(di Andrea Carpi) – Vorrei dire subito, a scanso di equivoci, che Mimmo Locasciulli è uno dei miei amici migliori. E con lui ho suonato diverse volte: nel lontano 1975 per il suo primo long playing Non rimanere là, che era anche la prima uscita dell’etichetta Folkstudio di Roma e nel quale c’erano soltanto la sua voce e le nostre due chitarre acustiche; e nel 1977 per il suo secondo disco Quello che ci resta, pubblicato dalla RCA, un album più arrangiato ma sempre particolarmente acustico e chitarristico. Poi l’anno scorso Mimmo ha festeggiato i suoi quarant’anni di carriera musicale e discografica con il doppio CD Piccoli cambiamenti per la sua etichetta Hobo e Believe Digital, una raccolta che ospita diversi amici con cui nel tempo ha incrociato a vario titolo i suoi destini musicali di artista e produttore: a cominciare da Francesco De Gregori ed Enrico Ruggeri, per proseguire con Ligabue, Andrea Mirò, Alex Britti, Frankie hi-nrg, Gigliola Cinquetti, Alessandro Haber, Stefano Delacroix. E mi ha fatto riassaporare l’atmosfera dello studio di registrazione chiamando anche me per riproporre due canzoni dal suo primo disco, “Canzone di sera” e “Tra lo Utah e Tel Aviv”.
Per questi motivi, quando l’ufficio stampa di Parole & Dintorni mi ha telefonato per propormi un’intervista con Mimmo, ho avuto qualche remora di natura ‘deontologica’ ad accettare l’invito. I miei ‘colleghi’ della redazione però mi hanno spronato a farlo, cercando di convincermi che il mondo della comunicazione è cambiato e che, oggi, una testimonianza partecipata e ‘coinvolta’ sembra poter rispondere alle esigenze di informazione in modo più efficace rispetto a un’ipotetica idea di distacco e obiettività. Mi sono così concesso il piacere di una lunga chiacchierata con Mimmo, che si è rivelata anche istruttiva nel mostrare il suo spessore di artista, partito da quella fucina di creatività che è stato il Folkstudio di Roma nella sua stagione d’oro, e approdato a una visione trasversale e competente della professione musicale, come cantautore tra i più ispirati, strumentista, produttore esperto di registrazione e gestore di un’etichetta discografica.
Nel tempo la tua immagine di musicista si è andata definendo soprattutto come pianista-organista. Ma il tuo primo disco del 1975, Non rimanere là per l’etichetta Folkstudio, era totalmente nella dimensione voce e chitarra acustica. Com’eri arrivato a questa dimensione partendo dalla tua formazione musicale e dalla tua pratica musicale precedente?
Ho cominciato a studiare pianoforte a cinque anni e l’ho studiato per nove anni, dando ogni due anni un esame da privatista fino a quattordici anni. Poi a quattordici anni è successo che ho sentito le canzoni dei Beatles… e allora lì ho detto arrivederci! Ho lasciato lo studio del pianoforte, anche perché ho iniziato il liceo scientifico. Però ho messo su quello che allora si chiamava il complessino. E col complessino non suonavo il pianoforte: avevo una sorta di pianola con a destra i tasti del pianoforte e a sinistra i bottoni della fisarmonica, che non suonavo; suonavo soltanto con la mano destra. Il mio primo gruppo si chiamava I Dinosauri e comprendeva, oltre a me, una chitarra, basso e batteria. Poi siamo diventati I Puri, quindi ci siamo uniti con un altro gruppo e siamo diventati i Gently Beats. Il repertorio era principalmente di cover, con qualche canzone originale: avevo già cominciato a scrivere delle canzoni, ma non ero il cantante, ero l’organista; e poi, nel corso delle serate – che erano serate da ballo, nei dancing, non erano concerti – avevo un mio set in cui cantavo due-tre canzoni che avevo composto e canzoni di Dylan, che nel frattempo avevo scoperto. Per il resto facevamo pezzi dell’Equipe 84, Rokes, Rolling Stones, Beatles, Troggs, Kinks… C’erano anche cose molto ‘toste’, c’era un chitarrista che suonava come un folle. Poi nel ’68 sono andato all’università a Perugia, per tre anni, e lì non avevo più il pianoforte, non avevo nulla. C’era l’università per stranieri e tutti i miei amici, in pratica, erano stranieri; inoltre suonavano tutti la chitarra. In particolare ho conosciuto un ragazzo norvegese, che studiava architettura ed era anche cantautore: mi aveva fatto conoscere alcune canzoni della sua terra – per esempio “Valgren e Sam”, da Non rimanere là, nasce da una nenia scandinava – e suonava anche alla perfezione le canzoni di Dylan. Così ho cominciato a strimpellare la chitarra: in quegli anni a Perugia ho imparato i miei fatidici otto accordi, forse nove, che spostando su e giù il capotasto mi permettevano anche di variare tonalità! [ride] In quel periodo non ho mai suonato in pubblico queste canzoni che facevo con la chitarra. Poi sono venuto a Roma, perché sentivo parlare del Folkstudio, della canzone d’autore, della canzone popolare e di tutte queste cose, e prima di presentarmi al Folkstudio sono stato sei mesi a cantare con la chitarra una volta a settimana in un club qui vicino a via Urbana, un ‘clubaccio’ di universitari alla Suburra. In seguito la storia del Folkstudio la conosci: gli spettacoli del Folkstudio Giovani la domenica pomeriggio, quindi gli spettacoli serali e il disco Non rimanere là con un certo chitarrista fingerpicking [ride]. E a un certo punto comincio a riappropriarmi del mio strumento principale, il pianoforte. A casa avevo un piano verticale preso in affitto e ho cominciato a scrivere canzoni ‘pianistiche’ come “Canzone a mio nonno” e “Quello che ci resta”, che tu conosci bene e che ho pensato di proporre al Folkstudio, dove c’era un piano. Ma lì c’è stato un problema, perché con la chitarra si cantava senza microfono, mentre la mia voce veniva soffocata dal piano. Allora reclamai un microfono al boss Giancarlo Cesaroni, che disse: «No, per carità, qui si canta senza microfono!» «Eh, ho capito» risposi «ma io sto qua con il pianoforte contro il muro, non si sente niente…» «Però Antonello Venditti lo fa.» «Vabbe’, ma Antonello ha una voce che spacca le finestre!» Insomma, tanto insistei che alla fine lo convinsi e comperò il ‘biscottone’, il Sennheiser 441, che dopo dieci anni mi ha anche regalato e che tuttora conservo con grande amore e nostalgia.
A proposito di quel tuo periodo più chitarristico, forse era molto potente a quei tempi l’immagine del folksinger con la chitarra.
Be’, quando mi sono presentato al Folkstudio, pensando che chiunque andasse lì potesse suonare, Giancarlo mi disse: «No, guarda che qui c’è la nostra scuderia, prima ti dobbiamo sentire». Ed Ernesto Bassignano, che era lì dietro, disse: «Scusa, ma tu che canzoni avresti fatto, se avessi cantato oggi?» Io mi ero preparato una mia traduzione di “The Lonesome Death of Hattie Carroll” di Bob Dylan, una canzone originale e una traduzione di “Ces gens-là” di Jacques Brel ad opera di Herbert Pagani. Quindi ero già imbevuto del mondo cantautorale, il mio disco preferito in quegli anni era Due anni dopo di Francesco Guccini, che avevo comperato nel ’70 a Perugia. Poi leggevo le riviste musicali dell’epoca come Ciao amici e Big, seguivo molto anche le rassegne di musica popolare con Otello Profazio, il Coro di Aggius, il Canzoniere Internazionale, ero attratto dal mondo del folk, che mi è sempre piaciuto e mi piace tuttora moltissimo. Perciò era normale per me cantare con la chitarra. Poi mi sono riappropriato del pianoforte semplicemente perché potevo scriverci in maniera più ‘larga’, non ero condizionato da quei quattro accordi che sapevo fare sulla chitarra. Sul pianoforte sapevo fare anche gli accordi diminuiti e aumentati, per dire, e potevo anche suonare in una tonalità diversa: se dovevo andare dal Do al Si bemolle ci potevo andare, con la chitarra non l’avrei mai potuto fare.
In una intervista che gli ho fatto di recente [Chitarra Acustica, febbraio 2016], uno dei chitarristi che ha collaborato con te, Paolo Giovenchi, ha raccontato: «Importante poi è stato anche il lungo rapporto di collaborazione con Mimmo Locasciulli, che è molto esigente dal punto di vista musicale: poiché la musica non è la sua professione principale, visto che lui è un medico, ha sempre vissuto il lavoro del musicista in maniera molto autonoma e libera, un po’ anche per gioco e passione; e quindi, paradossalmente, finiva per essere molto più esigente di altri artisti». Insomma, negli anni che hanno seguìto i tuoi esordi al Folkstudio, la tua dimensione di musicista si è via via allargata fino a quella di produttore a tutto campo: puoi raccontarci di questa tua evoluzione e delle esperienze che hai avuto in questo senso?
Dunque, parto dai Dinosauri. Mi ricordo perfettamente che ne diventai il ‘capobanda’ per forza di cose: sì, avevo formato io il gruppo, li avevo coinvolti a uno a uno, però se vuoi ero il meno preparato musicalmente; perché il chitarrista per esempio sapeva ‘svisare’, mentre io con quella specie di pianola non è che potessi fare chissà che cosa: fingevo di fare una specie di organo, che poi mi sono comperato, il Farfisa Compact. Tuttavia, quando provavamo le canzoni, mi rendevo conto che loro non avevano le batterie cariche, da soli; li dovevi spingere per ottenere qualcosa. E il fatto di appropriarmi di una qualifica di leader, in qualche modo, mi dava anche una responsabilità non da poco; ma una guida, un direttore artistico, un responsabile ci doveva stare. Anche quando ho lavorato con Francesco De Gregori, che ha prodotto tre miei dischi, ci ho tenuto a rivendicare – senza per questo alzare la testa, ma attraverso la discussione – il mio ruolo nel sapere dove deve andare la mia musica, questo soprattutto. Perché tu mi puoi dare tutti i produttori che vuoi, ma se non vanno nella direzione che io reputo giusta, la cosa non funziona.
Quanto a ciò che ha detto Paolo, non credo tanto che la mia predisposizione sia legata al fatto di avere un altro lavoro. Io avrei un’altra lettura. Infatti, perché non mi sono mai riconosciuto – dico io – nella ‘famigerata’ scuola romana? Perché lì c’era una tendenza un po’ univoca di arrangiamenti e di suoni. Per me non è detto che un disco debba suonare tutto uguale, tant’è che a un certo punto mi sono affrancato da questa idea, andando via dalla RCA. Per me puoi fare una canzone con un ‘timbro’ folk e poi farne una dodecafonica, non c’è un canone da seguire, ma la tua libertà. Questo non dipende dal fatto che ho un altro lavoro, magari ero ingenuo da questo punto di vista. E questo per me è un pregio, ma anche un difetto: quello di non aver saputo scrivere sempre la stessa canzone…
Cioè, cosa intendi per ‘scrivere sempre la stessa canzone’?
Il pubblico non si abitua facilmente a un cambio di direzione. Se De Gregori – dico De Gregori, ma potrei dire anche Guccini o Dalla – fa un disco in un certo modo e poi fa un disco elettronico come poteva essere il mio Clandestina [RCA, 1987], il pubblico non ci sta, vuole sentire quel De Gregori, quel Guccini, quel Dalla. Io, no, ho fatto il primo disco da solo con la chitarra e con te, in seguito Quello che ci resta che era un disco abbastanza folk, quindi Intorno a trent’anni [RCA, 1982] che è molto pop, Sognadoro [RCA, 1983] con qualche spunto già più interessante e Clandestina, poi i dischi con la collaborazione di Greg Cohen e altri musicisti legati a Tom Waits, Adesso glielo dico [RCA, 1989], Tango dietro l’angolo [Polygram, 1991], Delitti perfetti [Polygram, 1992], Uomini [Polygram, 1995] e così via… Insomma, non riuscivo a scrivere sempre la stessa canzone, sempre con lo stesso suono. Per me la musica è libertà. E questo cosa me lo poteva permettere? Il fatto che ero un dilettante. Ma, come diceva Carmelo Bene, «io sono un dilettante e quindi il più grande dei professionisti»…
Vedi che torniamo un po’ all’idea di Paolo Giovenchi…
Sì, sì, più o meno… [ride]
Senti, puoi raccontarmi un po’ dei chitarristi con cui hai collaborato in tutti questi anni, come li hai scelti, perché?
Premetto: andando avanti nel concetto del lavoro per la realizzazione di un disco, mi sono sempre più indirizzato verso la scelta dei musicisti in base alla conoscenza di quello che individualmente ti possono dare. Per me uno dei più grandi produttori musicali è Hal Willner, che ha realizzato per esempio Amarcord Nino Rota [1981], un tributo alla musica di Nino Rota con la partecipazione di Debbie Harry, Wynton Marsalis e Bill Frisell, oppure Lost in the Stars: The Music of Kurt Weill [1985] con la partecipazione di Sting, Tom Waits e Lou Reed, e ancora Stay Awake [1988], un omaggio alla musica dei film di Walt Disney con la partecipazione di Ringo Starr, Sun Ra e Sinéad O’Connor. Lui, in effetti, in studio non fa praticamente nulla, si limita a organizzare il lavoro e scegliere i musicisti sapendo esattamente quello che ciascuno gli può dare. Questo me lo ha raccontato Greg Cohen, con cui abbiamo studiato il lavoro di Willner. Tant’è che ci sono brani prodotti da Willner in cui il contrabbasso l’ha suonato Greg e brani in cui l’ha suonato Larry Taylor; così come ci sono pezzi in cui il chitarrista è Marc Ribot e altri pezzi in cui il chitarrista è G.E. Smith. Io per esempio, ultimamente, finisco i testi delle canzoni solo dopo aver registrato completamente la parte musicale, perché certe interpretazioni dei musicisti mi suggeriscono anche delle immagini. Io mi appoggio molto ai musicisti. E chi ti dà di più, sono i solisti: i sassofonisti, i chitarristi, magari un trombettista, un violinista.
Nel caso specifico dei chitarristi, dopo la pausa che è seguita a Quello che ci resta, Douglas Meakin – il cantante dei Motowns – ha suonato la chitarra ritmica nel Qdisc Quattro canzoni di Mimmo Locasciulli [RCA, 1980]. Ma il mio primo chitarrista ‘solista’ in effetti è stato Marco Manusso in Intorno a trent’anni. Poi, già dalla tournée di Intorno a trent’anni, a lui si è avvicendato Massimo Fumanti, con il quale Marco si è alternato fino al 1987. E si sono avvicendati anche Nicola Di Staso e Carlo Pennisi, quest’ultimo in Confusi in un playback – Live [RCA, 1985]. In quella situazione infatti era come andare al ‘mercato del chitarrista’, a seconda della disponibilità e della stagione, come la frutta e la verdura di stagione… Cioè non è che li potevi sempre scegliere, anche perché non avevo una mole di lavoro tale da poterli impegnare per uno o due anni di fila, come pure si usava fare in quel periodo: disco, tournée estiva, tournée invernale e nuovo disco. Non ce l’avevo tutto questo movimento. Comunque, non ho mai avuto grandi problemi con i musicisti, se non con uno o due chitarristi di cui non faccio il nome, che son durati solo mezza stagione; ma soltanto per una questione di mondi musicali differenti. C’è un aspetto però che giudico importante: in genere con i musicisti amo stabilire un rapporto di amicizia, non da ‘datore di lavoro’. Quando hai un rapporto d’amicizia – e ti devi ‘sentire’ amico, non è che puoi fingere – si crea un’armonia. La musica non è soltanto matematica, è qualcosa che prevede un sentimento, una tranquillità, o un’ansia, una puntualità… In medicina si dice ‘omeostasi’, cioè uno stare bene, con il respiro, con la pancia. Anche nella musica è così. Tra molti miei colleghi ho visto invece dei rapporti così formali e freddi, che sicuramente poi sul palco si evidenziano, magari con una svogliatezza latente, con un entusiasmo difettoso. Molto del mio ‘successo’, quel piccolo successo che ho avuto, è merito dei musicisti. Se le mie canzoni sono piaciute, mica è soltanto perché le ho scritte, ma perché – anche se le ho prodotte io, o se ho avuto un produttore o un arrangiatore – i musicisti ci hanno messo ciascuno del suo. Il musicista ci deve mettere del suo. E tanto più ci mette del suo, quanto più tu hai un rapporto anche di vicinanza; che ti può permettere anche di dirgli: «Mi hai rotto le scatole!» [ride]
Detto questo, passiamo agli ‘stili’ dei chitarristi, ne ho conosciuti diversi. Naturalmente il classico chitarrista pop è quello che fa il suono ‘pettinato’: per esempio, quando sono andato con Francesco De Gregori a New York per fare dei provini insieme a Greg Cohen, il più grande che ho conosciuto si chiama Larry Salzman, ed è il turnista per eccellenza, quello che ti fa il ritmo tric-tric e non sbaglia mai di un decimo di millisecondo. Quello è un tipo di chitarrista che a me in effetti non piace, anche se quel suono pettinato ho dovuto utilizzarlo tante volte sul versante più pop delle mie canzoni. Invece, sul lato opposto, c’è l’estro assoluto e geniale di quell’indisciplinato di Marc Ribot. Mi ricordo la prima volta che sono andato a New York nel ’90, avevo una settimana di studio di registrazione e lui, durante i primi quattro-cinque giorni, stava in un angolo e nemmeno mi parlava, nemmeno mi guardava: ero convinto che stesse bestemmiando perché non gli piaceva la mia musica! Evidentemente stava cercando invece un collegamento, perché poi negli ultimi due giorni si è scatenato e ha fatto quelle cose meravigliose che è riuscito a fare [in Tango dietro l’angolo]. Certo, non puoi fare tutte le canzoni, per come è il mio modulo compositivo, il mio mondo musicale, con Marc Ribot. Devi anche avere la melodia, devi anche avere l’armonia semplice, non dissonante. E allora fortunatamente ci sono anche degli ottimi chitarristi qui a casa nostra. Per esempio con Massimo Fumanti ho un rapporto ormai più che trentennale. Con Paolo Giovenchi ho avuto un rapporto per sette-otto anni. E con Manusso agli inizi. Insomma credo di non potermi lamentare come compagnia di chitarristi.
Da quello che hai raccontato, mi sembra di capire che il tuo modo di comporre sia cambiato dagli inizi, quando la canzone arrivava così bell’e fatta con voce e chitarra.
Sì, è vero. Dico sempre che a vent’anni, e anche a trent’anni, scrivevo dieci canzoni al giorno e ne buttavo undici! Oggi scrivo molto di meno e quello che scrivo mi piace, non butto niente… Provo a raccontarti cos’è cambiato. “Piccola luce” [da Quattro canzoni di Mimmo Locasciulli] per esempio è venuta fuori in dieci minuti, “Natalina” in un quarto d’ora. Cioè ti sentivi ispirato, ti sedevi e facevi la canzone. Però questo avveniva comunque in un periodo in cui ti impegnavi, non dico come in ufficio, ma in cui eri concentrato in quella direzione. In particolare mi ricordo perfettamente com’è nata “Piccola luce”: la sera prima ero andato al Folkstudio a sentire Ettore e Donatina De Carolis, che presentavano il loro disco Stelluccia del cielo non ti scurire [Fonit Cetra, 1973]. Il giorno dopo sono andato a pagare la bolletta della luce e, ritornando in tram e ripensando al titolo di quel disco e alla bolletta della luce, mi è venuta l’immagine «Piccola luce… non ti scurire mai». Sono tornato a casa, mi sono seduto al pianoforte e in dieci minuti è venuta la canzone.
Adesso no. Adesso, anche se ho il pianoforte a casa qui a Roma, in campagna, a casa di mio figlio Matteo a Parigi, a casa di mio padre a Penne, non lo suono mai… o lo suono solo se devo fare un concerto, se devo registrare qualcosa. Poi capita invece che ci passo davanti e mi ci siedo. Allora – e questo mi è capitato per Piano piano [Hobo, 2004], per Sglobal [Hobo, 2006] e in particolare per Idra [Hobo/Parco della Musica, 2009] – mi siedo, mi prendo un blocchettino, metto il registratore sul piano e sto quattro-cinque ore a suonare, registrando tutto quello che mi viene in mente: riff, armonie, tutto. Ogni tanto mi viene un’immagine di testo e scrivo, un titolo, una parola che mi piace. Poi lascio il blocchetto e la musica registrata da una parte, per una settimana-dieci giorni non ci penso proprio più. Quindi mi metto a riascoltare e, da quelle quattro-cinque ore di materiale, tiro fuori quattordici-quindici abbozzi di canzoni. Comincio a pensare a come realizzarle e le realizzo completamente: le registro con tutti i musicisti e tutti gli arrangiamenti. Quando proprio tutta la musica è finita, mi occupo del testo. Come me ne occupo? Mi metto davanti al microfono senza il testo scritto, ho solo qualche appunto, e registro sulla musica diverse tracce di bla-bla-bla o di parole che mi vengono in mente man mano. Insomma la musica, l’arrangiamento, l’apporto dei musicisti e quei pochi appunti che ho, mi permettono di registrare sette-otto tracce diverse. Riascoltando e tirando fuori le parole che ho cantato, me le vado a rileggere, lavoro di cesello e ho fatto il testo. Questo è un processo che mi prende sempre più intensamente e profondamente. E mi piace molto di più, piuttosto che mettermi con la penna a lavorare sulla metrica, a contare quattro frasi nella strofa, poi il bridge, poi il ritornello. No, non voglio farlo più. Io mi metto a cantare, e quello che mi viene in mente registro, poi scelgo, così…
Molto interessante. E adesso arriviamo a Piccoli cambiamenti. Rispetto a quanto dicevi prima circa lo ‘scrivere sempre la stessa canzone’, in effetti questo disco è molto vario, ma anche molto compatto e coerente, ha una sua unità stilistica. Anche qui l’esperienza del produttore e del ‘capobanda’ sembra aver avuto uno spazio importante: hai lavorato anche su basi registrate precedentemente, o è stato tutto risuonato? Come si è svolto il lavoro?
Dopo Idra – che è stato per me un disco massacrante di autocoscienza, di autonalisi – ho attraversato un momento non dico di crisi, ma in effetti avevo dato veramente molto alla mia capacità compositiva, come quando tu spremi tanto un limone e alla fine rimane solo la buccia. E un po’ per la brutta situazione della discografia – dove tu spendi soldi per registrare e promuovere un disco e ti rientra poco, in un periodo in cui la musica è distrazione e consumo, in cui non si sente la musica perché ti piace ma perché si fa e basta, con il novanta per cento delle persone che la ascoltano con la cuffietta – avevo raffreddato i miei entusiasmi. Poi è successo qualcosa. Tu sai, per esempio, che le mie apparizioni televisive nei varietà o in trasmissioni come Domenica in sono ormai un ricordo: le ho fatte fino al ’98 e poi non più, ponendomi in qualche modo in una ‘riserva’, tanto che ci ho scritto pure una canzone, “Lettere dalla riserva” [da Piano piano]. Ma fortunatamente la riserva è abitata anche da uno zoccolo duro, la famosa ‘nicchia’, che ti segue qualunque cosa tu faccia e che non ti abbandona anche se tu stai zitto. Ed è successo che più d’uno di questi abitanti della riserva – anzi parecchi, perché evidentemente tra loro si passano la voce – hanno cominciato a chiedermi un regalo: «Perché non fai per i tuoi fan un disco non in commercio di versioni personalizzate delle tue canzoni?» E mi son detto: «Perché no? Fammi andare a risentire le vecchie registrazioni di cui sono proprietario, dove ci sono molte tracce alternative, molti assoli alternativi». Erano in effetti una sessantina di canzoni su cui potevo lavorare. Così ho cominciato a impegnarmi in quella direzione e ho messo da parte appunti su più di dodici canzoni, alla fine erano venticinque-trenta canzoni. Allora ho pensato: «Scusa, ma a questo punto perché fare una cosa semiclandestina? Piuttosto, dato che si avvicina questo traguardo importante dei quarant’anni di carriera, ho fatto diciassette dischi e ne posso fare un diciottesimo celebrativo, di festa». Insomma ho cambiato direzione e ho cominciato a pensare a chi potevo invitare a questa festa di compleanno!
Questa è stata la genesi del progetto. Parlando poi di come si è svolto in pratica il lavoro, per alcune canzoni ho tenuto batteria e basso per esempio, e ho fatto risuonare pianoforte e chitarre; di altre ho tenuto degli assoli o pezzi di assoli. O magari – oggi la tecnica te lo permette – ho smontato una stesura di batteria modificando le posizioni dei vari elementi. Molte cose le ho volute tenere perché erano belle. Non ho mai stravolto le canzoni. Tu dici che c’è una compattezza. Sì e no. La compattezza c’è, però si passa dagli archi di “Come viviamo questa età” con Gigliola Cinquetti al duetto con Frankie hi-nrg di “Una vita elementare”… È il percorso di quarant’anni della mia musica.
Diciamo che c’è un sottofondo di coerenza anche quando cambia chiaramente stile…
Be’, il denominatore comune dovrei essere io, sono io che garantisco una unitarietà. La mia presenza si sente nella voce, nel pianoforte, nell’organo, negli arrangiamenti degli archi che ho fatto personalmente insieme alla violoncellista Giovanna Famulari e al violinista Juan Carlos Zamora.
Come sono stati realizzati questi arrangiamenti di archi?
Li ho registrati qui nel mio studio, solo con Giovanna e Juan Carlos, doppiando le parti più e più volte…
Sono bellissimi, sembra proprio un’orchestra…
Poi si sentono anche i ‘rumori’ degli archetti sulle corde: se tu registri con un microfono tutta un’orchestra di violini, il ‘rumore’ è la metà; invece quando fai risuonare otto volte un violinista, hai otto volte il rumore dell’arco, è diverso. Ho dovuto lavorarci molto con gli archi…
Be’, a me piace quando di un’orchestra si sente la singolarità degli strumenti e delle loro parti, piuttosto che un suono uniforme…
Ah, ma ci ho lavorato su quest’aspetto, anche sulla disposizione dei suoni. Su certi pezzi ho pensato: «Qui voglio sentire di più il suono della viola, qua voglio sentire di più i suoni gravi…
Sembra un’orchestra da camera…
Un ottetto di archi.
Vogliamo vedere più in dettaglio quali brani sono stati ‘rinfrescati’ e quali risuonati completamente?
Se vuoi, ti posso dire canzone per canzone…
Perché no? Cominciamo da “Piccoli cambiamenti”.
È l’unica canzone inedita, che tra l’altro avevo già registrato come provino dieci anni fa. Era una canzone che cantavo al Folkstudio e di cui mi ero dimenticato il testo, che ho riscritto. E tu hai ritrovato il testo originale poco tempo fa, si chiamava “Marilù”…
Ah, ecco, mi sembrava di averla già sentita!
Lì ci stanno Greg Cohen al contrabbasso e Massimo Buzzi alla batteria. Alla chitarra ci stava Massimo Fumanti, poi la parte l’ho smontata e rimontata con Paolo Giovenchi e altri chitarristi, alla fine ho richiamato Massimo insieme a mio figlio Matteo. Massimo ha fatto una parte in fingerpicking e Matteo l’acustica ritmica. E Massimo è stato l’unico chitarrista che ha risuonato in questo disco; le altre chitarre registrate in precedenza le ho tenute un po’ ‘sotto’. Ricordo che i suoni che lui otteneva con due ampli Peavey, quando l’ho conosciuto più di trent’anni fa, non li faceva nessuno; così come i soli estremamente virtuosistici. Ma adesso Massimo può tranquillamente fare trin-trin-trin come i Coldplay, perché segue il variare del passo musicale nel corso degli anni, ha la cultura musicale necessaria per farlo. Mentre molti chitarristi oggi suonano come suonavano vent’anni fa, non si mettono in sintonia con i tempi che cambiano. E nonostante appartenga a una generazione passata di chitarristi, ho chiamato lui proprio per riattualizzare queste canzoni. Non vedevo altre soluzioni per inserire certi interventi, non gli assoli stratosferici, che non mi servono più e non si usano nemmeno più, ma quelle tre note, quegli arpeggi che sono veramente utili per valorizzare i brani.
La seconda canzone è “Il suono delle campane”.
Sì, il pezzo con Francesco De Gregori, che è ripreso da Uomini, è emblematico: ho ritoccato piano, organo e sassofono, ma è più o meno nella stesura originale; tant’è che il fonico del mastering, Fabrizio De Carolis, si è meravigliato della qualità del suono, talmente alta da far pensare che sia stato registrato oggi con le migliori attrezzature, mentre è stato registrato ventitre anni prima con l’ADAT prima serie.
“Cala la luna”…
È risuonata quasi tutta, ho lasciato soltanto la batteria e l’organo.
Segue “Aria di famiglia” con Enrico Ruggeri.
Totalmente risuonata, con un arrangiamento completamente diverso rispetto alla versione originale.
Vabbe’, “Canzone di sera”…
È tutta risuonata…
“La pioggia e l’esilio”.
Ho tenuto la batteria e il basso.
“Che fine farò”.
È una canzone che ho prodotto la prima volta per Stefano Delacroix [in La legge non vale, Hobo, 1994], che ne è l’autore principale, mentre io ho scritto mezzo testo. Poi un anno dopo la volle ricantare Alessandro Haber [in Haberrante, Hobo, 1995] e in quell’occasione l’abbiamo risuonata tutta, ma abbiamo tenuto lo stesso click e la tonalità era la stessa. Come tracce guida avevo tenuto la batteria e il basso di Delacroix, poi abbiamo registrato delle chitarre ritmiche per far cantare Haber, quindi abbiamo sostituito le tracce precedenti. Poi nel 2002 “Che fine farò” l’ho incisa anch’io in Aria di famiglia [Hobo/Sony Music] sempre nella stessa tonalità e tenendo alcune tracce che avevo usato per Haber. Così, quando ho deciso di mettere questa canzone anche in Piccoli cambiamenti, la tonaltà era la stessa per tutti e tre ed è stato facilissimo prendere un po’ qua e un po’ là. Ho risuonato il pianoforte e l’organo, Fumanti ha risuonato le chitarre e poi abbiamo ricantato tutti e tre.
“Due amiche”.
L’avevo già incisa con Andrea Mirò sempre in Aria di famiglia. Ho risuonato il pianoforte, abbiamo fatto tutti gli archi e Juan Carlos ha aggiunto un bellissimo assolo di violino.
“Aiuto!”
Anche questa l’avevo già incisa con Alex Britti, in Sglobal, però lui ha voluto rifare tutta la sua parte chitarristica, oltre che aggiungere anche il suo canto. Non solo, ha anche aggiunto delle percussioni che non c’erano nell’originale, quelle che lui chiama ‘batterie sudicie’, realizzate con dei loop, dei tamburelli, non saprei dirti esattamente, perché le ha registrate a casa sua. Ma le ho trovate molto belle, mi sono trovato subito d’accordo.
“I musicisti son così”.
Risuonata tutta.
“Confusi in un playback”.
L’avevamo ricantata con Enrico Ruggeri in Aria di famiglia. Qui ho tenuto soltanto la batteria e la fisarmonica. Per capire, io ricomincio a suonare il piano sulla batteria, il basso, la chitarra che c’erano allora, poi man mano sostituisco gli strumenti. Tra l’altro già per un disco come Uomini avevo costruito tutto l’arrangiamento sull’Atari con la batteria finta, il basso finto, le chitarre finte, tutto MIDI, poi ho chiamato man mano i musicisti per suonarci sopra le parti vere. Ho molta esperienza in questo tipo di lavoro. Ma naturalmente devi sapere dove vuoi andare a finire.
In questa canzone è ospite Ligabue, sul quale c’è qualcosa da raccontare.
Be’, nel 1986 lui venne a sentire un mio concerto a una Festa de l’Unità a Soliera di Modena, e con lui c’era il suo manager di allora e di oggi, Claudio Maioli, che lavorava in una radio libera e mi ha fatto un’intervista. Alla fine dell’intervista mi ha dato da ascoltare un nastro di Luciano e me lo ha presentato. Al ritorno in macchina con Gianluca Di Furia, il mio manager ai tempi di Confusi in un playback – Live, io avevo sette-otto cassette da ascoltare, perché me ne davano tante allora e me le sentivo pure. Dopo i primi ascolti, per nulla incoraggianti, gli ho detto: «Vabbe’, dai, sentiamoci pure quest’ultima cassetta che mi hanno dato»… Era una cassetta, che ho tuttora, registrata malissimo dal vivo con dei musicisti improvvisati e un pubblico forse di quindici persone che battevano le mani stancamente. Però, porca miseria, questo Luciano era fortissimo. Morale della favola, da Modena a Roma la cassetta l’abbiamo riascoltata in continuazione e alla fine ho detto a Gianluca: «Chiama il suo manager, falli venire a Roma!» E a Roma ho firmato un contratto di opzione della durata di un anno per presentare Luciano alle case discografiche. Se la cosa andava in porto, io diventavo il suo produttore e il suo editore! Siamo andati alla RCA, abbiamo registrato un provino con “Sogni di rock’n’roll”, “Figlio di un cane”, “Balliamo sul mondo”. Ma alla RCA hanno detto che era una brutta copia di Luca Carboni… E per un motivo o per l’altro, chi aveva già i CCCP, chi aveva i Cento, chi non aveva disponibilità economica, nessuna delle case discografiche che ho contattato era interessata. Passato un anno, alla fine dico: «Luciano, io a te credo a occhi chiusi, ma non ho materialmente i soldi per produrti un disco intero. Ti propongo questo: rifacciamo per bene le canzoni del provino e facciamole uscire come Qdisc. Se c’è un riscontro, mi sento anche di poter investire qualcosa di più per fare un disco vero». E lui mi disse: «Guarda, ti ringrazio molto, ho visto tutto quello che hai fatto. Però mi sono stufato di fare l’impiegato, e ora ho la possibilità di dare due canzoni a Pierangelo Bertoli che me le ha chieste, “Sogni di rock’n’roll” e “Figlio di un cane”». Così Luciano va da Bertoli, gli dà queste canzoni, Bertoli lo presenta al suo produttore Angelo Carrara, Carrara gli dà materialmente tutti i soldi che servivano per registrare un disco intero e va dall’unica casa discografica in cui non avevo nessuna conoscenza, la WEA, che pubblica il suo primo disco. E da lì è partita la sua ascesa.
“Stella di vetro”.
Ho lasciato il basso di Mario Scotti, non solo perché è suonato molto bene, ma anche perché ci tenevo a mantenere una testimonianza di Mario. Poi ho risuonato il piano, l’organo, e ho aggiunto gli archi che non c’erano.
“Non voglio più”.
Tutta risuonata.
“Svegliami domattina”.
L’avevo rifatta su Aria di famiglia, ma lì c’era una lunga introduzione, un po’ come la versione dal vivo di Confusi in un playback – Live. Qui ho tenuto il venti per cento e sono tornato all’arrangiamento della primissima versione [in Intorno a trent’anni] con la dodici corde.
“Una vita elementare”.
Ho tenuto solo la batteria.
Vabbe’, “Tra lo Utah e Tel Aviv”…
L’abbiamo rifatta tutta…
“Siamo noi”.
Anche questa l’abbiamo rifatta, perché la prima versione (in Tango dietro l’angolo) in realtà l’avevamo registrata durante una prova.
“Come viviamo questa età”.
L’avevo incisa in Il futuro (Polygram, 1998) dove c’era anche un cambio di tonalità. L’ho composta e ricomposta, tenendo solo la batteria ed eliminando il cambio di tonalità.
“Intorno a trent’anni”
L’avevo rifatta in Aria di famiglia. Ho lasciato la batteria e una chitarra ritmica.
Be’, così abbiamo chiuso il cerchio. Mi è sembrato istruttivo, in un certo senso hai fatto una piccola lezione sulla registrazione e sulla produzione musicale, ma anche su come ‘giocare’ con la musica. Direi che a questo punto potremmo andare a tavola…
Certamente!
Andrea Carpi