Come già John Jorgenson e anche Radim Zenkl, del quale ci occuperemo prossimamente, abbiamo intervistato Mike Dowling all’indomani di una delle serate della Acoustic Night 13 con Beppe Gambetta. In quell’occasione Mike si è caratterizzato con la sua musicalità cristallina a cavallo tra vintage jazz e country bluegrass, alle prese con una chitarra archtop e diversi tipi di chitarre resofoniche, lapsteel e steel guitar. Nel suo passato troviamo un’intensa attività come sideman e turnista negli ambienti musicali di Chicago e poi di Nashville, che lo hanno visto collaborare con artisti del calibro di Vassar Clements, Jethro Burns e Joe Venuti. Oggi appare come un tranquillo signore ritirato con sua moglie Janet tra i monti del Wind River nel ‘selvaggio’ West. Dove però continua a portare avanti una sua attività importante come solista, pubblicando regolarmente per la propria etichetta piccole gemme discografiche di musica vocale e strumentale in solo e in ensemble, scrivendo insieme a Janet canzoni per se stesso e artisti come Emmylou Harris e Kathy Mattea, ospitando studenti di chitarra nella sua Wind River Guitar School e partecipando ad altri guitar camp negli Stati Uniti e all’estero, senza tralasciare infine le esibizioni dal vivo. Contemporaneamente intrattiene un rapporto di collaborazione con la National Reso-Phonic Guitars, che lo ha portato a promuovere la riedizione dello storico modello El Trovador con corpo in legno, e a ideare uno specifico pickup Hot-Plate per le chitarre resofoniche. Ascoltiamo dalla sua viva voce i racconti di queste avventure in lungo e in largo per la roots music americana.
Nel nostro paese sei conosciuto principalmente per la tua collaborazione con Vassar Clements, alla metà degli anni ‘70. Com’è nata questa collaborazione?
Ti racconto tutta la storia. Quando Vassar suonava con Earl Scruggs nella Earl Scruggs Revue, capitava che il mio gruppetto aprisse lo spettacolo. Così ho conosciuto Vassar Clemens e anche Josh Graves, il grande virtuoso di dobro, ‘zio’ Josh, e siamo diventati amici al punto che Vassar diceva sempre: «Be’, magari quando torno nel Wisconsin» dove io vivevo «il vostro gruppo potrebbe unirsi a noi, ne saremmo onorati!» E aggiungeva: «Mike, se venite in Tennessee, per favore fatemelo sapere». Insomma si è avviato un vero rapporto di amicizia, un’amicizia musicale. Così, di punto in bianco, un giorno ho deciso di caricare le mie chitarre e tutta la mia attrezzatura in macchina e mi sono diretto in Tennessee, dove mi sono incontrato con Vassar. Lo stesso giorno, Vassar stava provando con la sua nuova band per partire in tournée, era la sua prima touring band, nel 1975. E mi disse: «Mike, ti piacerebbe unirti alla band per suonare la chitarra?» Io risposi: «Sì, naturalmente!» Ed è così che è nato il mio primo tour con Vassar e la sua band, con cui poi abbiamo realizzato anche delle registrazioni, a Nashville. Era stato sempre un mio desiderio andare a Nashville, per vedere com’era: se sei un chitarrista, sai, quella è la Mecca dei musicisti! Vassar era una persona molto gentile, un musicista molto accogliente, molto aperto a tutte le novità. Ed era sempre pieno d’interesse, era felice di suonare il violino più di ogni altra cosa. Così, ogni volta che ci trovavamo in giro e ci vedevamo, diceva: «Dai, suoniamo!» È cominciata così ed è stata una lunga amicizia, fino alla sua morte nel 2005.
Che genere di chitarra suonavi nella band di Clements?
Avevo una Gibson archtop, simile ad una L-5, ma era un modello Johnny Smith, con un pickup. In quel gruppo c’era anche uno splendido chitarrista pedal steel, Doug Jernigan: Vassar e Doug facevano un gran lavoro di scrittura delle canzoni e di elaborazione delle armonie. Ero veramente contento di stare in quel gruppo, avevamo una band al gran completo con tanto di basso e batteria.
Suonavate una sorta di swing grass?
Sì, c’era parecchio swing, una sorta di jazz grass o – come qualcuno lo chiamava – hillbilly jazz. Vassar ha proposto diversi progetti che si richiamavano all’idea di hillbilly jazz…
Capisco, del resto hai suonato anche con il violinista Joe Venuti e con il mandolinista Jethro Burns; forse quest’ultimo non era propriamente un musicista swing, ma…
Sì, Jethro Burns era un ottimo musicista swing, veramente eccellente, molto jazzy. In America è conosciuto soprattutto per essere stato parte del duo Homer and Jethro, che si muoveva nell’ambito della commedia musicale. Ma Jethro era un autorevole mandolinista swing, un grande jazzista. Per quanto riguarda Joe Venuti, non sono stato proprio in tour con lui, ma Joe è venuto a Chicago e ha realizzato un disco verso la fine della sua vita, nel 1978, una delle sue ultime registrazioni, intitolato Joe in Chicago. In quel disco c’erano anche Jethro e Steve Goodman, il cantante folk, che fece un’apparizione. Così ho incontrato Joe in sala d’incisione e abbiamo trascorso un paio di giorni a registrare. Questa è stata la mia esperienza come turnista con lui e mi posso sentire onorato di aver collaborato con uno dei miei eroi: è stato bellissimo lavorarci e lui è stato molto gentile, proprio come speravo che fosse.
In quel periodo hai lavorato molto in sala d’incisione, sia a Chicago che a Nashville. Puoi parlarci della differenza tra la musica che si suonava a Chicago e quella che si suonava a Nashville?
Eh, già. Suonavo in un gruppo di rock’n’roll e rhythm’n’blues, e questo gruppo era di Chicago. Ci ho suonato per sette anni, ma in quel periodo, se avevo qualcosa di speciale da fare, un altro disco o una seduta di registrazione con qualcun altro insieme a Jethro, Joe o Vassar, potevo prendermi del tempo e andare a fare anche queste cose. Così molte di queste cose accadevano contemporaneamente. All’epoca vivevo nel Wisconsin, ma non troppo lontano da Chicago, che potevo raggiungere facilmente in auto. Poi, dopo questi anni e dopo aver conosciuto mia moglie Janet, abbiamo deciso di trasferirci in qualche altro luogo che fosse una città musicale. In pratica potevamo scegliere tra New York, Austin, Los Angeles o Nashville. «Allora va bene» dissi «la scelta è facile: a Nashville ho amici, ho già lavorato e registrato». Così abbiamo scelto Nashville: ci siamo trasferiti nel 1986 e ci siamo rimasti fino al 1996.
A Nashville hai anche iniziato una carriera solista.
Quando ci siamo stabiliti a Nashville, ho ricreato una band con alcuni dei miei amici musicisti. Poi, una volta ogni tanto, mi piaceva anche suonare da solo, un concerto o due. Inoltre, a Nashville, sembra che tutti scrivano canzoni: quando incontri qualcuno, è quasi sempre uno che scrive! È una situazione veramente particolare perché, se incontri un compositore, può capitare che ti dica: «Ah, anche tu componi, ti andrebbe di scrivere insieme? Che dici, lunedi prossimo, alle 10.30, e scriviamo». Per me non è facile farlo: ho bisogno di prendere il mio tempo e di farmi venire un’idea; non posso andare a un appuntamento e mettermi a scrivere! Ma qualcuno lo fa…
È la Tin Pan Alley della musica country…
Sì, esattamente! È l’industria della musica, e quando sei in quella città, finisci per pensarla così. Così Jan ed io abbiamo iniziato a scrivere canzoni, poi ci siamo resi conto che alcuni musicisti le amavano e abbiamo iniziato a registrare con loro. Così ci siamo messi a scrivere un po’ di più…
Anche Janet canta e suona?
No, lei non canta e non suona, ma è un’ottima paroliera…
Quando scrivete insieme, tu componi la musica e lei scrive i testi?
A volte capita effettivamente in questo modo, ma altre volte lei può anche avere un’idea musicale. Sebbene non suoni uno strumento, può succedere che dica: «Beh, forse questa canzone potrebbe suonare in questa maniera» oppure «Perché non scriviamo qualcosa con questo tipo di atmosfera, a ritmo di valzer?» Semplicemente non è un’esecutrice, ma ha un ottimo senso musicale. Poi, alcune cose le scrivo anche da solo, musica e parole insieme.
Quindi avete composto anche per altri?
Sì, per alcuni musicisti bluegrass, la Nashville Bluegrass Band, Del McCoury, Tim O’Brien, Emmylou Harris, John Starling, tutti eseguono delle canzoni che abbiamo scritto. E Kathy Mattea, nel suo nuovo CD Calling Me Home ha inserito una canzone, la prima canzone, che abbiamo scritto Jan ed io… Poi, con il passare degli anni, Jan ha pensato: «Perché non cerchi di suonare di più e fare più concerti come solista?» Così ho iniziato a smettere di pensare di essere un sideman, di dover sempre suonare in un gruppo. Ho intravisto un futuro come solista e ho cominciato a ricevere più ingaggi. Ho anche iniziato a viaggiare di più, ad andare a suonare in Europa, in Germania, Svizzera e Olanda. Allora Jan ed io ci siamo detti: «Beh, forse non abbiamo più bisogno di vivere in una città musicale, forse possiamo andare dove realmente vorremmo vivere e vedere se si può continuare a fare musica anche da lì». E così abbiamo scelto il Wyoming, nel selvaggio West!
Bellissimo! E a quel punto avete dato vita al Wind River Guitar: di cosa si tratta esattamente?
Wind River è il nome di una catena montuosa, le Wind River Mountains, una famosa catena montuosa del West dove noi viviamo, una regione molto ventosa. Così Wind River Guitar è il nostro lavoro, significa diverse cose: è la nostra piccola etichetta discografica e, in particolare, è il nostro programma personale d’insegnamento della chitarra, dove uno studente alla volta o eventualmente due vengono a studiare lo strumento per una settimana. È stata un’idea di Jan di aprire una scuola…
Scusa la domanda, ma è costoso? Perché normalmente i guitar camp sono concepiti per gruppi di studenti, che si dividono le spese…
Beh, rispetto ai guitar camp come il Fur Pace Ranch di Jorma Kaukonen o il Guitar Seminar di Lasse Johansson in Ungheria, il prezzo per essere ospitati nella nostra casa è all’incirca lo stesso, forse un po’ più alto, ma non vogliamo renderlo caro al punto che le persone non siano più in grado di venire.
È una bellissima idea, deve essere fantastico per la persona che viene.
Grazie, sì. È una bella esperienza, se le persone che vengono sono quelle giuste. Per questo cerco sempre di parlare prima al telefono con ognuno, per chiedergli: «Che cosa ti aspetti, cosa ti piacerebbe fare?» E se mi risponde «Beh, mi piace suonare la chitarra slide, mi piacerebbe fare un po’ di swing», allora riesco a immaginare meglio come potrebbe andare quella settimana. Ecco, questo è il Wind River Guitar, e noi lo portiamo avanti da sedici anni, forse dieci volte l’anno, dieci settimane all’anno: è sufficiente così, quando io sono a casa, quando non sono in viaggio…
Del resto insegni anche in altri guitar camp.
Sì, insegno molto anche in altre situazioni, come quelle che ho citato prima, e farò un altro campo anche in Svezia, che ho organizzato personalmente: sarò l’unico insegnante e sono previsti otto studenti. Sarà la settimana prima di venire a Trento per un concerto con Beppe Gambetta il 21 luglio, dopo il quale suoneremo anche in Croazia e andremo in Slovenia per il suo International Workshop. A volte vado pure alla Blues Foundation in Inghilterra. E negli Stati Uniti i campi sono tanti: naturalmente non c’è solo quello di Jorma, che dura tre o quattro giorni, ma ce ne sono dappertutto per tutto il periodo estivo. Può capitarmi un campo di blues, dove insegno chitarra slide, oppure un campo in cui insegno chitarra swing o fingerstyle…
Hai pubblicato anche dei video didattici.
Sì, con Homespun e Acoustic Music Resource, e a settembre realizzerò un altro progetto per Homespun. Sto anche lavorando a un libro sugli accordi nella chitarra swing, e pensando a come sarà il mio prossimo disco: probabilmente un’altra registrazione per sola chitarra e voce, senza altri musicisti, come nei miei precedenti Swamp Dog Blues [1998] e Blue Fandango [2005]. Questa è la mia idea.
Nel concerto di eri sera hai suonato diversi modelli di chitarre resofoniche, spaziando in vari stili dal fingerpicking al lap style, dal bottleneck allo swing. Secondo te quali sono i tipi di chitarra più adatti per i diversi stili?
Quando faccio un concerto di musica swing, suono la mia National Reso-Phonic con il corpo in legno, quella rossa che hai visto ieri sera. Si chiama El Trovador ed è una chitarra molto particolare, forse conosci la sua storia: la National l’ha prodotta nel 1932 e nel 1933, durante la Grande Depressione, ed era un modello piuttosto costoso, per questo è uscita di produzione dopo solo due anni. Ma penso sia stata la miglior chitarra con il corpo in legno che la National abbia mai costruito. Quando ero a Nashville, ho seguito per un mese un corso di liuteria e mi hanno dato questa possibilità di scelta: potevo costruire una chitarra elettrica, potevo costruire una chitarra acustica oppure potevo imparare a riparare le chitarre. Scelsi di seguire il corso di riparazione e al momento dell’iscrizione mi dissero: «Dovresti portare una chitarra rotta su cui poter lavorare». Non avevo una chitarra rotta, perciò mi son messo a cercarne una e un mio amico mi ha detto: «Beh, io ho una vecchia chitarra resofonica rotta». «Bene, dovrebbe funzionare» risposi. Così mi ha dato la chitarra e ho aperto la custodia: il manico era staccato dal corpo, mancava la tastiera, mancava il cono, era solo un mucchio di pezzi, era spaccata con delle crepe. Guardai la paletta… ed era una El Trovador! «Beh, ho sentito parlare di questo strumento» dissi «ma non ne avevo mai visto uno, non ne avevo mai avuto uno tra le mani». Così il restauro di quella chitarra è stato l’oggetto del mio corso di liuteria: con l’aiuto dell’istruttore, ho rifatto la tastiera, ho rimontato i tasti, ho riparato le crepe e incollato il manico. Quando finalmente ho potuto montare le corde e fare i primi accordi… il suono che ne uscì era fantastico! Da quel momento, ho sempre suonato quella chitarra e ho cominciato a usarla in studio e a portarla con me in tour. Così la gente ha cominciato a richiedere quel modello alla National Reso-Phonic in California, ma si sentiva rispondere: «Noi non la produciamo, forse ne sono rimasti solo un centinaio di esemplari al mondo» Però, dopo che io ho incontrato e parlato con i responsabili della compagnia, abbiamo deciso insieme che forse sarebbe stata una buona idea rimetterla in produzione. E loro mi hanno detto: «Dal momento che è la tua chitarra principale e dato che ci puoi aiutare a ricostruirne il disegno, diventerà la Mike Dowling signature model El Trovador». Ne sono rimasto veramente onorato. Questa chitarra è ottima per quasi tutto: per il fingerpicking, per suonare swing, ha un corpo molto profondo e un suono molto bello, quindi è la chitarra perfetta per quello che faccio, anche per suonare slide.
Ieri sera suonavi anche una resofonica con corpo in metallo.
Sì, ho suonato anche una National Reso-Phonic in ottone nichelato. È la Reso Rocket, a sua volta una chitarra molto versatile. La uso per lo più nello stile bottleneck, ma a volte l’accordo in accordatura standard e anche su di essa posso suonare swing. In ogni caso, quando faccio uno spettacolo, mi piace avere una chitarra in accordatura standard, una in accordatura di Re e un’altra che posso utilizzare in accordatura di Sol. Di solito tengo la Reso Rocket in accordatura di Re, ma può essere accordata in qualsiasi altra maniera.
E per il lap style?
Beh, io non suono in lap style da solo, perché penso che sia uno stile più adatto per l’accompagnamento e per la musica d’insieme. Nello spettacolo della Acoustic Night comunque suono un Dobro e anche una piccola lap steel elettrica per il pezzo hawaiano…
Intendi una chitarra resofonica di marca Dobro?
Sì, esatto. A casa ho un Dobro d’epoca degli anni ’30 e in effetti, quando la gente inizia a parlare di Dobro e National, si rischia sempre di creare confusione, vero? Perciò a volte prendo una chitarra National e una chitarra Dobro, e le smonto entrambe, così la gente può vedere qual è la differenza e le diverse caratteristiche di ciascuno strumento.
Questo mi fa pensare a Bob Brozman… Quando è venuto l’anno scorso all’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana, gli ho fatto un’intervista nella quale ha spiegato tutta la storia delle chitarre National… Puoi dirci qualcosa per ricordarlo?
La prima volta che ho incontrato Bob Brozman era in Alaska. Io ero lì per andare a pesca, lui era in tour con Brownie McGhee. Avevo il mio Dobro con me e così abbiamo avuto modo di parlare di chitarre e quant’altro. Era anche la prima volta che lo vedevo suonare, e lui era un musicista fantastico in ogni cosa che sceglieva di fare. Più tardi, quando ho iniziato la mia collaborazione con la National Reso-Phonic Guitars e ho cominciato ad andare ogni anno al Namm Show in California, è lì che avevo l’opportunità di suonare un po’ con Bob: suonavamo tutto il giorno, musica hawaiana e dell’Isola della Riunione, quella che Bob amava tanto e che si divertiva così tanto a suonare, ritmicamente così interessante. Perciò mi godevo lo spirito generoso di Bob, il suo buon umore e la sua grande tecnica. Ma Bob viaggiava tanto e non suonava molto negli Stati Uniti, gli piaceva venire in Europa, viaggiare per il mondo e andare in Australia… Quindi l’unica volta che potevo vedermi realmente con lui era al Namm: aspettavo sempre con impazienza di andare in California per raggiungerlo e parlare di musica. Ci mancherà tanto e il Namm non sarà più la stessa cosa senza di lui. Ne stavo parlando con Don Young e con gli altri componenti della National, che dicevano: «Dovremo far sopravvivere la musica, cosa possiamo fare d’altro? È difficile, ma possiamo solo andare avanti». Lui ha fatto tanto per la chitarra, e tanto per aiutare altre persone bisognose a potersi permettere di suonare e di avere una chitarra: questo era lo scopo della fondazione che aveva in animo di creare.
Andiamo avanti… Nell’ambito della tua collaborazione con la National Reso-Phonic, hai anche sviluppato l’idea di un pickup dedicato per i loro strumenti: l’Hot-Plate.
Sì, l’idea di partenza era che, quando cerchiamo di amplificare gli strumenti acustici, che si tratti di una chitarra flat top, di una chitarra resofonica o in particolare di una National, cerchiamo di capire come aumentarne il volume sonoro, ma anche il modo per mantenere il suono naturale così com’è. Allora, molti anni fa, ho cominciato a fare dei tentativi: ho smontato un pickup, fino a restare solo con la bobina, perché non c’è molto spazio sotto le corde di una chitarra National; poi ho cercato un pickup molto piatto, come una frittella, ho smontato il manico e ho fissato lì il magnete. L’aspetto non era bellissimo, ma era molto bluesy; il popolo del blues avrà sicuramente pensato: «Questo sì che è fantastico!» Dopo un po’ di tempo, ho pensato di proporre l’idea alla National: ho realizzato un piccolo prototipo, modificando qualcosa per rendere l’aspetto più gradevole. Ho ritagliato un foro nel pannello copricono, ho collocato il pickup e fatto in modo che tutta l’elettronica fosse montata sul copricono. Così è possibile svitare l’intero copricono con tutto il sistema e rimontarlo su un’altra chitarra. E a quel punto quelli della National hanno detto: «Interessante!» Ho affidato a loro il mio prototipo e loro hanno iniziato a produrre l’Hot-Plate. Adesso ne hanno diversi tipi per i diversi modelli di chitarra. Questa è la storia: io non sono certo un ingegnere, naturalmente, ma mi piace provare a risolvere problemi di questo tipo. È un’altra cosa che mi piace fare!
Andrea Carpi
Grazie a Sergio Staffieri per il contributo dato alla trascrizione dell’intervista.