lo sanno suonare ottimi musicisti.
Così come dovrebbe suonare un disco. Ritorno sempre alle affermazioni di Dylan, secondo cui la musica di adesso ci propone suoni di strumenti che non esistono…
È il problema di molta parte del suono di oggi, che senza voler fare nessun tipo di morale, invece di essere il frutto della qualità di un musicista, sono il frutto della manipolazione del suono stesso, ovvero dipendono da quanto più si è bravi a lavorare con le macchine in postproduzione. Questo produce dei risultati ai quali, dal punto di vista dell’efficacia, non puoi dire nulla: quanto a suonare, i dischi suonano, però disumanizzano un po’ l’idea di musica con cui siamo cresciuti.
Per me, essendo tuo coetaneo, aver ascoltato un concept album che suona da vinile è stata una bella sorpresa, un bel tuffo nel passato con delle sonorità moderne. Oserei quasi dire che questo è uno dei tuoi lavori migliori, senza togliere merito agli altri…
Sono molto contento di questo album e lo vedo anch’io come uno dei miei migliori. Ma, sai, come sempre la cosa che conta di più è l’effetto che fa sulla gente. È la gente che decide quando un tuo disco è uno dei tuoi migliori. Per questo è ancora presto per capirlo, però io personalmente lo sento come uno dei miei migliori…
Nel brano “Meno male” c’è un assolo…
…di flicorno!
Mi sembra che sia Max Greco a suonarlo.
Sì, il solo è bellissimo. E “Meno male” è la canzone più ‘dolente’ dell’album, in cui il protagonista, che è uno che lavora in fabbrica, vede quanto facilmente e con quanta frequenza vengano licenziati i suoi compagni di lavoro, i suoi amici, i suoi colleghi. E ogni volta che vede qualcuno avvicinarsi all’ufficio personale, da un lato vive per questi la sofferenza, dall’altro – con vergogna – pronuncia dentro di sé le parole «meno male», poiché anche per oggi non è toccata a lui. Quindi è una cosa di cui si vergogna molto, ma che si ritrova a pronunciare, e questa canzone aveva bisogno di qualcosa di straziante, di una malinconia devastante, ma bella comunque, prodotta da un trombettista. Max l’ha realizzata molto velocemente, infatti adesso è entrato in pianta stabile nel nostro gruppo dal vivo. Mi servirò dei fiati dal vivo, di tutti e tre i musicisti che li hanno suonati nel disco [oltre a Max Greco i due sassofonisti Emiliano Vernizzi e Corrado Terzi], e Max avrà uno spazio suo proprio.
In questo disco è un po’ cambiato il tuo approccio con la musica, direi quasi che è più pop, è un suono che ti dà la sensazione di una freschezza e di una leggerezza diverse dal solito. L’ho molto apprezzato come suono e come energia delle esecuzioni.
Grazie. È più ‘libero’ secondo me.
È un ukulele quello in “Apperò”?
Sì, è un ukulele e lo suono io. È un oggetto bellissimo, che anche in questo caso mi hanno, regalato, l’anno scorso quando ho suonato a Sydney: sono arrivati un paio di fan che vivono in Polinesia, però sono italiani, una fa l’insegnante di yoga e l’altro non so bene cosa, e mi hanno regalato questo oggetto fatto a mano da uno di là. Suona benissimo, così mi sono divertito anche a scrivere il pezzo sullo strumento. L’ho registrato a casa mia, neanche in uno studio professionale, con un microfono anche abbastanza lontano, per dirti quanto suona!
Ho letto il tuo libro Rumore dei baci a vuoto [2012], un libro di racconti brevi ma appassionati. E in questo disco ho ritrovato un po’ quell’atmosfera, molto vicina alla scrittura dei racconti e delle emozioni. Sarà che sto diventando anziano, ma mi piacciono sempre di più queste cose…
Nel precedente album Giro del mondo [2015] ho scritto “Non ho che te”, che parlava di questo tipo di mezza età che viene licenziato, raccontava di come ci si può sentire, la crisi di identità che ne viene fuori, il senso di ingiustizia a cui non riesci a dare una risposta, magari anche una depressione a portata di mano. E praticamente mi sono ritrovato a chiedermi il perché avessi parlato di questa persona in prima persona. Prima, tutti i personaggi di cui avevo raccontato erano stati in terza persona. E una volta ho finito il tour dell’anno scorso, una volta rimasto a casa con la chitarra in mano, mi sono detto: di questo licenziamento ci sarà un prima e un dopo, com’è questa persona? Come si chiama, che vita sta facendo? Quanto è incazzato rispetto alle ingiustizie di questo paese, rispetto al fatto che comunque è costretto a pagare le tasse, mentre proprio il problema dell’evasione fiscale fa sì che non abbia nemmeno diritto a servizi decenti per compensare il pagamento delle sue tasse? Il fatto che lui abbia più o meno la mia età, o che sia un po’ più giovane, cosa vuol dire? Vuol dire che avrà una disillusione cocente, per le promesse fatte e non mantenute, per l’idea di un mondo che doveva essere più equo, ma che nella realtà è andato nella direzione opposta. La forbice tra chi ha tutto e chi non ha niente è sempre più spalancata, però – mi son detto – questo tipo in qualche modo vedrà sicuramente il mondo com’è conciato, questo paese com’è conciato. Magari non è contento della sua vita, magari sta vivendo una crisi esistenziale. Ma è tutta colpa dell’esterno? Quanto lui avrebbe bisogno anche di uno sguardo che dia meno per scontate certe cose? E quindi, via via, sono uscite le canzoni di Made in Italy, che hanno provato a raccontare questa storia. Le prime due presentano il personaggio.
Nella terza entriamo per l’appunto nella storia, vedendo che lui ha bisogno dello sfogo del venerdì sera, altrimenti schiatta. Il suo matrimonio è alla frutta, con vittime e complici, perché entrambi si sentono sia vittime che complici della condizione del loro matrimonio. E poi via via raccontando, fino all’episodio che è una mazzata in testa, una manganellata che gli arriva mentre partecipa a una manifestazione, perché pensa che qualche cosa vada fatta, anche se non crede tanto che la sua presenza alla manifestazione cambi le cose. Piuttosto che niente, fa anche quello. Ed è come se la botta in testa gli permettesse poi di ripartire da qualcosa, una sorta di shock che lo fa ripartire. Sua moglie è costretta ad andare a trovarlo in ospedale, lì sono costretti a parlarsi, in qualche modo si riavvicinano e decidono di ripartire addirittura per una seconda luna di miele, che è raccontata nel pezzo “Made in Italy”. E quindi l’album si chiude con lui che si interroga su quanto la nostra felicità sia legata al nostro sguardo esterno, anzi ai fatti esterni, e quanto invece sia legata al nostro modo di vedere queste cose. Questo anche per stabilire cosa uno può o non può fare per cambiare le cose. E comunque, l’album si chiude con un segnale di speranza nella canzone “Un’altra realtà”: non a caso l’ho fatta cantare con un coro di bambini.
È emblematico il pezzo sui giornalisti che chiudono i microfoni dopo il drammatico evento.
In realtà, se ci pensi, è veramente una fotografia di come stanno le cose. L’informazione non ha più tempo per approfondire i temi che è costretta a trattare da un punto di vista politico. E l’approfondimento, in generale, richiede tempo, ma l’informazione è costretta a dare titoli grossi, appetibili ed efficaci ogni venti minuti su Internet, per cui è per forza un’informazione un po’ gonfiata, anche esasperata.
Le chitarre acustiche chi le ha suonate?
Le ho suonate tutte io.
Alla fine di “Vittime e complici” si sentono delle gocce d’acqua.
Lui dice praticamente che la sua casa è la metafora del suo matrimonio. Entra in casa e vede che fa freddo, la caldaia non funziona, le porte non si chiudono bene, il letto cigola e il rubinetto perde acqua. È esattamente come il suo matrimonio in quel momento.
Hai iniziato e finito il CD con voci di bambini.
In realtà, all’inizio, ci sono rumori di vita mescolati: volevo piombare immediatamente nella vita della persona, come se quelli fossero in parte rumori della vita attorno a lui, in parte anche alcune suggestioni dal passato. Insomma volevo arrivare a bomba nella vita del personaggio, che non a caso dice: «È stato un attimo, e invece è mezza vita»!
Grazie!
Reno Brandoni