(di Sergio Staffieri)
And it’s a hard, and it’s a hard, it’s a hard, and it’s a hard
And it’s a hard rain’s a-gonna fall
Credo che l’assegnazione del Nobel a Dylan sia stata una bella cosa per tanti motivi. Tralasciando l’ovvia considerazione (che tutti quelli inorriditi all’idea del Nobel a Dylan non hanno fatto, credo) che il giudizio del comitato è appunto espressione di quel comitato (e se vogliamo, un comitato può valere un altro, quindi altri membri avrebbero esposto parere diverso), e ognuno di noi avrebbe potuto essere in disaccordo con qualsiasi (altro) nome, si è trattato, ripeto, di una gran bella cosa.

E non è un caso che la canzone cantata da Patti Smith in vece di Dylan sia stata “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, proprio conforme alle motivazioni date dal comitato: perché il brano è derivato dalla ballata tradizionale “Lord Randall”, e perché Dylan ha detto una volta che è composto da tanti primi versi di tante canzoni che non sarebbe mai stato in grado di scrivere (vado a memoria, ma il senso era quello): è quindi un brano che, nel suo legame alla tradizione, è proiettato verso il futuro, e la grande letteratura, se ha qualcosa di eterno, ha proprio questa prerogativa. Ed esser capaci di condensare passato e futuro, e farlo con tale potenza visionaria e descrittiva, è segno della sua grandezza letteraria. Come ci viene ricordato sempre, ogni tradizione è progressiva per sua natura.
Altra motivazione: forse la decisione del comitato voleva anche essere un invito ad ‘uscire dalla propria bolla’ e aprirsi a questo mondo letterario secondo categorie – di analisi e via dicendo – diverse dal consueto. Fa un po’ ridere pensare che, e non da oggi, il mondo accademico e i più o meno professionisti delle humanities fin giù al ‘popolo’ – folk o vulgus, è la stessa cosa e ci arriviamo senza la linguistica – rompano tanto con relativismo, contestualizzazione, nuove categorie e quant’altro, e poi ci si opponga all’assegnazione del Nobel a Dylan. Un gruppo di persone ha espresso il suo parere, condivisibile o no, ma è appunto un parere. E se si ritiene che non valga comunque più nulla, perché accalorarsi?
Seamus Heaney espresse un giudizio molto positivo sulle capacità versificatorie di Eminem, che a me in tutta onestà non piace altrettanto (e non l’ho neanche ascoltato troppo, lo ammetto, anche per pregiudizio). Ma se Heaney (grandissimo poeta al di là del Nobel assegnatogli) diceva questo di Eminem, allora corriamo tutti a leggere per bene Eminem e poi esprimiamoci lasciando da parte il gusto personale. Credo davvero che chi ha criticato Dylan l’abbia fatto per pregiudizio puro e quindi ‘ignoranza’.
Voglio vederli uno a uno questi esperti dell’opera di Dylan, e poi sentire e leggere pure che cosa hanno scritto.
Detto questo: le opere d’arte, e in questo caso di ‘letteratura’, mostrano la loro grandezza nel momento in cui sono capaci di parlarci e significare qualcosa a distanza di anni, decenni, secoli (mi fermo ai secoli tenendo presenti “Lord Randall” e il brano di Dylan). L’opera multiforme di Dylan lo ha fatto e continua a farlo, fra persone di età, estrazione, istruzione e credo diverso. Ognuno ha il suo Dylan, ed è bellissimo, no?
Io non avevo ascoltato “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” per non so quanto tempo. Mi è rivenuto in mente ieri, e arrivato all’ultima strofa… che emozione: si è inserito di nuovo perfettamente nel mio quotidiano per tante ragioni, e questi ultimi versi sono come ‘esplosi’ dentro di me: «Oh, what’ll you do now, my blue-eyed son? / Oh, what’ll you do now, my darling young one? / I’m a-goin’ back out ’fore the rain starts a-fallin’ / I’ll walk to the depths of the deepest black forest / Where the people are many and their hands are all empty / Where the pellets of poison are flooding their waters / Where the home in the valley meets the damp dirty prison / Where the executioner’s face is always well hidden / Where hunger is ugly, where souls are forgotten / Where black is the color, where none is the number / And I’ll tell it and think it and speak it and breathe it / And reflect it from the mountain so all souls can see it / Then I’ll stand on the ocean until I start sinkin’ / But I’ll know my song well before I start singin’».
Sulla versione di Patti Smith: davvero è da fare accapponare la pelle, anche per quel suo umanissimo nervosismo – ma chi l’avrebbe mai detto che anche una come lei avrebbe potuto essere nervosa in quel modo? – e quando arriva alla fine, e canta “But I’ll know my song well before I start singing”… suvvia, è fantastica. Guardiamo come, in virtù del testo e della sua esibizione, è stata capace di tenere in pugno tutta la sala come facevano gli antichi scaldi nelle corti – e non è quella grande letteratura?
Il Nobel è stato secondo me meritatissimo, ma se anche non lo fosse stato, e anche se Dylan non l’avesse ricevuto, mi tengo ben stretto Bob Dylan. Al netto di tutti i grandi nomi in giro e degli strombazzamenti dei più, non ne vedremo uno simile per tanto tempo ancora.
P.S. C’era una canzoncina deliziosa a chiudere uno dei suoi album meno memorabili, Empire Burlesque. Si chiama “Dark Eyes” e credo sia un hapax nella sua storia dal vivo. Quando l’ha eseguita è stato proprio con Patti Smith. In chiusura canta questo verso, e sintetizza bene la mia idea – pregiudizio – di tutti i suoi ‘criticoni’ a priori. Forza Dylan!
But I feel nothing for their game where beauty goes unrecognized.