lunedì, 20 Maggio , 2024
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Di ritorno dal giro del mondo – Intervista ad Andrea Valeri

Ai giovani bisogna crederci, soprattutto di questi tempi. E quando Andrea Valeri si è affacciato per la prima volta sul palco di fingerpicking.net all’Acoustic Guitar Meeting del 2007, all’età di sedici anni, il suo talento musicale apparve subito evidente. Forse non era chiaro cosa ci si potesse aspettare da una personalità ancora inevitabilmente acerba. Ma anche la sua determinazione, la sua ‘fame’ di traguardi sembrava veramente tanta. E il talento unito alla determinazione porta già di per sé lontano. Di strada, da allora, Andrea ne ha macinata e ne ha costruita molta. Così che il suo ultimo album DayDream, coraggiosamente dedicato a sole composizioni originali, supportato da una produzione e da un management intraprendente, gli ha aperto meritatamente e con successo molte porte del mondo, con giri di concerti dall’Australia al Sudafrica, dalla Nuova Zelanda all’Europa dell’Est e alla Russia. Lo abbiamo incontrato a Madame Guitar di ritorno da una di queste avventure, felice come una pasqua con la sua nuova Maton ER90C costruita espressamente per lui dalla casa australiana, incredibilmente maturato a livello personale, ricco di nuove esperienze e desideroso di raccontare e di comunicare, forse anche un po’ affaticato e bisognoso di un momento di pausa, ma al tempo stesso impaziente di rimettersi subito al lavoro come un adulto.

Cosa è accaduto, dunque,  dopo l’uscita dell’album DayDream?
Quello che è accaduto da quando è uscito l’album è stato un boom, un boom di cose che nemmeno io mi aspettavo succedessero. DayDream è stato un inizio di ciò che si sta sviluppando ora. È stato l’album che ho deciso di fare scegliendo di seguire una strada ben precisa, quella di scrivere tutti i pezzi del disco, senza mettere nemmeno un arrangiamento. Che è quello che sto continuando a fare adesso, cercare di scrivere, scrivere, scrivere! Mi sento abbastanza produttivo. Sto facendo tanti viaggi, che mi permettono di scrivere di nuove esperienze, nuove avventure. Quindi DayDream ha rappresentato l’inizio di una nuova impostazione che adesso sto cercando di portare avanti, quella di smettere completamente di arrangiare brani di altri e di concentrarmi su quello che sono io, su quello che viene da me: “Guanches”, “Afrisong”, “La lettera” e altre cose che vengono non solo dai viaggi, ma anche dalle esperienze dirette che ho vissuto con le persone che ho conosciuto. Quando ho scritto “Afrisong”, ho ripensato spesso a una cosa che mi era successa in Sudafrica: lì le città sono divise in due ed è successo che un ragazzo, che era molto povero, mi ha aspettato all’ingresso del teatro in cui ho suonato e mi ha detto: «Vedi, se io riesco a vendere abbastanza cose da permettermi di comprare il biglietto per venire a sentirti, lo compro e stasera vengo al tuo concerto!» Il biglietto era di 165 rands, circa 15 euro, ma la sera poi non l’ho visto. Il giorno dopo è tornato, m’ha aspettato al solito punto e mi ha confidato: «Sai che non ce l’ho fatta a vendere abbastanza cose!» Allora gli ho detto «Vieni, vieni» e mentre ero al sound check gli ho fatto un concerto solo per lui, è stato bellissimo!
Il risultato di DayDream deriva anche dal fattore… Mark Knopfler, da quello che Knopfler ha saputo dirmi con la sua musica. Perché ti dico di Mark Knopfler?

…Eh, già, perché? Finora non si è molto parlato di Knopfler come di una tua influenza. Si è in genere parlato piuttosto di Tommy Emmanuel…
…Sbagliando, tante volte. Sbagliando totalmente, perché molte persone mi vedono così sul palco, dove cerco di essere ‘aperto’ con la gente, e solo perché suono con la Maton e con questa indole mi ricollegano a lui, a Tommy Emmanuel. Ma io questa caratteristica ce l’avevo ben prima, ce l’avevo già fin da quando salivo sul palco a dieci anni. Certo che l’ho accresciuta, con gli anni, con le esperienze che ho fatto son cresciuto, così come devo ancora crescere per chissà quanti anni.
Perché Knopfler, invece? Nessuno se n’è accorto, ma è l’influenza più grande che ho adesso. Perché ho capito una cosa grandissima da lui, una cosa che ascoltando tanti chitarristi non avevo mai potuto capire: che lui non è un chitarrista, è un musicista, il che è molto diverso. Certe volte mi sono ritrovato non con la chitarra, ma con un altro strumento qualsiasi, e se avevo intenzione di scrivere qualcosa, lo potevo fare, perché il mio concetto non prevede che io abbia la chitarra per poter scrivere qualcosa, quel qualcosa io ce l’ho già. E lui questa cosa ce l’ha, naturalmente. Qualsiasi nota lui scelga, non è mai lì a caso. Lui mette anche due note, ma al punto giusto e al momento giusto. E questa è una cosa grandissima, la sua musicalità, la sua eleganza, il suo desiderio di esprimere anche attraverso la semplicità. Quando ho ascoltato la title track del suo disco Get Lucky nel 2009, che lui fa in posizione di Sol, mi sono detto: «Ma perché caspita a me un Sol maggiore non mi ha mai suonato così?!» Perché lui lo suona con quel qualcosa in più, quell’anima in più, come non ho mai sentito fare da nessuno. E questa è una cosa che mi ci è voluto più tempo per capirla.
Michael Fix, che sostiene di essere il mio ‘babbo’ australiano, mi ha detto una cosa bellissima: «Lo sai che io alla tua età partivo con un milione di note, e mano a mano negli anni le ho sempre più ridotte, ora ne faccio una!» E ho capito quello che voleva dire: voleva dire che lui prima ne metteva tante di parole, adesso ha scelto quella fondamentale, quella che ti serve per esprimere qualcosa. Così ho capito anche che potevo scrivere i brani per le mie storie, quelle che ho vissuto io, e ‘dirle’ seguendo questo metodo. Tanto che quando mi son ritrovato in tour in Australia, in Nuova Zelanda, venivano dopo il concerto e mi dicevano: «Ah, “Sultans of Swing”, mai sentita arrangiata così! Ma “Tango e vai”, “Afrisong”, caspita, mi hanno preso talmente tanto!» Allora mi son detto: «Vedi che il lavoro che sto facendo probabilmente dà il suo risultato!» Siccome volevo dire qualcosa di nuovo, qualcosa di mio, mi sono ritrovato a sbattere in una realtà che si sta affermando come quella di Tommy o quella di Michael, che comunque hanno già portato avanti quello che è il fingerpicking. Io non sono nemmeno un chitarrista prettamente fingerpicking, a me piace spaziare, ascolto un sacco di colonne sonore adesso. Perché i compositori di colonne sonore cosa fanno: cercano di esprimere con la musica una storia, la storia del film. Così mi son detto: «Se loro tentano di scrivere una storia con la musica, allora se ascolto tante di queste cose, posso imparare anch’io come esprimere una storia con la mia musica, senza bisogno delle parole… visto che non sono un gran poeta!»

Puoi raccontarci qualcosa dei paesi in cui sei stato nei tuoi tour?
Quest’anno mi son ritrovato dal Sudafrica all’Australia e alla Nuova Zelanda, poi Russia, Svezia, Danimarca, Germania, ora andrò in Svizzera, di nuovo in Polonia e in altri stati che ho visitato negli anni scorsi. In Sudafrica per me è stato l’inizio di un modo di vedere diverso, perché là il pubblico ha recepito il mio arrivo come un ‘trionfo’, l’ha vissuto come un evento…

…Di un giovane chitarrista che viene…
…Da lontano e viene a portare qualcosa che è suo, della sua terra. E quello che è successo è che la reazione del pubblico è stata straordinaria. Io non me l’aspettavo, ma nell’ultima settimana gli spettacoli erano tutti esauriti. In Australia è diverso, perché là sono già abituati al chitarrismo, ai numeri virtuosistici, hanno dei nomi importanti, per cui erano tutti attenti a guardare il ‘cuore’ della musica. Mentre tante volte qui nell’arco europeo, e anche italiano, ci si sofferma a guardare la tecnica, a fare dei confronti: è il continuo confronto la cosa che più è sbagliata. Là in Australia, che è una terra dove di confronti ce ne potrebbero essere di tremendi, il confronto non c’è, perché non hanno bisogno di mettere questo in evidenza…

Mettono in evidenza le cose da dire…
Sì, loro guardano dentro di te, guardano il piezz’e core, e noi ce l’abbiamo… A noi, fuori, laggiù in quelle terre, ci invidiano tantissimo, perché qui noi abbiamo tutto. E il punto è che ce ne scordiamo, tante volte anche nei festival si vanno a cercare sempre i nomi esteri, per portare più gente. Invece laggiù promuovono gli artisti del posto, e quando ci va qualcuno da fuori, non lo mettono a confronto, tendono a cercare di capire qual è il suo linguaggio, che cosa ha da dire, qual è la cosa nuova che porta. Invece qua, soprattutto in Italia secondo me, ma questa è un’opinione strettamente personale, siamo abituati a confrontare, a dire sempre «questo è meglio di quello, quello è meglio di quest’altro»… Invece no, tutti sono ‘unici’! Io non ho mai conosciuto un chitarrista che sappia fare le cose che fa Michael, perché lui è unico, com’è unico Mark, come sono unici tutti nel loro modo di essere. In Australia nessuno, proprio nessuno, mi ha mai nominato Tommy Emmanuel quando è venuto a un mio concerto. Perché loro guardano altre cose, guardano “Afrisong”, “Guanches”, gli altri pezzi, guardano quello che ho costruito e che sto costruendo man mano.

A livello organizzativo come si è sviluppata tutta questa attività internazionale: ci sono stati dei promotori in particolare, è stato un passaparola?
Entambe le cose. Ho iniziato a lavorare con un management di Milano pochi mesi fa, per cui l’organizzazione non è ancora definitiva, stiamo cercando di allargare il campo d’azione. Poi ci sono dei promoter in vari paesi, ma la bella cosa è che prima di questi promoter c’è stato il passaparola, c’è stata una diffusione che io non mi sarei mai aspettato, in gran parte su Internet. Figurati che in Russia abbiamo avuto due concerti esauriti su tre, mentre il terzo era quasi esaurito, e nel primo a San Pietroburgo erano venuti anche dalla Bielorussia, dalla Finlandia, dalla Svezia, dall’Ungheria, dall’Ukraina: erano venuti da tutti i paesi dell’Europa dell’Est per vedere quel concerto, gente che avrà fatto 1500 chilometri d’aereo! Sembra impossibile da spiegare. In Russia e in Australia ho incontrato giovani che suonavano i miei pezzi e venivano a chiedermi dei consigli. Io in un certo senso sto perdendo il controllo di quello che sta succedendo. Onestamente ti devo dire che ho delegato tutto, non ho più il controllo di nulla, nemmeno del mio profilo su Facebook e del mio sito Internet. Ora mi sento in una situazione di stallo, perché ho delegato tutto a persone di fiducia, per cui se loro commettono uno sbaglio, lo fanno sulla mia faccia. Ma io non ce la facevo più da solo.

In Australia è nata anche la tua nuova Maton personalizzata.
Io e i responsabili della Maton in Australia eravamo in contatto da diversi anni. Ci sono state delle difficoltà riguardo alla distribuzione dei loro strumenti in Italia, ma appena c’è stata l’opportunità di riorganizzare le cose, abbiamo potuto portare a compimento questa collaborazione. Io avevo la mia Maton EBG 808, che ho suonato per cinque anni tutti i santi giorni, ed ero molto soddisfatto, sono ancora molto soddisfatto, è una bellissima chitarra. Però avevo bisogno di qualcosa di più, una chitarra ‘forte’ in studio, quindi che avesse un discreto volume, una discreta dinamica e soprattutto più anima, più ‘ciccia’. La EBG è molto potente, ma non è ‘grossa’. Inizialmente alla Maton avevo chiesto un’altra EBG, ma avevo provato anche delle dreadnought che erano molto belle, e loro mi hanno detto che stavano sviluppando un nuovo modello, la ER90C, che era in commercio nel mercato statunitense, ma non era ancora in commercio in Europa. E il mio è il primo modello che c’è in Europa della ER90C, con alcune personalizzazioni. Nella ER90C hanno modificato lo scheletro interno dello strumento e alcuni dettagli degli spessori, rendendola più ‘cicciona’ anche a livello di volume.

Come formato sembra una dreadnought…
È un po’ diversa, un pochino più dolce e meno squadrata, è un formato originale Maton. Del resto questa è la loro maniera di lavorare su tutte le chitarre. Quando sono stato a Melbourne, sono stato a visitare la loro fabbrica e ho fatto uno spettacolo per i loro dipendenti. E mi sono reso conto di una cosa bellissima: generalmente quando una fabbrica diventa grande, si pensa che venga prodotto tutto a macchina; invece loro hanno due o tre macchine per la smezzatura dei legni, poi tutto il resto lo fanno a mano. Ho contato venti-trenta persone che lavorano, ognuna fa le sue cose, lavora al proprio modello: c’è chi lavora alla Mini Maton, chi lavora alle elettriche; ognuno fa la sua parte: c’è chi fa gli intarsi, chi leviga i manici, per cui è tutto fatto rigorosamente a mano, a partire dal legno fino al sistema di amplificazione.
Sta di fatto che, tornando alla mia nuova chitarra, me ne sono innamorato perché ha tutte le caratteristiche che ci volevano per me: ha volume, un bel timbro, dei bei bassi, molta dinamica.

L’impressione è come se avesse delle corde di maggiore spessore rispetto alla tua vecchia EBG.
No, sono esattamente le stesse, delle Ernie Ball .012/.054 con i due bassi rinforzati. Sono abbastanza ‘durotte’ da suonare, ma con questo nuovo manico, che è leggermente sfinato, mi trovo bene. La larghezza della tastiera al capotasto è di 44 millimetri, proprio come nella EBG. Nella ER90C standard la sella del ponte e il capotasto sono in fibra sintetica nera, mentre io li ho fatti montare in osso. Come sistema di amplificazione, invece dell’AP5 di serie che è un piezoelettrico, ho fatto montare un APMIC che ha anche il microfono a condensatore incorporato. È una bella combinazione: se la senti in un teatro con un impianto di amplificazione con i subwoofer, ti fa tremare le sedie, ti spettina! E non è solo un discorso di potenza, è anche molto fedele, quindi ha un margine di rispetto delle dinamiche molto ampio. Poi la chitarra ha un gran suono anche non amplificata. La EBG ha avuto bisogno di crescere negli anni per tirar fuori tutto il suo suono acustico, mentre questa inizia già un passo avanti. Ultima particolarità: le mie iniziali al dodicesimo tasto!

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi, dopo questo lungo girare?
Credo che il mio obiettivo ora sia prima di tutto scrivere pezzi. A me piace molto suonare dal vivo, però se ti devo dire qual è il momento che apprezzo di più, è quando scrivo qualcosa di nuovo e mi metto a lavorarci su e a confrontarmi con gli altri musicisti…

Sì, perché adesso tu stai anche mettendo su un gruppo.
Sì, ci stanno alcuni video sul mio canale YouTube. Il progetto lo stiamo chiamando per il momento Andrea Valeri & Friends, e loro sono Luigi Nannetti al flauto traverso, Alberto ‘Mons’ Montagnani alla chitarra acustica, Fabrizio Balest al basso e Giacomo Macelloni alla batteria. Macelloni ha lavorato per tanto tempo con i Super B, Prozac+, Ottavo Padiglione, RHumornero, ha aperto per i Deep Purple, è una persona di spessore come tutti nel gruppo. Nannetti è diplomato al conservatorio, come anche Balest. Alberto ‘Mons’ lo conosco dal 2008, è un cantautore con dei CD all’attivo, spesso ospite in trasmissioni televisive anche su Raiuno e Raidue. Confrontarmi con loro è una cosa spesso indispensabile per me. “Australia”, “Guanches”, “Afrisong”, tutto quello che io faccio anche da solista lo suoniamo insieme, oltre ad altri pezzi che da solo non faccio. Io continuo a essere Andrea Valeri, ma quando si presenta l’opportunità di organizzare dei concerti più grandi, magari in realtà dove sono già stato più volte da solo, cerco di offrire qualcosa di nuovo con il gruppo. È un gruppo piuttosto spinto, sul rockettaro. E la bellezza di questa cosa è che tutti hanno una sensibilità spiccata. Quello che ci lega, è che ci mettiamo tutti al servizio del pezzo: ognuno fa la propria parte, ma non per sovrastare l’altro; anzi, facciamo tutti di meno, io stesso faccio tanto di meno. Però il pezzo risulta tanto più bello. Perché è come costruire qualcosa insieme: uno dice «io ci farei questo», un altro dice «Io ci farei quest’altro». Così, quando vado ad affrontare un altro brano, allora m’immagino: «Ma Giacomo cosa avrebbe pensato qui? Fabrizio cosa avrebbe pensato qua? Allora è meglio che ci ripenso meglio, che lo rifaccio»…

Quindi, a questo punto, come ti si presenta l’idea di un prossimo disco?
Lo vedo come un’esperienza cumulativa di tutto questo, perché io sono l’uno e l’altro. Ci vedo tante collaborazioni prima di tutto, perché andando avanti e indietro per questi paesi ho conosciuto tantissimi musicisti che mi piacerebbe raggruppare in un lavoro. Ovviamente ci saranno anche delle cose che preferisco suonare da solo, perché io lo sento: quando una cosa preferisco suonarla da solo, è perché credo che a quel brano – se non lo suono da solo – non riesco a dargli il giusto tiro. Altre cose, invece, mi piace di più suonarle con gli altri. Per cui un prossimo disco io lo vedo molto ‘misto’, lo vedo come un lavoro ‘grande’, pieno di nuove composizioni e… ci sto già lavorando!

Andrea Carpi


Chitarra Acustica, 12/2012, pp. 16-19Ai giovani bisogna crederci, soprattutto di questi tempi. E quando Andrea Valeri si è affacciato per la prima volta sul palco di fingerpicking.net all’Acoustic Guitar Meeting del 2007, all’età di sedici anni, il suo talento musicale apparve subito evidente. Forse non era chiaro cosa ci si potesse aspettare da una personalità ancora inevitabilmente acerba. Ma anche la sua determinazione, la sua ‘fame’ di traguardi sembrava veramente tanta. E il talento unito alla determinazione porta già di per sé lontano. Di strada, da allora, Andrea ne ha macinata e ne ha costruita molta. Così che il suo ultimo album DayDream, coraggiosamente dedicato a sole composizioni originali, supportato da una produzione e da un management intraprendente, gli ha aperto meritatamente e con successo molte porte del mondo, con giri di concerti dall’Australia al Sudafrica, dalla Nuova Zelanda all’Europa dell’Est e alla Russia. Lo abbiamo incontrato a Madame Guitar di ritorno da una di queste avventure, felice come una pasqua con la sua nuova Maton ER90C costruita espressamente per lui dalla casa australiana, incredibilmente maturato a livello personale, ricco di nuove esperienze e desideroso di raccontare e di comunicare, forse anche un po’ affaticato e bisognoso di un momento di pausa, ma al tempo stesso impaziente di rimettersi subito al lavoro come un adulto.

Cosa è accaduto, dunque,  dopo l’uscita dell’album DayDream?
Quello che è accaduto da quando è uscito l’album è stato un boom, un boom di cose che nemmeno io mi aspettavo succedessero. DayDream è stato un inizio di ciò che si sta sviluppando ora. È stato l’album che ho deciso di fare scegliendo di seguire una strada ben precisa, quella di scrivere tutti i pezzi del disco, senza mettere nemmeno un arrangiamento. Che è quello che sto continuando a fare adesso, cercare di scrivere, scrivere, scrivere! Mi sento abbastanza produttivo. Sto facendo tanti viaggi, che mi permettono di scrivere di nuove esperienze, nuove avventure. Quindi DayDream ha rappresentato l’inizio di una nuova impostazione che adesso sto cercando di portare avanti, quella di smettere completamente di arrangiare brani di altri e di concentrarmi su quello che sono io, su quello che viene da me: “Guanches”, “Afrisong”, “La lettera” e altre cose che vengono non solo dai viaggi, ma anche dalle esperienze dirette che ho vissuto con le persone che ho conosciuto. Quando ho scritto “Afrisong”, ho ripensato spesso a una cosa che mi era successa in Sudafrica: lì le città sono divise in due ed è successo che un ragazzo, che era molto povero, mi ha aspettato all’ingresso del teatro in cui ho suonato e mi ha detto: «Vedi, se io riesco a vendere abbastanza cose da permettermi di comprare il biglietto per venire a sentirti, lo compro e stasera vengo al tuo concerto!» Il biglietto era di 165 rands, circa 15 euro, ma la sera poi non l’ho visto. Il giorno dopo è tornato, m’ha aspettato al solito punto e mi ha confidato: «Sai che non ce l’ho fatta a vendere abbastanza cose!» Allora gli ho detto «Vieni, vieni» e mentre ero al sound check gli ho fatto un concerto solo per lui, è stato bellissimo!
Il risultato di DayDream deriva anche dal fattore… Mark Knopfler, da quello che Knopfler ha saputo dirmi con la sua musica. Perché ti dico di Mark Knopfler?

…Eh, già, perché? Finora non si è molto parlato di Knopfler come di una tua influenza. Si è in genere parlato piuttosto di Tommy Emmanuel…
…Sbagliando, tante volte. Sbagliando totalmente, perché molte persone mi vedono così sul palco, dove cerco di essere ‘aperto’ con la gente, e solo perché suono con la Maton e con questa indole mi ricollegano a lui, a Tommy Emmanuel. Ma io questa caratteristica ce l’avevo ben prima, ce l’avevo già fin da quando salivo sul palco a dieci anni. Certo che l’ho accresciuta, con gli anni, con le esperienze che ho fatto son cresciuto, così come devo ancora crescere per chissà quanti anni.
Perché Knopfler, invece? Nessuno se n’è accorto, ma è l’influenza più grande che ho adesso. Perché ho capito una cosa grandissima da lui, una cosa che ascoltando tanti chitarristi non avevo mai potuto capire: che lui non è un chitarrista, è un musicista, il che è molto diverso. Certe volte mi sono ritrovato non con la chitarra, ma con un altro strumento qualsiasi, e se avevo intenzione di scrivere qualcosa, lo potevo fare, perché il mio concetto non prevede che io abbia la chitarra per poter scrivere qualcosa, quel qualcosa io ce l’ho già. E lui questa cosa ce l’ha, naturalmente. Qualsiasi nota lui scelga, non è mai lì a caso. Lui mette anche due note, ma al punto giusto e al momento giusto. E questa è una cosa grandissima, la sua musicalità, la sua eleganza, il suo desiderio di esprimere anche attraverso la semplicità. Quando ho ascoltato la title track del suo disco Get Lucky nel 2009, che lui fa in posizione di Sol, mi sono detto: «Ma perché caspita a me un Sol maggiore non mi ha mai suonato così?!» Perché lui lo suona con quel qualcosa in più, quell’anima in più, come non ho mai sentito fare da nessuno. E questa è una cosa che mi ci è voluto più tempo per capirla.
Michael Fix, che sostiene di essere il mio ‘babbo’ australiano, mi ha detto una cosa bellissima: «Lo sai che io alla tua età partivo con un milione di note, e mano a mano negli anni le ho sempre più ridotte, ora ne faccio una!» E ho capito quello che voleva dire: voleva dire che lui prima ne metteva tante di parole, adesso ha scelto quella fondamentale, quella che ti serve per esprimere qualcosa. Così ho capito anche che potevo scrivere i brani per le mie storie, quelle che ho vissuto io, e ‘dirle’ seguendo questo metodo. Tanto che quando mi son ritrovato in tour in Australia, in Nuova Zelanda, venivano dopo il concerto e mi dicevano: «Ah, “Sultans of Swing”, mai sentita arrangiata così! Ma “Tango e vai”, “Afrisong”, caspita, mi hanno preso talmente tanto!» Allora mi son detto: «Vedi che il lavoro che sto facendo probabilmente dà il suo risultato!» Siccome volevo dire qualcosa di nuovo, qualcosa di mio, mi sono ritrovato a sbattere in una realtà che si sta affermando come quella di Tommy o quella di Michael, che comunque hanno già portato avanti quello che è il fingerpicking. Io non sono nemmeno un chitarrista prettamente fingerpicking, a me piace spaziare, ascolto un sacco di colonne sonore adesso. Perché i compositori di colonne sonore cosa fanno: cercano di esprimere con la musica una storia, la storia del film. Così mi son detto: «Se loro tentano di scrivere una storia con la musica, allora se ascolto tante di queste cose, posso imparare anch’io come esprimere una storia con la mia musica, senza bisogno delle parole… visto che non sono un gran poeta!»

Puoi raccontarci qualcosa dei paesi in cui sei stato nei tuoi tour?
Quest’anno mi son ritrovato dal Sudafrica all’Australia e alla Nuova Zelanda, poi Russia, Svezia, Danimarca, Germania, ora andrò in Svizzera, di nuovo in Polonia e in altri stati che ho visitato negli anni scorsi. In Sudafrica per me è stato l’inizio di un modo di vedere diverso, perché là il pubblico ha recepito il mio arrivo come un ‘trionfo’, l’ha vissuto come un evento…

…Di un giovane chitarrista che viene…
…Da lontano e viene a portare qualcosa che è suo, della sua terra. E quello che è successo è che la reazione del pubblico è stata straordinaria. Io non me l’aspettavo, ma nell’ultima settimana gli spettacoli erano tutti esauriti. In Australia è diverso, perché là sono già abituati al chitarrismo, ai numeri virtuosistici, hanno dei nomi importanti, per cui erano tutti attenti a guardare il ‘cuore’ della musica. Mentre tante volte qui nell’arco europeo, e anche italiano, ci si sofferma a guardare la tecnica, a fare dei confronti: è il continuo confronto la cosa che più è sbagliata. Là in Australia, che è una terra dove di confronti ce ne potrebbero essere di tremendi, il confronto non c’è, perché non hanno bisogno di mettere questo in evidenza…

Mettono in evidenza le cose da dire…
Sì, loro guardano dentro di te, guardano il piezz’e core, e noi ce l’abbiamo… A noi, fuori, laggiù in quelle terre, ci invidiano tantissimo, perché qui noi abbiamo tutto. E il punto è che ce ne scordiamo, tante volte anche nei festival si vanno a cercare sempre i nomi esteri, per portare più gente. Invece laggiù promuovono gli artisti del posto, e quando ci va qualcuno da fuori, non lo mettono a confronto, tendono a cercare di capire qual è il suo linguaggio, che cosa ha da dire, qual è la cosa nuova che porta. Invece qua, soprattutto in Italia secondo me, ma questa è un’opinione strettamente personale, siamo abituati a confrontare, a dire sempre «questo è meglio di quello, quello è meglio di quest’altro»… Invece no, tutti sono ‘unici’! Io non ho mai conosciuto un chitarrista che sappia fare le cose che fa Michael, perché lui è unico, com’è unico Mark, come sono unici tutti nel loro modo di essere. In Australia nessuno, proprio nessuno, mi ha mai nominato Tommy Emmanuel quando è venuto a un mio concerto. Perché loro guardano altre cose, guardano “Afrisong”, “Guanches”, gli altri pezzi, guardano quello che ho costruito e che sto costruendo man mano.

A livello organizzativo come si è sviluppata tutta questa attività internazionale: ci sono stati dei promotori in particolare, è stato un passaparola?
Entambe le cose. Ho iniziato a lavorare con un management di Milano pochi mesi fa, per cui l’organizzazione non è ancora definitiva, stiamo cercando di allargare il campo d’azione. Poi ci sono dei promoter in vari paesi, ma la bella cosa è che prima di questi promoter c’è stato il passaparola, c’è stata una diffusione che io non mi sarei mai aspettato, in gran parte su Internet. Figurati che in Russia abbiamo avuto due concerti esauriti su tre, mentre il terzo era quasi esaurito, e nel primo a San Pietroburgo erano venuti anche dalla Bielorussia, dalla Finlandia, dalla Svezia, dall’Ungheria, dall’Ukraina: erano venuti da tutti i paesi dell’Europa dell’Est per vedere quel concerto, gente che avrà fatto 1500 chilometri d’aereo! Sembra impossibile da spiegare. In Russia e in Australia ho incontrato giovani che suonavano i miei pezzi e venivano a chiedermi dei consigli. Io in un certo senso sto perdendo il controllo di quello che sta succedendo. Onestamente ti devo dire che ho delegato tutto, non ho più il controllo di nulla, nemmeno del mio profilo su Facebook e del mio sito Internet. Ora mi sento in una situazione di stallo, perché ho delegato tutto a persone di fiducia, per cui se loro commettono uno sbaglio, lo fanno sulla mia faccia. Ma io non ce la facevo più da solo.

In Australia è nata anche la tua nuova Maton personalizzata.
Io e i responsabili della Maton in Australia eravamo in contatto da diversi anni. Ci sono state delle difficoltà riguardo alla distribuzione dei loro strumenti in Italia, ma appena c’è stata l’opportunità di riorganizzare le cose, abbiamo potuto portare a compimento questa collaborazione. Io avevo la mia Maton EBG 808, che ho suonato per cinque anni tutti i santi giorni, ed ero molto soddisfatto, sono ancora molto soddisfatto, è una bellissima chitarra. Però avevo bisogno di qualcosa di più, una chitarra ‘forte’ in studio, quindi che avesse un discreto volume, una discreta dinamica e soprattutto più anima, più ‘ciccia’. La EBG è molto potente, ma non è ‘grossa’. Inizialmente alla Maton avevo chiesto un’altra EBG, ma avevo provato anche delle dreadnought che erano molto belle, e loro mi hanno detto che stavano sviluppando un nuovo modello, la ER90C, che era in commercio nel mercato statunitense, ma non era ancora in commercio in Europa. E il mio è il primo modello che c’è in Europa della ER90C, con alcune personalizzazioni. Nella ER90C hanno modificato lo scheletro interno dello strumento e alcuni dettagli degli spessori, rendendola più ‘cicciona’ anche a livello di volume.

Come formato sembra una dreadnought…
È un po’ diversa, un pochino più dolce e meno squadrata, è un formato originale Maton. Del resto questa è la loro maniera di lavorare su tutte le chitarre. Quando sono stato a Melbourne, sono stato a visitare la loro fabbrica e ho fatto uno spettacolo per i loro dipendenti. E mi sono reso conto di una cosa bellissima: generalmente quando una fabbrica diventa grande, si pensa che venga prodotto tutto a macchina; invece loro hanno due o tre macchine per la smezzatura dei legni, poi tutto il resto lo fanno a mano. Ho contato venti-trenta persone che lavorano, ognuna fa le sue cose, lavora al proprio modello: c’è chi lavora alla Mini Maton, chi lavora alle elettriche; ognuno fa la sua parte: c’è chi fa gli intarsi, chi leviga i manici, per cui è tutto fatto rigorosamente a mano, a partire dal legno fino al sistema di amplificazione.
Sta di fatto che, tornando alla mia nuova chitarra, me ne sono innamorato perché ha tutte le caratteristiche che ci volevano per me: ha volume, un bel timbro, dei bei bassi, molta dinamica.

L’impressione è come se avesse delle corde di maggiore spessore rispetto alla tua vecchia EBG.
No, sono esattamente le stesse, delle Ernie Ball .012/.054 con i due bassi rinforzati. Sono abbastanza ‘durotte’ da suonare, ma con questo nuovo manico, che è leggermente sfinato, mi trovo bene. La larghezza della tastiera al capotasto è di 44 millimetri, proprio come nella EBG. Nella ER90C standard la sella del ponte e il capotasto sono in fibra sintetica nera, mentre io li ho fatti montare in osso. Come sistema di amplificazione, invece dell’AP5 di serie che è un piezoelettrico, ho fatto montare un APMIC che ha anche il microfono a condensatore incorporato. È una bella combinazione: se la senti in un teatro con un impianto di amplificazione con i subwoofer, ti fa tremare le sedie, ti spettina! E non è solo un discorso di potenza, è anche molto fedele, quindi ha un margine di rispetto delle dinamiche molto ampio. Poi la chitarra ha un gran suono anche non amplificata. La EBG ha avuto bisogno di crescere negli anni per tirar fuori tutto il suo suono acustico, mentre questa inizia già un passo avanti. Ultima particolarità: le mie iniziali al dodicesimo tasto!

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi, dopo questo lungo girare?
Credo che il mio obiettivo ora sia prima di tutto scrivere pezzi. A me piace molto suonare dal vivo, però se ti devo dire qual è il momento che apprezzo di più, è quando scrivo qualcosa di nuovo e mi metto a lavorarci su e a confrontarmi con gli altri musicisti…

Sì, perché adesso tu stai anche mettendo su un gruppo.
Sì, ci stanno alcuni video sul mio canale YouTube. Il progetto lo stiamo chiamando per il momento Andrea Valeri & Friends, e loro sono Luigi Nannetti al flauto traverso, Alberto ‘Mons’ Montagnani alla chitarra acustica, Fabrizio Balest al basso e Giacomo Macelloni alla batteria. Macelloni ha lavorato per tanto tempo con i Super B, Prozac+, Ottavo Padiglione, RHumornero, ha aperto per i Deep Purple, è una persona di spessore come tutti nel gruppo. Nannetti è diplomato al conservatorio, come anche Balest. Alberto ‘Mons’ lo conosco dal 2008, è un cantautore con dei CD all’attivo, spesso ospite in trasmissioni televisive anche su Raiuno e Raidue. Confrontarmi con loro è una cosa spesso indispensabile per me. “Australia”, “Guanches”, “Afrisong”, tutto quello che io faccio anche da solista lo suoniamo insieme, oltre ad altri pezzi che da solo non faccio. Io continuo a essere Andrea Valeri, ma quando si presenta l’opportunità di organizzare dei concerti più grandi, magari in realtà dove sono già stato più volte da solo, cerco di offrire qualcosa di nuovo con il gruppo. È un gruppo piuttosto spinto, sul rockettaro. E la bellezza di questa cosa è che tutti hanno una sensibilità spiccata. Quello che ci lega, è che ci mettiamo tutti al servizio del pezzo: ognuno fa la propria parte, ma non per sovrastare l’altro; anzi, facciamo tutti di meno, io stesso faccio tanto di meno. Però il pezzo risulta tanto più bello. Perché è come costruire qualcosa insieme: uno dice «io ci farei questo», un altro dice «Io ci farei quest’altro». Così, quando vado ad affrontare un altro brano, allora m’immagino: «Ma Giacomo cosa avrebbe pensato qui? Fabrizio cosa avrebbe pensato qua? Allora è meglio che ci ripenso meglio, che lo rifaccio»…

Quindi, a questo punto, come ti si presenta l’idea di un prossimo disco?
Lo vedo come un’esperienza cumulativa di tutto questo, perché io sono l’uno e l’altro. Ci vedo tante collaborazioni prima di tutto, perché andando avanti e indietro per questi paesi ho conosciuto tantissimi musicisti che mi piacerebbe raggruppare in un lavoro. Ovviamente ci saranno anche delle cose che preferisco suonare da solo, perché io lo sento: quando una cosa preferisco suonarla da solo, è perché credo che a quel brano – se non lo suono da solo – non riesco a dargli il giusto tiro. Altre cose, invece, mi piace di più suonarle con gli altri. Per cui un prossimo disco io lo vedo molto ‘misto’, lo vedo come un lavoro ‘grande’, pieno di nuove composizioni e… ci sto già lavorando!

Andrea Carpi


Chitarra Acustica, 12/2012, pp. 16-19

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