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Il cantautore e il chitarrista necessari – Intervista a Edoardo De Angelis e Michele Ascolese

(di Gabriele Longo) – Dopo averlo ascoltato dal vivo a Ferentino Acustica, siamo andati a far visita a Edoardo De Angelis in una pausa di lavoro nelle sue vesti di produttore artistico. In uno studio di registrazione di Roma Nord, nei pressi dell’Auditorium ‘Parco della Musica’, sta infatti seguendo le ultime fasi di realizzazione del disco d’esordio di una giovanissima e brava cantautrice siciliana, Giulia Mei. L’ascolto di un paio di tracce ci consegna un suono, una voce e delle parole di grande spessore artistico, il che non fa che confermare la sensibilità e l’intelligenza del produttore Edoardo De Angelis che, guarda caso, è anche uno dei ‘cantautori con la chitarra’ più amati e apprezzati degli ultimi quarant’anni di storia della canzone d’autore italiana. Sotto questa veste abbiamo parlato con lui del suo ultimo album in studio, Il cantautore necessario, un tentativo di riportare alla memoria e all’attenzione del pubblico una serie di canzoni che rischiavano di non trovare spazi e di finire nel dimenticatoio. Un bellissimo disco realizzato con un chitarrista di rango, Michele Ascolese, che abbiamo raggiunto a sua volta per chiedergli di ‘raccontare’ il disco dal suo punto di vista, e che ci ha detto molto altro sulla propria lunga e brillante carriera artistica.

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EDOARDO DE ANGELIS
Ciao Edoardo, bentrovato. Vorrei parlare con te del tuo ultimo CD, Il cantautore necessario, che ti ha visto interprete di canzoni di altri autori, di alcuni tra quelli che ti hanno e hanno lasciato in generale un segno importante. L’hai realizzato con Michele Ascolese, chitarrista di notevole esperienza e bravura, basti ricordare la sua pluriennale collaborazione con Fabrizio De André. Com’è nata l’idea di chiamare lui?
Quando ho pensato e deciso di fare questo album, avevo bisogno intanto di scegliere delle canzoni, quindi di un confronto per la loro scelta. Poi – non essendo io un chitarrista, ma usando la chitarra come un oggetto improprio per accompagnare in qualche modo le mie canzoni – avevo bisogno di un supporto musicale, di un chitarrista eccellente. Non che i miei collaboratori chitarristi abituali non lo fossero, però avevo bisogno di una figura che attraverso la chitarra avesse percorso le mie stesse strade, quelle della canzone d’autore. Tant’è che in Italia De André, Paoli, Fossati, De Gregori, Branduardi, e non so quanti altri, si sono tutti avvalsi della chitarra di Michele Ascolese. Che poi non è solo un fatto di chitarra, quanto anche di esperienza, di misura, di intelligenza, di buon gusto, di essere una brava persona…

Quello che stai dicendo a proposito di Michele l’ho proprio riscontrato nell’estate di tre anni fa, quando vidi Ascolese e la sua band su di un palco di una rassegna estiva interpretare alcuni pezzi di De André come brani strumentali, con la capacità di trasmettere bellezza ed emozioni senza l’ausilio del testo, che in De André ha così tanta rilevanza.
Sì, Michele ha una grande sensibilità. Tra le altre cose, Fabrizio De André l’ho conosciuto anch’io, perché ho lavorato pure con lui. Ecco, per quella che è stata la mia esperienza, non potrei mai dire che fosse il ‘cantautore sulle nuvole’, ma un artista che in sala di registrazione sapeva il fatto suo, e anche quello degli altri! Un pignolo terribile! Quindi non credo che un altro musicista avrebbe avuto una vita professionale così lunga con De André, se non fosse stato veramente perfetto come lo è Michele.

De-Angelis

Ciò che dici di De André si coglie chiaramente dalla sua produzione, anche dal vivo. I suoi pezzi sono suonati, a partire dalla sua chitarra classica, in modo molto meticoloso; si avverte che tutto è sotto controllo.
Tutto sotto controllo, hai detto bene! Io ho lavorato con lui e con Ascolese per un brano di Max Manfredi, quand’ero produttore di quest’ultimo per l’album Max [1994], e Fabrizio venne a cantare “La fiera della Maddalena”, chiedendomi però che l’arrangiamento di quella canzone fosse realizzato da Michele Ascolese. Siamo stati una settimana intera al famoso Mulino Recording Studio di Acquapendente per registrare un solo brano!
Quell’arrangiamento Michele lo realizzò come atto di cortesia nei miei confronti. Anni dopo, quando mi chiese di dargli una mano nella realizzazione di un album in cui avrebbe cantato sua moglie, Daniela Colace, fui felice di contraccambiare. Un’altra occasione d’incontro con Michele ci fu nel 2008, quando realizzai un mio album che si chiama Historias, ispirato alla tradizione musicale latinoamericana. Lui venne a farmi un assolo con un ‘chitarrino’ [il requinto, di origine spagnola: si chiama in questo modo proprio perché la sua quinta corda viene accordata in Re, anziché in La come sulla chitarra; le sue dimensioni sono poco più grandi di quelle di un cavaquinho brasiliano – N.d.R.], che fu meraviglioso perché mentre ascoltava il pezzo per la prima volta, contemporaneamente lo suonava! Un grande istinto! Ecco, tutti i motivi che ti ho elencato sono stati alla base di questa scelta.
Una volta individuato il mio musicista di riferimento, mi mancava la figura del produttore. Guarda caso ne parlai a Francesco De Gregori, durante una cena in cui riprendemmo a frequentarci dopo un lungo periodo di tempo. Lui mi disse di getto che l’avrebbe fatto lui. Ed io gli risposi che accettavo volentieri la sua candidatura. Al che ci tenne a puntualizzare: «Non mi chiedere però di venire in studio tutti i giorni.» Gli risposi che non ci pensavo affatto! Però devo dire che è stato molto grazioso, e mi ha aiutato molto l’impostazione ‘filosofica’ che mi ha dato per la scelta dei pezzi. «Tu scegli quello che ti piace» mi ha detto. «Poi, se qualche pezzo rimane fuori, pazienza… tanto la scaletta non ne può contenere più di dieci-dodici: non è che puoi raccontare il mondo!» Così siamo partiti, e durante il lavoro Francesco è rimasto molto ben impressionato, tant’è che m’ha chiesto di poter cantare in un pezzo. Naturalmente gli ho risposto che mi avrebbe fatto molto piacere. E così è stato: ci siamo incontrati nello studio a Monteverde, dove lui lavora abitualmente, e ha cantato una seconda voce in “La casa in riva al mare” di Lucio Dalla. Questa è stata una scelta voluta, perché da un lato abbiamo recuperato un amico comune e, in secondo luogo, l’aver cantato insieme – Francesco ed io – quel punto in cui il testo dice «E gli anni son passati tutti gli anni insieme / ed i suoi occhi ormai non vedon più / disse ancora la mia donna sei tu / e poi fu solo in mezzo al blu», ha avuto un forte significato sentimentale, nel segno del nostro rapporto, negli anni interrotto per lungo tempo e infine completamente recuperato.

Un bello spunto, un bel significato, unito dalla figura di Lucio Dalla che ha rappresentato tanto…
Per lui e anche per me. È un pezzo storico di Lucio.

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Col quale scrivesti…
“Sulla rotta di Cristoforo Colombo”, che devo dire ha conosciuto poi in questi ultimi anni la versione bellissima di Fiorella Mannoia, con un arrangiamento meraviglioso!
Tornando a Il cantautore necessario, una volta messici d’accordo Michele ed io, ci siamo incontrati a casa sua, nel suo studiolo. E lì ho provato imbarazzo, perché che fai, ti metti a suonare la chitarra insieme a Michele Ascolese? E quindi, siccome lui voleva che suonassi nel disco, ho detto: «Michele, non ci penso nemmeno! Se ci sono due, tre chitarre, te le suoni tu tranquillamente.» E così è stato, anche se molti pezzi li abbiamo registrati in presa diretta, voce e chitarra. Sì, perché io sono sempre più convinto che l’immediatezza paga. Al momento di fare i concerti dal vivo, poi, dovevo suonare anch’io, e allora ci siamo messi a fare ’ste prove… Ripeto, io ero veramente imbarazzato, perché lui è una persona carinissima, molto educata, mai m’avrebbe detto nulla, ma io i miei limiti li conosco.

Be’, dai Edoardo, la cosa ci sta. Spesso la figura del cantautore è valida con la sua semplicità, poi si contorna di persone più attrezzate strumentalmente e tutto fila liscio.
Sì, sì, ma io ti sto parlando del mio imbarazzo. Poi la cosa è andata ed era carino, perché erano evidenti certi miei limiti, anche perché essendo abituato a suonare molto da solo…

Ti capisco: quelle libertà che uno si prende quando canta e suona da solo, siano esse ritmiche o anche espressive, quando poi suoni con altri…
Non puoi più concedertele! Devi trovare delle nuove formule. E così è capitato che, nell’ambito di tutte le prove che abbiamo fatto, un paio di volte Michele abbia leggermente perso la pazienza, senza darlo a vedere, dicendo: «Eh no, però scusa, qui… qui devi andare a tempo!» [ride divertito] Comunque bello, ci siamo divertiti molto. E abbiamo avuto qualche bella soddisfazione, tra cui un bellissimo concerto alla Sala Petrassi dell’Auditorium ‘Parco della Musica’, che è stato ben accolto dalla stampa e dal pubblico, e un altro concerto per la Notte dei Musei alla Centrale Montemartini di Roma a dicembre 2016. Attualmente Michele è in tour con Pippo Pollina, era un impegno che aveva già assunto. Sto aspettando che torni, perché abbiamo ancora delle cose importanti da fare a Roma, come il Teatro Tor Bella Monaca.

Parlando del nostro amato strumento, quali chitarre sono state usate nel disco Il cantautore necessario?
Allora, io sono possessore di una chitarra che mi feci costruire nel 1976 da un liutaio che ora non c’è più, Carlo Raspagni, che viveva in provincia di Milano, a Vignate; mi era stato segnalato da Ron, che s’era fatto costruire una classica da lui. Andai a trovarlo e gli chiesi di farmi una chitarra acustica. Lui abitualmente costruiva violini, liuti, mentre per la chitarra acustica mi confessò che non sapeva da che parte cominciare. Mi chiese un modello a cui potersi rifare e io gli portai una fotografia di Pete Seeger, che imbracciava una chitarra che poi seppi essere una Martin J12SO dodici corde baritona Grand Jumbo Body, con un diapason da 27.5 pollici, un manico più largo delle standard acustiche, più vicino a quello delle classiche, e la tipica buca centrale a forma triangolare. Lui si appassionò all’idea e realizzò questa mia chitarra sei corde, meravigliosa, che suona un sacco bene da quarant’anni. E tutte le volte che vado in studio con qualche chitarrista eccellente, come per esempio Massimo Luca, lui inizia a provare con la propria… però alla fine suona sempre con la mia!

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Foto di Piero Angelo Legari

L’hai fatta elettrificare?
Sì, certo, l’ho dovuto fare per forza di cose. Tornando al mio album, Michele ha usato quasi esclusivamente una classica; anche lui è un amante del Brasile, per cui viaggia prevalentemente sul nylon. Nei pochi brani con chitarra acustica, ha usato la mia. Per l’elettrica ha utilizzato una semiacustica con le tipiche sonorità jazzy, nel brano di Tenco “Se stasera sono qui”, accompagnata dal sax in omaggio al Tenco sassofonista. In “Amara terra mia” e “La casa in riva al mare”, Michele suona un suo vecchio amore, il bouzouki. In “Santa Lucia”, che su indicazione di Francesco De Gregori è stata registrata col pianoforte, Michele si è prodotto in un magnifico solo di elettrica dal sapore vintage.

Qual è, se ce l’hai, la tua preferita tra le canzoni dell’album?
“Mio fratello che guardi il mondo”, una canzone che avrei voluto scrivere io.

E la canzone che hai sentito di aver interpretato meglio?
Dal punto di vista strettamente vocale, quella di Gino Paoli, “Il mare, il cielo, un uomo”. Devo dire la verità, la canzone non la conoscevo, però Michele ha insistito per inserirla, probabilmente perché gli piaceva suonarla. Detto ciò, devo riconoscere che ci sta in pieno nella mia vocalità. Quindi alla fine sono contento di averla cantata.

Parlando di vocalità, la tua è caratterizzata da questo registro così profondo, da questo timbro caldo. Questo potrebbe creare a volte dei limiti di inintelligibilità. Mi è sembrato di avvertirlo nella canzone di Modugno “Amara terra mia”.
Lì dipende dalla scelta della tonalità, dovuta al bouzouki e ad altro nell’arrangiamento. Mi rendo conto che la scelta della tonalità è una cosa importante.

Sì, sono d’accordo anch’io. Ti permette di utilizzare al meglio il tuo registro e di modulare al meglio nel raccontare la melodia col canto.
Lo capisco. Però ti spiego anche qual è il meccanismo psicologico. Per tanti anni, fino a quando ho avuto produttori, discografici, case discografiche, non mi hanno mai fatto cantare con la mia voce, che è più vicina a quella di “Amara terra mia” e alla canzone di Paoli. Fai conto che “Una storia americana”, che io sul disco Anche meglio di Garibaldi canto in tonalità di Do diesis minore, adesso dal vivo la faccio in La minore; e se contiamo che accordo la chitarra un tono sotto lo standard, addirittura in Sol minore, quindi tre toni sotto a come la cantavo nell’81 sul disco. Mi facevano cantare con una voce non mia, perché dicevano che la mia assomigliava a quella di De André. Ora mi sono riappropriato della mia voce da basso, perché questa è.

Grazie di questo interessantissimo excursus sul tuo disco… ‘necessario’. Ma una domanda sul tuo presente e immediato futuro non posso non fartela.
Be’, ti do un’anteprima assoluta. Ho avviato il lavoro di un mio album di inediti e a metà settembre entreremo qui in sala. Devo dire che ho un periodo felice di vena di scrittura, da un anno a questa parte. Ho iniziato scrivendo delle canzoni che mi sono sembrate interessanti, importanti, e poi finalmente alla fine di questa attività – come nono, decimo pezzo da mettere nel cassetto – ho portato a compimento un’idea alla quale pensavo da più di trent’anni! Mentre ero in una chiesa, appunto trent’anni fa, mi venne in mente Galileo Galilei, la sua storia. Scrissi degli appunti, che poi non ho più ritrovato. Mi sono comprato molti libri su di lui, ho visto perfino la Vita di Galileo in tedesco, perché in quel periodo ero in Germania. Cercavo di raccontarne la storia, ma non ci riuscivo. Poi, ho avuto un’illuminazione. Mi è capitato di leggere una vecchia intervista fatta ad un letterato di mio assoluto riferimento, Jorge Luis Borges, il quale – ad un giornalista che gli chiedeva «Ma lei Borges, come li scrive i suoi libri?» – rispondeva: «Io li scrivo così: penso di averli già scritti e di averli letti e di doverli raccontare a qualcuno.» Questa cosa mi ha fatto scattare l’idea che non è necessario per forza ‘raccontare’ una storia, si possono raccontare anche le emozioni di una storia o determinati momenti sentimentali senza raccontarla. E così, in cinque minuti, ho chiuso una canzone che avevo in piedi da trent’anni! E che mi piace moltissimo. Tant’è vero che una delle possibilità di titolo dell’album è proprio Galileo. Grazie a questa canzone sono tornato indietro di trent’anni!

Un antefatto veramente affascinante. A che punto sei col materiale?
Ho già tutto. Voglio solo aggiungere un paio di canzoni ancora, e che siano un po’ sostenute, perché nel suo insieme è un disco molto nostalgico, malinconico, languido, e non voglio che si caratterizzi troppo in questa direzione. C’è un testamento spirituale, artistico e non, perché alla mia età, sai, dopo aver superato il confine dei settanta… Anche se di dentro mi sento sempre di avere diciott’anni!

Ecco un’altra cosa, forse la più importante, che sottoscrivo al cento per cento! A proposito di giovane età, due parole su Giulia Mei, questa cantautrice ventitreenne che stai producendo.
Intanto, lavorare coi giovani è una ventata di vitalità! Lei – a parte la sua preparazione musicale di altissimo livello, si sta per laureare in pianoforte al Conservatorio ‘Vincenzo Bellini’ di Palermo – scrive dei testi che non so da dove le arrivino, le parole che legge, che ha letto… È una lettrice che divora, questo è fondamentale, e riesce a creare delle immagini originali, fresche e profonde insieme. Ha una capacità impressionante di sposare bene metricamente le parole all’interno della melodia.

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De Angelis accanto all’opera “In Music We Trust” dello street artist Hogre

E musicalmente mi sembra molto evoluta.
Anche troppo. Non c’è un pezzo che rimanga nella tonalità di partenza: va su, poi giù, in continuazione. Spesso le abbiamo rasato a zero quei troppi accordi che usa, armonicamente giustissimi, ma troppo ridondanti all’interno di una struttura di canzone, con un testo da ascoltare con attenzione. Comunque, sebbene ancora acerba, dimostra un notevole talento.

MICHELE ASCOLESE
Michele, eccoci qui a parlare de Il cantautore necessario, l’album che hai firmato con Edoardo De Angelis. Diciamo subito che mi è piaciuta molto l’idea di base degli arrangiamenti così semplici, con le chitarre spesso protagoniste, in alcuni brani intrecciate con altre sonorità, il tutto sempre all’insegna della pulizia del suono.
Sì, è vero…

Si avverte una grande sintonia tra di voi, una rara intimità artistica.
Tra Edoardo e me c’è stato un rapporto bellissimo, soprattutto rilassato. I brani sono belli, tra le più belle canzoni di alcuni tra i più grandi autori della canzone italiana degli ultimi quarant’anni, come Gaber, De André e altri. Non c’è stato nessun intralcio, l’unico è stato… la voglia di divertirsi! Nello stesso tempo, però, siamo stati rigorosi. Ma, ripeto, è stata un’esperienza bellissima, difficilmente i dischi si fanno in un modo così disteso.

I brani li avete scelti principalmente tu ed Edoardo, vero?
Sì, anche se ci sono stati, giustamente, i suggerimenti di Francesco De Gregori, che ha prodotto il disco. Per la scelta della sua canzone, per esempio, abbiamo fatto alcuni tentativi, fino ad arrivare a “Santa Lucia” che ha trovato d’accordo tutti noi.

Come affrontavate l’arrangiamento dei pezzi?
Per esempio, mi ricordo il brano di Jannacci “Cosa portavi bella ragazza”, dove ho sentito subito che poteva assumere un carattere blues. Infatti lo abbiamo realizzato così, che poi è uguale a come l’ha registrato Jannacci stesso, soltanto che noi l’abbiamo suonato con un tempo terzinato; ma lo spirito comunque già era presente in origine. Anche perché, conoscendo Jannacci che amava il blues e il jazz, farlo così è risultato molto naturale. Lo stesso è avvenuto con la canzone di Gaber “Porta Romana”: be’, io amo i boleri, e anche lì non credo che ci siamo allontanati dallo spirito dell’originale. Siccome suono la chitarra e ho avuto l’immeritata fortuna di suonare con tanti cantautori, ascolto sempre molto i testi delle loro canzoni prima di mettere due note. E allora, per esempio, in “Amara terra mia” di Domenico Modugno ed Enrica Bonaccorti, ho pensato che questo brano potesse rappresentare il grido di dolore di tanti popoli esclusi; da lì la scelta di utilizzare il bouzouki, le sue sonorità etniche.

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Foto di Giulia Riva

Cosa che ti è venuta spontanea per la passione che hai per questo strumento.
Sì, certamente. Sai, il bouzouki l’ho imparato a suonare grazie a Mauro Pagani, quando andai a suonare con Fabrizio De André con il quale Mauro già collaborava da tempo.

Già dal tempo di Crêuza de mä?
Mauro Pagani, sì. Io arrivai dopo: il primo disco di De André a cui collaborai fu Le nuvole, che venne cinque anni dopo Crêuza de mä. Il bouzouki non lo conoscevo affatto quando Mauro me lo mise in mano; e fu da quel momento che cominciai ad amarlo. Ma non sono il bouzoukista greco ‘tradizionale’, l’ho imparato empiricamente.

Quindi da autodidatta.
Io sono autodidatta anche sulla chitarra. Purtroppo…

Nel tuo caso direi per fortuna!
No, no! Quando mi dicono «Mio figlio vuole imparare la chitarra», rispondo: «Vada da un maestro che gli piaccia, altrimenti perde solo tempo.» Si fa prima, a studiare con un maestro. Tanto, se il ragazzo ha passione, se ha creatività, può soltanto fare bene e prima.

Ma perché dici questo? Hai incontrato delle difficoltà?
No, no. Io studio, nel senso che ci sto tanto sulla chitarra. È che soltanto si fa prima. Dopo tanti anni che suoni, capisci che se vai in un conservatorio, se vai da un maestro, fai semplicemente prima; intendo dire a risolvere i problemi tecnici, ad accrescere la tua tecnica con metodo, a seguire un percorso: una storia che un maestro ha come proprio bagaglio, e che ti può trasmettere.

Qual è la tua valutazione riguardo al risultato raggiunto ne Il cantautore necessario?
Che nel cimentarsi con canzoni meravigliose, di altrettanti meravigliosi autori, Edoardo ha fatto Edoardo! Posso dire con enorme soddisfazione di aver raggiunto l’obiettivo per il quale abbiamo lavorato molto durante la realizzazione dell’album, e cioè quello di tirar fuori una nostra espressività, Edoardo vocalmente, ed io strumentalmente, abbiamo cercato di rendere molto personale la nostra interpretazione. Devo dire che sono molto soddisfatto del risultato raggiunto!

Puoi dire qualcosa riguardo agli intermezzi strumentali che hai realizzato tra un pezzo e l’altro dell’album?
Edoardo mi ha chiesto di fare degli interventi musicali, e la cosa mi ha molto lusingato. Ed è così che è nata l’idea di creare degli intermezzi che introducessero i brani dell’album. Prima di “Amara terra mia” c’è un pezzo molto impetuoso, disperato, che ho intitolato “Oltre il muro”, quello che separa gli emarginati. Prima del brano di Lucio Dalla “La casa in riva al mare” abbiamo inserito “Megisti”, che è il nome dell’isola del film Mediterraneo di Salvatores. E “Ortigia”, che precede il brano di Gino Paoli “Il mare, il cielo, un uomo”, l’ho dedicato a Ortigia, il quartiere antico di Siracusa, perché è un luogo che ho amato e amo molto: ci ho vissuto per tre mesi tanto tempo fa. E poi c’è “La voce di tua madre”, su cui Neri Marcorè recita le bellissime parole di Mariacristina Di Giuseppe, prima del pezzo di Ivano Fossati “Mio fratello che guardi il mondo”: è un ritmo africano, con un’atmosfera da suk, una sonorità che adoro.

Questa formula è stata il completamento del vostro percorso, proprio perché i tuoi strumentali rappresentano una sorta di ‘sponda’, l’altra faccia ‘silenziosa’ – per l’assenza di parole – delle canzoni.
Sì, dei piccoli cammei. Sai, io ho sempre pensato con Edoardo che queste canzoni si dovessero ‘vedere’ oltre che ascoltare, nel senso di conferire ‘cinematografia’ alle canzoni. Quindi, non so, per esempio vedere noi che seduti sul marciapiede nei pressi di Porta Romana, con l’aiuto dei bonghetti e di una chitarra, portiamo questo ritmo di bolero… ecco, ‘vedere’ le canzoni.

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Bene, è ora di passare al nostro amato strumento. Quali chitarre hai usato per registrare l’album?
Ho usato per le parti di classica la mia fedelissima M. Matsuo, una chitarra giapponese che ho da sempre, quella a cui sono più legato, quella con cui ho registrato “Don Raffaè” e “La domenica delle salme” di Fabrizio De André.

La usavi anche nei concerti con De André?
No, dal vivo usavo una Ramirez e anche una Raimundo. Però la Matsuo la uso per le occasioni importanti. Ah, l’ho usata anche su “La nova gelosia”, sempre da Le nuvole di Fabrizio, un pezzo voce e chitarra di anonimo. Tornando agli strumenti che ho suonato su Il cantautore necessario, c’è il bouzouki, un bouzouki della Eko, bellissimo.

E come chitarre elettriche?
La mia Gibson ES-345 Stereo in tre brani: “Cosa portavi bella ragazza”, “Se stasera sono qui” e “Io che amo solo te”. E poi la mia Stratocaster americana del 1986 nel solo finale in “Santa Lucia”. Il ‘chitarrino’, il requinto, non l’ho usato in quest’album ma in Historias, sempre di Edoardo. È uno strumento accordato una quarta sopra: quando suoni in posizione di Mi, in realtà stai suonando in La, quindi ti devi scrivere gli accordi, altrimenti li devi trasporre al volo! Lo uso spesso, anche elettrico. Io amo gli choro brasiliani; se me ne piace uno me lo ‘tiro giù’ a orecchio. Ah… e poi ho usato una cosa importante: nel brano di Endrigo “Io che amo solo te” ho suonato una percussione; ma che percussione! È una scatola di prosperi abbastanza grossa, un po’ svuotata per poter far muovere bene al suo interno i fiammiferi. Ecco, è una cosa di cui vado fiero, perché l’ho suonata alla prima! [ride]

In Brasile, nella loro musica tradizionale, i percussionisti usano spesso la caixa de fosforos.
Sì, io però ho usato quella di dimensioni più grandi, che ti permette di ottenere anche l’effetto tamborim.

Michele, tu che ami così tanto la musica popolare brasiliana, vorrei che esprimessi un ricordo, un pensiero su Irio De Paula, che ci ha lasciati recentemente.
Vorrei dire semplicemente che ho iniziato a suonare la chitarra ‘per colpa’ di Irio! Perché, diversamente, avrei finito l’università e forse fatto altro. Ero stato un po’ di anni a decidere se fare teatro o fare musica, e durante l’università avevo avuto qualche esperienza teatrale. Poi una sera mio fratello Giampaolo, batterista, che suonava da prima di me e che mi ha indirizzato verso la musica, mi spinse ad andare con lui ad ascoltare questo chitarrista carioca, tanto tempo fa. Dopo averlo ascoltato, mi dissi: «Io, nella vita, voglio suonare!»

Lo ascoltasti al Folkstudio di Roma?
Al Folkrosso di via Garibaldi [Folkrosso è stata la nuova denominazione del locale che ospitava il primo Folkstudio, dopo il trasferimento di quest’ultimo in una nuova sede – N.d.R.]. Suonava con Lino Ranieri o Giorgio Rosciglione al basso, non ricordo bene, Mandrake alle percussioni e Afonso Vieira alla batteria. Da quella volta, andai a sentirlo nei mesi successivi almeno quaranta-cinquanta volte! In quel periodo suonava soprattutto elettrico, quel tipico linguaggio jazz samba in cui era maestro. E poi cominciò a suonare la classica, soprattutto al Folkstudio di via Gaetano Sacchi. Lui suonava tutto, anche il cavaquinho, era una festa della musica. Ecco, lui ora è andato, sai, in queste cose non ci puoi fare niente… Come per il mio grande amico Fausto Mesolella, col quale ho diviso due anni bellissimi di concerti insieme. Di loro conservo il sorriso, le cose belle che hanno fatto in musica, la bellezza che ci hanno regalato.

Quindi, sei il musicista che tutti noi conosciamo grazie a Irio De Paula…
Sì, è molto semplice, devo a lui se ho intrapreso la carriera di musicista. Sulla chitarra avevo questa dote innata della ritmica brasiliana, magari facendo accordi sbagliati, però già molto predisposto per il genere. In seguito ho incontrato Giovanna Marinuzzi, che per me è stata molto importante, mi ha insegnato un sacco di cose sulla chitarra. Sono stato molto fortunato a incontrarla.

Quali autori brasiliani ti piacevano?
Be’, chiaramente ho sempre amato Baden Powell a livello di chitarrismo puro. A livello di canzoni mi è piaciuto e mi piace molto Dorival Caymmi, poi ovviamente Tom Jobim, Toquinho. Baden Powell per me è stato l’Hendrix della chitarra classica!

Hai suonato anche tu, immagino, al Folkstudio?
Sì, in varie formazioni. Tante volte in duo con Giovanna Marinuzzi, poi con Spirale, il mio gruppo di jazz di allora, con mio fratello alla batteria, Giancarlo Maurino al sax, Peppe Caporello al basso, io alla chitarra e Gaetano Delfini alla tromba. Poi io andai via e venne Corrado Onofri al piano. Da lì ho cominciato la gavetta nei vari locali di Roma, anche in quelli dove si suonava musica brasiliana come il Manuia. Più tardi ho conosciuto anche Sergio Bardotti, che mi ha inserito nel giro di Ornella Vanoni. E con Ornella ho suonato tantissimo, le devo molto, sia dal punto di vista musicale che del saper tenere la scena. Una grandissima artista.

Arrivando al tuo rapporto con la canzone d’autore dei cantautori storici, mi sembra di poter dire che tu sia il perfetto trait d’union con la loro musica grazie alla tua chitarra.
Be’, mi è capitato di farlo con Gino Paoli, con Ornella Vanoni che ha sempre interpretato canzoni di grandi autori, con Fabrizio De André, con Sergio Endrigo, con Angelo Branduardi, con Teresa De Sio…

Qual è secondo te il filo rosso che li lega a te?
Penso una mia disponibilità ad entrare nel loro mondo, a cercare di capire; perché altrimenti uno va lì, chiede la parte scritta… E invece non è soltanto così: quando ci sono dei testi, le note vanno messe al posto e al momento giusto.

Scegliendolo a simbolo di tutti i cantautori con cui hai suonato, che rapporto hai avuto con De André, sia professionale che umano?
Iniziai il rapporto con lui al tempo in cui stavo partecipando alle registrazioni di un album di Ornella Vanoni [Il giro del mondo, 1989], nello studio di Mauro Pagani, che mi chiese se potessi suonare in un pezzo di un disco di Fabrizio. Gli risposi: «Sì, quanto ti devo?» [ride divertito] E suonai appunto ne “La nova gelosia” dall’album Le nuvole. Poi da lì ho suonato anche in “Don Raffaè” e “Domenica delle salme”. In seguito ho suonato nell’album Anime salve e nei concerti. Penso che Fabrizio abbia colto il fatto che io, dai miei quindici anni, fossi cresciuto culturalmente con lui, avessi suonato spesso i suoi pezzi. Sì, credo che abbia intuito questa mia disponibilità. Chitarristi ce ne sono tanti e bravi, però trovare un chitarrista che abbia lo stesso entusiasmo nel suonare De André, che usa tre accordi, piuttosto che suonare una parte più difficile, non è così facile.

Come ti sei trovato umanamente con lui?
Il contatto diretto con lui era professionale, senza dubbio. Nei dischi era molto rigoroso. Ma era anche un buono psicologo, sapeva come tirarti fuori – lo dico in gergo romanesco – il ‘grasso dar core’, la ‘ciccia’, a tirarti fuori dalla gabbia del professionista, dell’esecutore. Per i concerti faceva tante prove. Era un ottimo chitarrista, aveva studiato da giovane e continuava a farlo. Suonava benissimo. Aveva però timore dello spettacolo dal vivo, temeva l’errore, che peraltro non faceva mai. Lo facevamo tutti noi musicisti, lui no. Lo potevi registrare ogni sera, la voce e la chitarra erano sempre perfette. Si preparava in modo molto meticoloso e desiderava essere sempre impeccabile davanti al pubblico. Non amava tanto la televisione, perché diceva che avrebbero potuto estrapolare delle sue affermazioni e manipolarle. E aveva ragione. Lui ha trasmesso a tutti noi musicisti questa voglia di rigore che poi paga, perché una volta che conosci bene il ‘territorio’ nel quale devi suonare, riesci poi ad esprimerti meglio.

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Si esercitava spesso sulla chitarra?
Sì, sì. La settimana che precedette la prima tournée che avrei fatto con lui, mi invitò a casa sua perché gli insegnassi un po’ di cose sulla chitarra… falso! Voleva vedere come suonavo. E infatti abbiamo suonato per sette giorni. A parte Le nuvole, che avremmo suonato dal vivo, voleva sentire se conoscevo tutte le parti di Mussida, certi arrangiamenti della PFM che avremmo inserito nella scaletta dei concerti. Sai, noi avremmo dovuto suonare due chitarre, per cui in quei sette giorni tirammo giù delle parti ben studiate. Tieni presente che con me c’era anche un altro chitarrista, Giorgio Cordini. Giorgio ed io facevamo coppia, per cui, per esempio, i mandolini li suonava lui, io il bouzouki o la chitarra elettrica. “Amico fragile” la suonavo io, Giorgio “Il testamento di Tito”.

E con Gino Paoli quali esperienze hai avuto?
Con lui ho registrato due album dal vivo insieme a Ornella Vanoni, Insieme e Vanoni Paoli Live, il primo nell’85 e il secondo nel 2005 a vent’anni di distanza. Poi ho partecipato a qualche suo disco in studio intorno al 1986-87 e qualche tournée. Gino mi piace molto come autore, completamente l’opposto di Fabrizio…

Cioè?
Io ho sempre detto che Fabrizio è Salgari, e Gino canta tutto quello che ha vissuto.

Bella immagine.
Fabrizio era un po’ più stanziale, con le sue grandi letture, la sua immensa cultura, ma nel chiuso di un mondo tutto suo…

Michele, nel 2012 hai inciso in coppia con Toni Cosenza Canto napoletano, un album di classici napoletani. Puoi dire qualcosa in proposito?
Canto napoletano nasce da un’idea di Toni Cosenza, chitarrista e interprete di musica napoletana, per me tra i più importanti in Italia. È stato un sogno che avevo nel cassetto da tanti anni, perché sono appassionato di questi classici assolutamente immortali. Pezzi come “’E spingule francese” di Salvatore Di Giacomo ed Enrico De Leva, “’O surdato ’nnammurato” di Aniello Califano ed Enrico Cannio, “Funiculì funiculà” di Giuseppe Turco e Luigi Denza, ma anche “Bella nuttata”, “Facimme ’o rap” e ancora “Fiera paesana”, tutti dello stesso Toni, fanno parte di una cultura, di una storia che mi hanno sempre affascinato. Poter realizzare quest’album con lui è stato un atto d’amore e di riconoscenza nei suoi confronti. L’abbiamo realizzato principalmente con due chitarre e la voce di Toni. In alcuni brani ha partecipato anche mio fratello Giampaolo alle percussioni. Io ho suonato anche il bouzouki e la mia ‘chitarrina’.

E che mi puoi dire di Pippo Pollina?
Sì, attualmente sono in tour con lui. È un ‘ragazzo’ che trent’anni fa, dopo aver fondato gli Agricantus, emigrò a Zurigo. Lì si è creato una fortuna con i suoi brani, con la sua musica, con la sua voglia di fare. Adesso fa tournée in tutta Europa, concerti sempre sold out. Quest’anno mi ha chiamato in tour con lui, per un totale di centocinquanta date in quasi dodici mesi.

Caspita!
In questi giorni sono a riposo, ma venerdì si ricomincia. Gireremo in Germania, Francia, Svizzera, Austria. Poi ci sarà anche l’Ucraina e il Lussemburgo.

E suonerai…
Tutto! Acustica, elettrica, classica e ‘chitarrino’. Sul palco siamo, oltre a me e lo stesso Pippo, anche lui chitarrista e pianista molto bravo, Roberto Petroli al sax e clarinetto, Fabrizio Tabacco alla batteria, Filippo Pedol al contrabbasso e Gianvito Di Maio al pianoforte e fisarmonica. Una bella formazione italiana, per un artista come Pippo che richiama molto pubblico ovunque andiamo.

Gabriele Longo

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