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Cinquant’anni di Sgt. Pepper’s raccontati alla Cloud Generation

(di Francesco Brusco)
Prologo: «Watch out for your ears!»
Quando il sipario del Saville Theatre di Londra si apre sulla scena della Jimi Hendrix Experience, il 4 giugno del 1967, le parole del mancino di Seattle fanno da preludio alla sua Strato, richiamando sull’attenti le orecchie degli spettatori prima di invaderle con un riff che, da tre giorni, risuona come un’eco in tutta Europa e oltre.
Tre giorni, a malapena il tempo per imparare il magnifico incipit del 33 giri che in settantadue ore ha già rivoluzionato il concetto stesso di album. Tra le orecchie inebriate e sconvolte in platea, quelle di George Harrison e Paul McCartney: è il più solenne omaggio, il più riverente inchino nella storia della musica ‘popolare’.
A una dozzina d’ore dallo scoppio della Guerra dei Sei Giorni la coscienza frammentata dell’Occidente si ritrova, per un momento, riunificata, pronta a salutare l’arrivo della sua Summer of Love. Da tre giorni, in un unisono riservato soltanto agli episodi nodali della Storia, le radio trasmettono ininterrottamente ed esclusivamente ciò che di quell’estate sarà ritratto ed inno: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. È, semplicemente, uno shock culturale e sonoro: «Watch out for your ears»…

«It was fifty years ago today»…
In musica, e nell’arte in generale, il rischio di cadere nella retorica e nell’iperbole lasciandosi sedurre dal mito è sempre dietro l’angolo. La feticizzazione e l’alone di mistero con cui da sempre si rivestono le maggiori creazioni dell’ingegno, hanno accompagnato quest’opera fin dalla sua gestazione, impedendone spesso un’analisi oggettiva.
Un semplice sguardo alla copertina, ormai negli annali della pop art, e l’occhio prima ancora dell’udito cede al fascino dell’icona; gli anniversari, dal canto loro – specie per invogliare all’acquisto dell’ennesima riedizione, immancabilmente densa di ‘contenuti extra’ – esigono sempre una celebrazione in forma di nostalgico happening collettivo. Tuttavia, di decennio in decennio, essi offrono l’occasione per guardare da una certa distanza al fenomeno rievocato, se non altro per misurarne la capacità di resistere al tempo e per chiedersi come se ne possa ancora fruire e quale messaggio esso riesca a comunicare a un’audience del tutto nuova.

Sono passati cinquant’anni da quel 1° giugno 1967, che salutava l’uscita dell’album più importante e influente nella storia della musica cosiddetta ‘leggera’ che, da quel giorno, leggera non è più.
Mezzo secolo di suoni, parole, critiche, racconti e leggende su un disco che è il portavoce di un’epoca da tempo conclusa, ma che in esso è immortalata: impressa su Sgt. Pepper’s, l’immagine degli anni sessanta ci giunge ancora abbagliante e intatta, come la luce di stelle ormai spente. La popolarità dei Beatles in queste cinque decadi non ha conosciuto la benché minima flessione vincendo – anche in senso commerciale – il confronto con la produzione musicale attuale, priva di dischi altrettanto emblematici. Il revival del vinile poi, tra nostalgia e filologia, venerandone l’epoca d’oro identifica ancora oggi un supporto ben preciso con i suoi esiti migliori: i classici del rock. Nei mille articoli, recensioni, film e libri dedicati a Pepper, il mito prevale ancora sulla storia.

In fuga da sé stessi
«That’s it. I’m not a Beatle anymore»: sul volo di ritorno dopo il live al Candlestick Park di San Francisco, 29 agosto 1966, ultimo concerto dei Beatles ad eccezione di quello sul tetto della Apple del gennaio ’69, George Harrison sembra declamare l’epitaffio della band. Le ultime tappe di quel caotico tour si sono rivelate infinite stazioni di una Via Crucis: i disordini delle Filippine, con i Fab Four perseguitati e maltrattati per aver rifiutato l’invito a corte del dittatore Marcos; le minacce di morte; i falò dei fondamentalisti cristiani e del Ku Klux Klan dopo il famoso «We’re more popular than Jesus now» di Lennon, estrapolato totalmente fuori contesto da un’intervista di diversi mesi prima.
Dopo un’estate del genere, il più grande desiderio dei quattro è fuggire da sé stessi. Lo fanno per un paio di mesi: John diventa attore per How I Won the War di Richard Lester; George scopre l’India, da cui in un certo senso non farà più ritorno; Paul si dedica alla musica classica e alle avanguardie, mentre Ringo, per sua stessa ammissione, semplicemente ingrassa. Bisogna tenere presente che in un’epoca in cui Internet è ben di là da venire, e i media tradizionali non hanno ancora la forza trainante necessaria a veicolare la musica su scala mondiale – con i guadagni dei musicisti basati quasi totalmente sulle live performances, essendo risibile la loro percentuale sulle vendite dei dischi –, una band che smette di esibirsi dal vivo, semplicemente non esiste più. Punto. A meno che…

***

Spesso si paragona – non senza qualche ragione – la divinizzazione delle prime rockstar ad alcuni aspetti del culto pagano. Elvis Presley e i Beatles sono stati di gran lunga i maggiori destinatari di questa moderna idolatria, elaborando in prima persona o attraverso i propri ‘ministri del culto’ – i sacerdoti dell’industria discografica – i propri simulacri. Elvis, in quello stesso anno, pensa bene di mandare in tournée la sua Cadillac rosa; i Beatles, all’apice della loro ispirazione, concepiscono un alter ego musicale che girerà il mondo al loro posto.
Anche dopo essersi ritrovati in studio, i quattro continueranno a fuggire – musicalmente – da sé stessi. Portando alle estreme conseguenze le sperimentazioni già inaugurate con Revolver, essi danno inizio a un’opera destinata a non poter essere eseguita dal vivo, non con i mezzi tecnici dell’epoca, per lo meno. Una musica nuova, totale, surreale, unione di antico e moderno, Oriente e Occidente, affidata alla loro controfigura: la Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe.

Fino a quel 29 agosto, i quattro baronetti erano stati letteralmente sovraesposti agli occhi e alle orecchie del pianeta per ogni singolo giorno dei precedenti tre anni e mezzo, oggetti di un’isteria collettiva senza precedenti. Quando a novembre decidono di rifugiarsi ad Abbey Road per i sei mesi successivi, se i dirigenti della EMI si ‘limitano’ a mostrarsi terribilmente preoccupati, il resto del mondo semplicemente ne decreta la fine. La profezia si rivelerà leggermente fallace.

Verso il concept album
Nella seconda metà di quell’anno, una sontuosa messe di nuovi LP – fra le gemme migliori Blonde on Blonde di Dylan e Pet Sounds dei Beach Boys, usciti entrambi il 16 maggio, Freak Out!, strabiliante esordio di Frank Zappa & the Mothers of Invention, e A Quick One degli Who – aveva dato le prime spallate alla tradizionale concezione dell’album come mera raccolta antologica di canzoni, legando i brani in trame sempre più serrate e coerenti che rendevano gli album stessi un’opera conclusa, in cui il totale è maggiore della somma delle parti. Si va verso la sinfonia rock, verso il concept album, forma che esploderà negli anni del progressive. Le canzoni, i ‘singoli’, iniziano a loro volta a travalicare gli abituali confini formali, temporali e contenutistici del mercato discografico.

Per inciso, in Italia, in quegli stessi mesi le classifiche dei 45 giri vedono in testa “A chi”, “Stasera mi butto”, “La coppia più bella del mondo”… una capacità di stare al passo con i tempi pari soltanto a quella di Hiroo Onoda, il soldato giapponese che per trent’anni continuò a combattere nella giungla, ignaro della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Sgt. Pepper’s è un concept album. Eppure non lo è. O meglio, lo è, ma in un senso del tutto unico. Nasce come tale, e nella mente di Lennon e McCartney – che dopo l’abbandono dei palchi inizia a reclamare lo scettro di leader – i singoli brani saranno accomunati dal tema di fondo della nostalgia: i ricordi da fanciulli della loro Liverpool tradotti in musica e parole.
I primi sublimi frutti a esser raccolti sono “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane”, pensate per il nuovo album e rispettivamente intitolate a due luoghi dell’infanzia di John e Paul, distanti fra di loro poco più di un miglio. La EMI tuttavia, tormentata dal fatto che per ‘ben sei mesi’ nessun nuovo disco dei Beatles abbia riempito gli scaffali degli stores, richiede un nuovo 45 giri entro febbraio: i due capolavori vengono così dirottati sui due… lati A (sarebbe stata dura scegliere quale delle due retrocedere in B) del nuovo singolo ed escluse dall’album, in base al principio – quasi un’antica usanza cavalleresca, a pensarci oggi – per il quale ai fan non poteva venir richiesto di pagare due volte per un prodotto anche solo parzialmente simile.

È in quegli stessi giorni di febbraio – le registrazioni della title track iniziano il 1° – che entra in scena il Sergente Pepe: il compito di serrare i ranghi dei tredici pezzi del disco, conferendo a esso un vero concept di base, viene affidato al baffuto ufficiale partorito dalla fantasia di McCartney e alla sua Banda dei Cuori Solitari. Un nome probabilmente derivato dai contenitori di salt and pepper con cui Paul e il roadie Mal Evans si distraggono durante l’ennesimo volo di ritorno verso Londra, e che vuole parodiare la moda dei lunghi e bizzarri appellativi delle band californiane del tempo («Laughing Joe And His Medicine Band, oppure Col Tucker’s Medical Brew and Compound» ricorda Paul nel documentario Anthology).

Ciò che più conta è che la Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band diventa da questo momento l’alter ego dei Beatles. Indossando le divise multicolore da orchestra edoardiana in versione psichedelica, i quattro escono dal proprio io musicale proseguendo quella fuga da sé stessi avviata all’indomani del Candlestick Park. Non ha importanza che solo i primi due brani e la cosiddetta “Reprise” siano esplicitamente scritte e presentate come esecuzioni della Band del Sergente Pepe; l’idea sottile su cui è edificato l’intero album è quella di potersi concedere una libertà compositiva senza precedenti, delegando alla Lonely Hearts Club Band il compito di assicurare uno stile omogeneo a una scaletta in cui convergono il rock misto agli ottoni del brano iniziale, il vaudeville di “When I’m Sixty-Four”, la grazia cameristica di “She’s Leaving Home” con l’atmosfera circense di “Being for the Benefit of Mr. Kite!” e gli echi indiani di “Within You Without You”; fino al capolavoro assoluto di Lennon-McCartney che chiude il disco: “A Day in the Life”.

E il miracolo riesce. È vero, citando Lennon, che “Lucy” e “Mr. Kite” avrebbero potuto trovar posto in qualsiasi altro album, ma è innegabile che, per qualche motivo, essi dovevano essere lì, e che solo in Pepper potevano trovare le propria vera voce, riverberandosi a vicenda. Al di là di tutti i discorsi extradiegetici, quello che dal punto di vista tecnico è il vero collante dell’opera è il magnifico sound creato ad Abbey Road per un disco anche per questo definito la più fedele trasposizione acustica dell’esperienza lisergica: «Una moderna, colossale opera lirica» dichiarò Allen Ginsberg.
Grande merito, a questo punto, va dato al vero ‘quinto Beatle’, uno dei più grandi gentleman nella storia della musica moderna, che probabilmente da questa Storia non ha ancora ricevuto il credito che gli spetta per il suo contributo: Sir George Martin, il «Signor 33 giri» per dirla con Harrison. Sarebbe sufficiente l’aver saputo sempre portare a termine gli ingrati compiti assegnatigli in un’epoca in cui le tecniche di registrazione e di editing rasentavano l’artigianato manuale; per non dire dello stoico sforzo nel tradurre in musica le poco ortodosse richieste di Lennon (che, ad esempio, per “Mr. Kite” gli chiede di far sentire «l’odore della segatura»).

«Ogni volta che parlo delle tecniche di registrazione della metà degli anni sessanta mi sento come il barone Von Richthofen mentre descrive il triplano Fokker a un gruppo di piloti del Concorde» scriveva Martin nel suo Summer of Love: the Making of Sgt. Pepper (1995); ma anche dal punto di vista tecnico – benché inciso con semplici registratori a quattro piste, e con svariate limitazioni tecnologiche, anche per l’epoca stessa – l’album trasformerà il modo con cui da allora verrà concepito e prodotto qualsiasi altro disco, per svariati decenni.
Anche i testi, che dopo l’incontro con Dylan avevano intrapreso un percorso di graduale maturazione, raggiungono il loro zenith e si fanno particolarmente criptici. Il fatto che su Sgt. Pepper’s per la prima volta nella storia le liriche vengano stampate sul retro della copertina, è un ulteriore indizio del loro valore come parte integrante dell’opera. È stato spesso sottolineato come questi versi ritraggano personaggi che ben si addicono alla solitudine evocata da un Lonely Hearts Club. Se c’è un sentimento comune alla maggior parte dei brani è proprio la solitudine, nelle sue varie forme, che da quel momento si estenderà agli stessi Beatles, i quali dopo questa vetta imboccheranno una pur gloriosa discesa su sentieri sempre più divergenti. Ciònonostante, tranne l’ambiguo minore dorico di “Mr. Kite”, tutto l’album è imperniato su tonalità maggiori, luminose ed effervescenti come quell’estate. A chiudere il sipario è proprio un maestoso accordo di Mi maggiore, suonato su quattro pianoforti diversi da John, Paul, Ringo, George Martin e Mal Evans.

È una solitudine radiosa, non isolamento ma meditazione: le ‘porte della percezione’ dei Beatles, come di molta parte della gioventù degli anni sessanta, vengono guidate alla trascendenza dall’incontro con le filosofie orientali – verso cui Harrison li sta conducendo – così come dalla rivelazione dell’acido, l’esperienza psichedelica cui Lennon li ha già condotti. Sgt. Pepper’s parla di entrambe, con surreale realismo.
Difficile a credersi, sono gli stessi ragazzi che meno di cinque anni prima, caschetto e uniforme, cantavano “Love Me Do”.

«Kaleidoscope eyes»: lo specchio della Summer of Love
Di quella utopica ‘Estate dell’Amore’, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è colonna sonora e ambasciatore. Sia per il pubblico che per gli artisti la parola d’ordine del ’67 è ‘rivoluzione’; un altro vocabolo fin troppo frequente, che spesso finisce per obliterare tutto ciò che fa da humus culturale e da preludio alla creazione artistica. Fatto sta che in quel momento solo i Beatles possono raggiungere un simile risultato, perché solo loro hanno un potere tale da permettersi – anche in parziale disaccordo con la casa discografica – di fare letteralmente tutto ciò che desiderano.
Con questo album, essi mettono il mondo davanti a uno specchio; e il mondo, in quell’estate, vi guarda con ‘occhi di caleidoscopio’. Chiedersi se Sgt. Pepper’s sarebbe esistito senza le droghe è come chiedersi se Van Gogh avrebbe dipinto la Notte stellata senza i demoni che gli infestavano la mente: tali domande, e qualsiasi risposta vi si proponga, non spostano di una virgola la realtà delle cose, l’inevitabilità dell’arte.

La Swinging London è il centro culturale di quel momento, come Parigi negli anni venti; a renderla il posto ‘giusto’ ci sono i colori degli hippies, che spiccano per contrasto sui grigi delle nebbie elisabettiane; ci sono le minigonne di Mary Quant, c’è Blow-Up di Antonioni, e c’è l’LSD. C’è questo, e tanto altro, e soprattutto c’è Sgt. Pepper’s.
Elencare gli ingredienti che convergono in un’opera d’arte, il suo retroterra storico e culturale, non rivela mai pienamente il significato dell’opera stessa, specie nel caso dei capolavori. Pur rintracciando ben più che un ‘filo rosso’ nessuno può davvero dire cosa contenga il disco.
Eppure, dopo sei mesi di attesa per la sua pubblicazione, al termine di una gestazione avvolta da un silenzio che ne amplifica oltre ogni misura l’aura di mistero – bisogna sempre ricordarsi, cosa impensabile oggigiorno, che i Beatles pubblicavano solitamente due album all’anno, oltre a diversi singoli e film – sin dalla sua uscita il pubblico sembra assolutamente, intimamente convinto che esso debba avere un significato nascosto.
A cominciare da quella copertina.

«A crowd of people stood and stared»
Il tempo libero conquistato dai Fab Four dopo la fine della loro carriera live viene impiegato da Paul per frequentare gli ambienti più in voga dell’avanguardia londinese, invidiato in questo da John, ‘confinato’ nel suo lussuoso ritiro di Weybridge in una vita matrimoniale che gli sta sempre più stretta e da cui cercherà un rifugio in Yoko Ono.
Tra le amicizie coltivate da McCartney all’interno del milieu artistico londinese c’è quella con Robert Fraser, proprietario della West End Gallery, che viene incaricato di curare la copertina per il nuovo disco. La realizzazione è da questi commissionata dapprima al gruppo olandese Fool (Simon Posthuma e Marijke Koger), poi a Peter Blake, esponente di spicco della pop art, che sarà affiancato da Jann Haworth. Verrà spesa una somma pari a circa cento volte il prezzo medio per una copertina: 2867 sterline in totale, di cui circa la metà a Fraser, che versa solo duecento sterline a Blake e Haworth.

Consci del valore che avrà l’album, i Beatles e il loro entourage sanno che nessun dettaglio dovrà essere trascurato, men che meno la copertina, che in fin dei conti è il primo elemento con cui si entra in contatto e in base al quale in molti si creano una percezione del disco e del suo contenuto; e la percezione, sarà ormai chiaro, è un tema centrale di questo disco. Così come la musica, anche la copertina doveva risultare sconvolgente.
Anche visivamente, quindi, si porta a compimento la metamorfosi di John, Paul, George e Ringo nella Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Quello che resta dei Beatles così come il mondo li conosceva – sembra dire l’immagine – è una effige in cera dei quattro, posta proprio accanto agli originali. Dietro di essi figurano oltre cinquanta personaggi, invitati a comporre il pubblico per l’esibizione della Band (solo all’ultimo momento Hitler e Gesù Cristo resteranno esclusi da questa audience). Probabilmente, già all’epoca dell’uscita del disco essi erano più famosi dell’intera ‘crowd of people’ convenuta sulla scena, e il feticismo immediatamente seguente all’uscita dell’album porta tra le altre cose alla diffusione di quiz in tutta l’Inghilterra, per indovinare i personaggi ritratti. L’attenzione del pubblico – e della censura – oltre che ai volti si rivolge anche alla vegetazione in primo piano: c’è da immaginarsi i sorrisi sarcastici dei Beatles mentre – consapevoli che gli occhi dell’intero pianeta vi avrebbero cercato ben altra erba – dispongono ai propri piedi rigogliose piante di… peperomia.

Sgt. Pepper’s ai tempi del cloud
«Watch out for your ears!» appunto. È quanto si potrebbe scrivere come istruzione per l’uso per quanti debbano ancora aprire per la prima volta quella cover, estrarre il disco – di per sé, due gesti già desueti per l’homo digitalis, ma diamo per buona l’immagine – e premere play probabilmente ignari dello sbigottimento che inevitabilmente dovrebbe caratterizzare i quaranta minuti seguenti.
In molti hanno sviscerato Sgt. Pepper’s, rinnovandone il racconto e analizzandone le composizioni con maggiore o minore acume; queste poche righe non ambiscono allo status di recensione né di revisione.

Il punto è piuttosto un altro: come ci parla un’opera che compie mezzo secolo? E come l’ascolteranno e la leggeranno i nuovi destinatari, il pubblico abituato all’ascolto superficiale, mai ripetuto, vissuto tra mille distrazioni e – tipicamente – con una qualità audio tra il discreto e il raccapricciante? Viene da chiedersi quanto resti in Sgt. Pepper’s dell’originaria volontà degli autori dopo cinquant’anni, quanto del suo messaggio raggiunga i nuovi destinatari. Un disco simile non è concepito per un ascolto veloce, a singhiozzo, sebbene l’unità di misura beatlesiana sia sempre stata la ‘canzone’, il che non impedirebbe quindi di godere del disco anche in maniera random. La fruizione moderna tuttavia rende sicuramente più evanescente la potente trama che fa di quest’opera il prototipo del concept. Perde, arrendendosi all’ascolto Lo-Fi, una quantità incredibile di informazioni sonore; per tornare a un confronto con le arti visive, è come voler ammirare Mondrian riprodotto in bianco e nero.

Dopo soltanto una settimana dalla sua pubblicazione, Pepper aveva venduto già duecentocinquantamila copie nel solo Regno Unito; oltre cinquecentomila dopo un mese. In UK rimarrà al primo posto delle classifiche per ventinove settimane consecutive, e ad oggi in tutto il mondo se ne contano oltre trentadue milioni di copie. E i numeri continuano a crescere giorno dopo giorno, stimolati dalle periodiche riedizioni del catalogo beatlesiano, sempre prodigo di alternative takes, materiali extra, demo ecc. Senza dire del suo recente approdo su Spotify.
Proprio lo streaming è diventato nel 2016 la prima fonte di guadagno, e àncora di salvezza, delle case discografiche; non altrettanto per gli artisti, ai quali sono destinate royalties minime… un po’ come cinquant’anni fa, appunto. Sempre più verticale il calo dei supporti fisici per eccellenza, compact disc e vinile. Quest’ultimo tuttavia, in maniera interessante, torna a stuzzicare l’immaginazione e le tasche non solo dei collezionisti ma anche degli audiofili, una nicchia di utenti che pretende ancora di poter ascoltare musica con una qualità audio quanto meno accettabile (immaginiamo sia ancora soddisfacente, per gli artisti impegnati in sala di registrazione, sapere che tutte le frequenze, i timbri, gli strumenti che danno vita alla loro musica siano fisicamente udibili!).

La maggior parte degli utenti, comunque, si è ormai confortevolmente abituata all’idea di usufruire della musica online anziché acquistarla sui supporti tradizionali, indirizzandosi verso una modalità di ascolto – senz’altro low cost – fatta di un numero virtualmente infinito di tracce, sempre più spesso riorganizzate in playlist dalla dubbia coerenza. È il trionfo della modalità shuffle: con essa si perde sempre più la giusta sequenzialità attraverso la quale un artista stabilisce la successione dei brani di un album, in ragione di un discorso logico musicale, fatto di tonalità e ritmi che si alternano, di velocità che crescono e diminuiscono, di testi che hanno bisogno di svilupparsi attraverso una certa direzione e non un’altra.
Per alcuni, d’altronde, è la prassi che meglio si adatta alla nostra epoca, e alla sua fretta, che ci lascia ben poco tempo da dedicare alla fruizione di musica nel vero senso del termine, non soltanto come ornamento ad altre attività. I ‘Lonely Hearts’ sono diventati ‘Lonely Ears’. È chiaro quindi che l’album, come concetto, sembra inesorabilmente diretto verso la fine.

Un’ulteriore perdita, già sancita dal CD e mai abbastanza sottolineata, è la divisione lato A – lato B. Nell’ideare la sequenza dei brani di un album, gli artisti e i loro produttori tenevano in considerazione anche la convenzionale pausa imposta e scandita dal semplice gesto di girare la facciata del disco, e il conseguente approccio mentale del considerarlo come una pièce in due atti. È fondamentale tenerne conto, soprattutto nel caso di Sgt. Pepper’s. Si prenda “Within You Without You”, pezzo cardine del disco e brano che sancisce per la prima volta nell’ambito della comunicazione di massa l’incontro tra il rock – che esce dall’adolescenza per aprirsi al mondo – e la cultura musicale indiana (ad essi si aggiunge la strumentazione classica occidentale, che qui fa da discreto trait d’union tra i due poli). Un conto è ascoltarla come track 8 di un CD o di una playlist, altro è farle avviare un solco come ouverture del lato B, un nuovo inizio che determina un cambio di atmosfera per i brani che riempiono la seconda facciata. Un incipit di musica e parole fra le più serie e mature mai udite fino a quel momento su un album dei Beatles; serie, ma non seriose tuttavia, allorché il sitar di Harrison si scioglie tra le risate che chiudono il pezzo.

Infine, cosa resta della copertina, vera e propria opera d’arte eletta nel 2011 da Rolling Stones come la più bella della storia? Già compressa per adeguarsi al CD, l’icona simbolo della musica degli anni sessanta si è via via smaterializzata con l’arrivo del digitale e del cloud, come quegli strani gadget (baffi, gradi da sergente, distintivi ecc.) che la corredavano nella versione in vinile e che, per quanto triviali potessero apparire, erano pur sempre parte dell’intero concept, almeno quanto il fischio udibile solo dai cani e le “subliminali” frasi al contrario, effettivo epilogo dell’album.
Resta, per fortuna, la qualità intrinseca di una musica che ancora oggi risplende di luce propria e che – dopo mezzo secolo – rimane ancora un’esperienza sonora senza eguali; e questo non solo per i neofiti, come gli adolescenti che per la prima volta scelgano di premere – o più probabilmente cliccare – il tasto play, magari incuriositi da quelle appariscenti divise in copertina, o perché il Web continua se non altro a rappresentare una fonte per dare almeno uno sguardo, o un ascolto, all’arte del recente passato. In parte è perché viviamo in un’epoca in cui la musica commerciale non ha più il compito – e spesso neanche il diritto – di innovare, lasciandosi ‘ispirare’ dai gusti del pubblico più che stimolarli e arricchirli a sua volta; in parte, in buona parte, è semplicemente perché innovativo e sconvolgente quest’album lo era già cinquant’anni fa.

Di quella Summer of Love non durò l’amore, e non durò neanche l’estate, già pronta a vestirsi d’autunno, e di lotta. Dura, di quell’attimo, un’istantanea su disco, l’unica in grado di conservarne incontaminato il primo sorridente vagito, sussurrandolo alle nostre orecchie per continuare a sedurle: «I’d love to turn you on».

Francesco Brusco

Bibliografia essenziale
Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti, Sgt. Pepper. La vera storia, Giunti, 2011.
Mark Lewisohn, The Complete Beatles Chronicles: the Definitive Day-By-Day Guide to the Beatles’ Entire Career, Chicago Review Press, 2010.
George Martin, Summer of Love: the Making of Sgt. Pepper, Pan Books, 1995 (trad. it. L’Estate di Sgt. Pepper, La Lepre, 2013).
Ian McDonald, Revolution in the Head: the Beatles’ Records and the Sixties, Fourth Estate, 1994 (trad. it. The Beatles: l’opera completa, Mondadori, 1996).
Alan W. Pollack, Notes on “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, in “The ‘Official’ rec.music.beatles Home Page” (http://www.recmusicbeatles.com, URL consultato il 12.05.2017).

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