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La chitarra e le culture musicali – Intervista a Fernando Perez

(di Andrea Carpi) – Abbiamo avuto modo di conoscere il chitarrista spagnolo Fernando Perez grazie al suo interessantissimo libro La chitarra e le culture musicali, pubblicato da Fingerpicking.net. E abbiamo colto l’occasione della sua partecipazione a Ferentino Acustica per incontrarlo e saperne di più del suo incredibile viaggio tra le musiche del mondo, riproposte attraverso la sua chitarra. Avevamo preparato una serie dettagliata di domande, per entrare nel merito dei vari stili affrontati nel volume.

Ma Fernando non ha avuto bisogno di particolari sollecitazioni, tale era la forza del suo racconto nel condividere la propria esemplare storia musicale e di vita, a partire dall’intenso periodo formativo, condotto fino ai più alti livelli, per arrivare alla decisione di inserire la sua esperienza musicale in una più ampia esperienza umana, sollecitata da una profonda curiosità verso le altre culture. Perez si è mostrato come un fiume in piena, e noi ci siamo lasciati volentieri guidare nel suo percorso. È stato davvero emozionante sentire la tenacia e la passione con cui è riuscito, passo dopo passo, a costruire un’opera ciclopica; un’opera tutta ancora da scoprire.

Mi piacerebbe cominciare dalla tua educazione musicale, che è stata molto ricca. Leggo nella tua biografia che hai iniziato con diversi conservatòri di musica, poi hai proseguito con diverse scuole come la Escuela de Musica Creativa di Madrid: ci puoi raccontare?
In realtà, all’inizio, ho cominciato a suonare da autodidatta per quasi un anno. La mia prima chitarra me l’hanno data mio padre e mia madre, insieme ad alcuni numeri di una rivista. Così ho provato a imparare da solo leggendo quelle riviste, fin quando non mi sono finalmente potuto iscrivere al conservatorio.

Era un corso di chitarra classica?
Sì, principalmente chitarra classica, chitarra con corde di nylon. I miei genitori da giovani, quando avevano più o meno vent’anni, volevano imparare a suonare la chitarra e vennero a sapere che se acquistavi tutti i numeri di quella rivista, alla fine ottenevi una chitarra. Quindi acquistarono tutti quei numeri e ottennero la loro chitarra gratis, ma poi non hanno mai imparato. Insomma i miei genitori avevano questa chitarra e io, che avrò avuto sei anni, vedevo questo strumento senza nessuno che lo suonasse… Così ho finito per passare un’estate intera seduto su una sedia in balcone, a muovere le mani sulla chitarra facendo dran dran dran e a cantare tutte le canzoni che conoscevo, ogni canzone allo stesso modo! A quel punto i miei hanno iniziato a darmi i numeri della rivista. Anzi, mio padre è stato molto intelligente, perché mi ha dato solo un numero, non tutti insieme, dicendomi: «Se lo finisci, ti do anche il secondo.» Però mi ha dato tutte le musicassette allegate, così ho potuto ascoltare fin da subito tutta la musica. E mi ricordo che nell’ultima cassetta c’erano “Recuerdos de la Alhambra” di Francisco Tárrega e “Asturias” di Isaac Albéniz.

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Foto di Alfonso Giardino

Un repertorio interessante!
Sì, e io li ascoltavo e dicevo con ammirazione: «Voglio suonare questi pezzi!» Ma dovevo finire tutto il corso per riuscirci. E mio padre rendeva le cose sempre più difficili. A un certo punto mi disse: «Va bene, non è male. Ma ti do venti centesimi se suoni senza leggere.» Così imparavo il pezzo a memoria. E lui: «Molto bene. Te ne do venticinque se non guardi la chitarra.» E così facevo… Ma non ho mai visto quei soldi! [ride]

Tutto questo senza che lui sapesse suonare.
Infatti non sapeva suonare niente, però è stato molto incoraggiante. D’altra parte la mia è una famiglia molto musicale: amano tutti la musica, cantano e ballano sempre, e sono stati sempre di supporto. Poi sono stato davvero fortunato, perché il conservatorio si trovava proprio sotto casa mia in provincia di Saragozza. Così, dopo la scuola, era la situazione ideale per i miei genitori, che non si dovevano preoccupare di mandarmi da qualche altra parte; mi dicevano semplicemente: «Ecco qui il tuo panino, adesso torna giù a lezione di musica!» E a sette anni ho cominciato a frequentare il conservatorio e a studiare musica classica.

Fernando_Perez__Flamenco_GuitarPoi sei andato anche in altri conservatòri, giusto?
Sì, dici bene, ho studiato in diversi conservatòri e scuole di musica, diversi stili musicali. All’età di dieci anni, i miei genitori mi hanno mandato in un convitto, che era un monastero francescano. E lì, in un primo momento, mi sono sentito molto solo: ero un ragazzino, mi trovavo lontano da casa e potevo vedere i miei genitori soltanto una volta ogni due mesi. Suonare la chitarra era la mia via di fuga. E sono stato ancora una volta molto fortunato perché i monaci, che erano italiani, erano molto fieri della loro tradizione musicale, in particolare di Guido d’Arezzo. Ci tenevano molto a insegnare della buona musica classica. Anche se non mi piaceva stare lì, ero comunque fortunato, perché avevo a disposizione tutto il tempo che mi serviva e dei buoni insegnanti. Lì ho imparato veramente la disciplina per quel che riguarda lo studio. Non c’erano distrazioni e quindi passavo tantissime ore a studiare: per me era rilassante avere la possibilità di suonare.
Quando sono tornato a casa dal convitto, all’inizio non sapevo esattamente cosa volevo fare; a intraprendere la carriera musicale non ci pensavo. Poi è successo che all’età di tredici-quattordici anni ha cominciato a piacermi anche la musica moderna, il rock, il blues, il jazz. E per tutto il periodo della scuola ho continuato a studiare anche da solo, cose nuove. A quel tempo potevi vedere Eric Clapton in televisione, erano anni buoni per la chitarra. Ma non sapevo che si potesse studiare quella musica professionalmente. In altri paesi poteva essere una professione, in Spagna no. In Spagna studiavi al conservatorio, ma per cosa? Non lo sapevo. Oppure potevi studiare musicologia per diventare un insegnante di musica a scuola… Insomma sapevo che nella mia città non c’era molto altro da imparare. Così ho deciso di iscrivermi a una scuola professionale, una scuola preparatoria al lavoro. Facevo questa scelta solo per poter andare in città e frequentare una scuola di musica. E ho pensato: «Mi piace la chitarra elettrica… mi iscrivo alla scuola professionale di elettronica!» Giusto per scegliere qualcosa di assonante. Così mi sono spostato in città, ho iniziato a frequentare le scuole superiori e – al tempo stesso – una scuola di musica privata. All’epoca avevo quindici-sedici anni e studiavo già le materie musicali complementari, armonia e via dicendo: era un grosso impegno, dovevi studiare per davvero. Però mi piaceva: tutto quello che volevo fare era suonare e studiare musica. Così un giorno, al mio primo anno di superiori, sono andato da mio padre e gli ho detto che volevo smettere di andarci; e lui: «Non se ne parla proprio! Cosa pensi di fare nella vita?» «Voglio fare il musicista!» rispondo. E lui: «Ma di cosa stai parlando? Hai bisogno di avere di fronte a te un lavoro, una carriera. Puoi studiare musica, va bene, ma devi avere anche qualcos’altro.» I miei genitori erano molto preoccupati, puoi immaginare. Sono andati anche dal mio insegnante di musica per raccontargli cosa intendevo fare; e l’insegnante ha dato loro ragione: «Sì, sono d’accordo con voi: deve prima pensare alla carriera, poi studiare musica.» Però io non volevo. In quel periodo andavo alle scuole superiori e nel mio zaino c’erano solo i testi di musica. Mi sedevo in fondo alla classe e leggevo di armonia e tutto il resto. Così, alla fine, i miei genitori si sono dovuti arrendere. Sai, la mia famiglia è di classe media, i miei non avevano molti soldi; ma volevano comunque aiutarmi e allora hanno detto: «Va bene, vediamo come possiamo fare, vediamo che succedde.»

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Perez con la chitarra a tastiere intercambiabili

Sono tornato alla mia cittadina natale e hanno stabilito che sarei potuto andare in città un giorno a settimana in autobus per frequentare la scuola di musica; poi mi hanno anche trovato un paio di insegnanti vicino casa che mi potevano dare lezioni private. Secondo loro, se volevo studiare musica dovevo almeno studiarla seriamente: il conservatorio, le accademie musicali per gli stili moderni – studiavo jazz in quel periodo – e gli altri insegnanti per studiare il piano, il solfeggio, il dettato, l’educazione all’ascolto. E ho scoperto che a Barcellona e Madrid c’erano delle scuole più importanti, più indirizzate verso la musica moderna, ma anche che negli Stati Uniti le università e le scuole private avevano dei programmi veri e propri per studiare seriamente la musica moderna, per intraprendere una carriera ufficiale in quel campo. Quindi, da quel momento in poi, il mio obiettivo è stato imparare abbastanza e risparmiare soldi per poter lasciare la Spagna e trasferirmi lì.
Sono prima andato per un po’ a Barcellona, per seguire alcuni corsi brevi presso l’Aula de Música Moderna y Jazz, che fa parte del Conservatorio Superior de Música del Liceo. Poi, a diciassette anni, mi sono trasferito a Madrid per frequentare l’Escuela de Música Creativa. Puoi immaginare, per i miei genitori era una pazzia, erano sempre preoccupati. Ma hanno fatto tutto ciò che hanno potuto per aiutarmi. Sono stato molto fortunato in questo. L’Escuela è una scuola di musica moderna molto affermata, che è in funzione da parecchi anni. Ci sono dei bravissimi insegnanti e alcuni di loro sono personalità rinomate nel campo della musica. Molti hanno studiato al Berklee College of Music di Boston per poi tornare in Spagna a insegnare in questa scuola. Gli altri studenti erano adulti, musicisti professionisti. Ero spaventato, ma siccome ero così giovane, tutti si prendevano cura di me, mi davano una mano per qualsiasi cosa. Facevo una vita strana, stavo sempre a suonare e non dormivo molto. Non andavo alle feste, suonavo e basta! Anche il mio professore di musica, un giorno, mi disse: «Fernando, non hai dormito la scorsa notte!» E io «Sì, non ho dormito molto.» E lui: «Devi dormire, devi prenderti cura di te stesso.» Si prendevano cura di me.
Nel frattempo, cercavo di risparmiare lavorando come potevo, qualche volta suonando e qualche volta facendo altro. Poi ho dovuto fare il servizio militare, altrimenti non avrei potuto lasciare il paese. E una volta finito, ero pronto a lasciare la Spagna. In realtà, non ero proprio pronto: avevo studiato e imparato abbastanza, ma non avevo ancora i soldi. Era davvero costoso partire e iscriversi in una di quelle scuole americane. Pensavo che non sarebbe mai stato possibile per me. O eri ricco, o ottenevi un’ottima borsa di studio. Ho dato degli esami per prendere una borsa di studio al Berklee College, ma la borsa era così esigua che non mi ha aiutato molto. Era una cosa che facevano solo per spingerti ad andarci, ma era solo una piccola parte di quello che dovevi pagare.

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Kurdish Music Project

Non me lo potevo ancora permettere e quindi ho deciso di andare in California, al Musicians Institute di Los Angeles, che è comunque costoso, ma un po’ più economico. Quando sono arrivato, ho detto che volevo iscrivermi a un programma di tre-quattro anni, anche se avevo i soldi solo per tre mesi. Ho chiesto loro se potevo pagare in rate semestrali, senza dire che non avevo il denaro. Loro mi hanno accettato e mi hanno dato un visto per i primi sei mesi. Non so come ho fatto, ma sono stato a L.A. per quattro anni! Appena arrivato, in molti corsi ho ottenuto un test out. Cosa significa? Ad esempio, quando fai un test d’ingresso, ti assegnano un livello. Così ho fatto questo test e mi hanno indirizzato a un determinato corso: la prima settimana, ho visto il curriculum e mi son reso conto che erano cose che avevo già studiato. Così mi hanno fatto un esame e mi hanno messo al livello successivo. A questo livello è successa la stessa cosa, erano cose che conoscevo già. Di sicuro dovevo migliorare, non è che sapessi già tutto, ma non volevo ripetere quello che avevo già studiato. E sono andato avanti così finché non mi sono ritrovato all’ultimo livello. A quel punto non volevano più farmi l’esame, perché se l’avessi passato mi avrebbero dovuto ridare indietro i soldi… Alla fine, sono riuscito a parlare con il direttore della scuola: gli ho raccontato cos’era successo e mi ha permesso di fare il test. L’ho superato e mi hanno ridato i miei soldi!
Ma ero di nuovo per strada, senza una scuola. E la scuola è importante: magari il programma è limitato, ma gli insegnanti non lo sono. Puoi sempre imparare qualcosa dagli insegnanti. Inoltre, la scuola ti aiuta a entrare nell’ambiente, a farti degli amici, a trovare dei contatti. Così ho deciso di restare nella scuola acquisendo un minimo di crediti, giusto per restare in rapporto. E ho seguito dei corsi complementari, come “Music business” o “Riparazione e manutenzione della chitarra”. In questo modo ho continuato ad andare dagli insegnanti a imparare cose nuove, perché c’erano anche delle lezioni aperte che potevi frequentare. Ho imparato moltissimo, alcuni insegnanti mi hanno davvero aiutato e dato i contatti giusti per fare dei turni in sala d’incisione.

Quindi hai cominciato anche a guadagnare qualcosa?
Sì, ho cominciato a guadagnare qualche soldo. Con quello che ho messo da parte, mi sono comprato una macchina, cosa che non avevo potuto fare prima. A Los Angeles non sei nessuno senza una macchina! E così prendevo la mia chitarra e il mio amplificatore e andavo a fare turni negli studi di registrazione. All’inizio non pensavo che avrei potuto lavorare molto in quell’ambiente, perché non avevo granché come strumentazione: avevo solo la mia Fender Stratocaster e un amplificatore Fender.

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Foto di Alfonso Giardino

Suonavi solo la chitarra elettrica in quei turni?
In realtà suonavo diverse chitarre. La cosa buona in molti di quegli studi era che avevano le loro chitarre e i loro amplificatori. Alla mia prima session ero spaventato, ma quando sono arrivato, il fonico mi ha detto: «Ah, hai portato la tua chitarra, bene! Se hai bisogno, comunque, in questa stanza abbiamo chitarre e amplificatori e puoi scegliere quello che vuoi.»

Fantastico!
Sì, fantastico! Così, quando andavo per una session, chiedevo con diplomazia se avevano qualche strumento da suonare: non sembravo il tizio che ha solo una chitarra, sembravo piuttosto il tipo che dice: «Ah, siccome avete delle chitarre, le uso.» Ed è stato bello, perché ho potuto suonare sia l’elettrica che l’acustica o la classica, ma anche la lap steel, che ho imparato a suonare in quel periodo. Poi ho anche cominciato a suonare dal vivo con diversi artisti e diverse band, nei club di L.A. e nei festival nei dintorni. Suonavo in gruppi blues, country, rock… All’epoca la mia idea era, come per molti, quella di andare in una grande capitale della musica e diventare il chitarrista di qualche artista famoso o qualcosa del genere.

Come sei arrivato da queste esperienze a Los Angeles a interessarti alle diverse culture musicali?
Mentre ero a L.A. a fare il lavoro di turnista e a suonare con tutta quella gente, ad un certo punto mi sono reso conto che non ero felice, che non mi sentivo completo. Era bello suonare, c’era molta bella musica e un’ottima organizzazione, ma non so… semplicemente non ero felice. Cominciavo a sentire come se avessi perso la mia anima suonando. Tutto cominciava ad apparirmi molto meccanico e mi chiedevo cosa stesse accadendo. Mi dicevo che se non suonavo veramente con il cuore, semplicemente non potevo suonare: non potevo far finta, nemmeno solo per lavorare. E quindi cosa potevo fare? Smettere con la musica, dopo tutto quello che avevo fatto per diventare un musicista? Era davvero frustrante, ed è andata avanti così per un anno intero. Avevo anche quel dubbio che attanaglia molti di noi musicisti: «Devo concentrarmi su un unico stile, un unico modo di suonare la chitarra, e diventare davvero bravo in quella nicchia? E quale stile dovrei scegliere?» Con la chitarra elettrica avevo una mia identità: quando avevo diciassette anni studiavo solo Joe Satriani, Steve Vai e cose di questo tipo. Poi ci ho dato un taglio e sono passato al blues, e con la mia Strato ho cominciato a suonare Stevie Ray Vaughan, B.B. King, quindi anche il blues acustico; ho iniziato a comprare tutti i libri di Stefan Grossman. E poi pure un po’ di musica brasiliana…

Avevi anche imparato a suonare la lap steel
Sì, e a L.A. ho anche trovato una pedal steel in un banco dei pegni: ho chiesto al tizio quanto voleva e lui mi ha risposto che per cinquanta dollari era mia. Così l’ho comprata e l’ho portata a casa, cercando di metterla a posto. Poi ho iniziato a studiarla e ad esercitarmi: suonavo blues, ma non avevo mai provato quello strumento. In una libreria pubblica, ho anche trovato un libro sulla chitarra hawaiana che risaliva agli anni ’50, e ho imparato quel repertorio sulla pedal steel, che ho iniziato a usare anche in alcune session per dei pezzi country.
Ma torniamo ai dubbi da cui ero assalito in quel periodo. Non sapevo cosa fare… però c’erano molte cose che mi piacevano, come ad esempio le diverse culture. Sono sempre stato molto curioso di incontrare persone provenienti da luoghi diversi, mi sono sempre piaciute le lingue, le diverse religioni e filosofie di vita. È un po’ il mio hobby. E sempre in riferimento a questa parte di me, ho sempre sognato di essere un attivista nel campo dei diritti umani. Anche quando ero a L.A., stavo con una ragazza afroamericana che era la figlia di un musicista jazz molto famoso, e stando con lei e con la sua famiglia ho capito moltissime cose sugli afroamericani e sulla loro storia, su quello che hanno attraversato, sulla loro vita al giorno d’oggi, ancora fortemente condizionata dal colore della loro pelle. E pensavo che avrei voluto fare qualcosa per risolvere questi problemi. Sognavo persino – come tanti – che forse un giorno sarei diventato famoso e avrei avuto i soldi per aprire un ospedale, o cose di questo tipo! Insomma sentivo che volevo dare ascolto a tutte queste mie idee e non solo suonare la chitarra. Finché un giorno ho sentito suonare Bob Brozman, che mi è piaciuto veramente da matti. Di punto in bianco gli ho scritto, così dal nulla; e lui mi ha risposto con una lunga lettera, così abbiamo cominciato a scambiarci email…

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Foto di Alfonso Giardino

Bob è stato molte volte qui in Italia, in particolare all’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana …
Sì, ne ho sentito parlare! Lui è stato molto incoraggiante con me: mi raccomandava sempre di non fare mai qualcosa in cui non credevo, di non commettere il sacrilegio di fare qualcosa che non sentivo in modo autentico. Poi ci siamo persi di vista per un po’ e ho cominciato a leggere molte cose sulla musica hawaiana, scoprendo più a fondo quello che lui aveva fatto, che era una sorta di antropologo e aveva viaggiato in lungo e in largo suonando la chitarra. Così ho pensato che sarebbe stato davvero bello imparare la musica di diversi luoghi, diverse culture, visto che mi piacevano le culture, le religioni, le filosofie. Ho capito anche che quello che mi piaceva davvero era imparare! Adoro il sentimento che provi quando ascolti un musicista che non conoscevi e resti sbalordito, chiedendoti: «Che musica è quella che sta suonando? Come ha fatto a fare quella cosa?» Mi piace quella sensazione e preferisco non sapere una cosa e scoprirla, piuttosto che conoscerla già. Mi piace suonare, certo, però mi piace ancora di più mettermi a sedere e imparare. A quel punto, dunque, ho cominciato a interessarmi a tutti questi stili musicali diversi e ai diversi paesi a cui mi sentivo vicino, e ho pensato che avrei potuto iniziare a studiare etnomusicologia. Non sapevo nemmeno che esistesse una disciplina simile, e quando l’ho scoperta mi è sembrata fantastica: studiare la musica delle diverse culture! Così ho cercato un corso di etnomusicologia all’università di Los Angeles, la UCLA, ma ancora una volta si ripresentava lo stesso problema: i soldi! E ancora una volta sono stato molto fortunato: mi trovavo in una grande città piena di gente proveniente dai paesi più diversi, e ognuno suonava la sua musica. Ho cominciato a pubblicare degli annunci su una rivista per cercare musicisti hawaiani, musicisti africani e via dicendo. E così mi incontravo con loro, suonavamo insieme e potevo chiedere informazioni sulla loro musica. All’epoca suonavo anche in una band, il cui bassista – in realtà – insegnava anche etnomusicologia alla UCLA; e gli ho detto: «Sai, sto pensando di mollare tutto e di partire verso altri paesi per imparare la loro musica, perché questa è una cosa che non riesco a fare veramente qui in città.» E lui mi ha risposto che a suo avviso era la miglior cosa che potessi fare.
Così ho deciso: ho venduto tutto quello che avevo, ho tenuto solo una chitarra delle due o tre che avevo all’epoca, ho messo tutto in valigia e me ne sono andato alle Hawai! Una volta lì sono stato in hotel la prima notte, poi per due settimane al campeggio sulla spiaggia, finché non ho trovato un posto in cui stare. Ho cercato di trovare un modo per guadagnare qualcosa, anche se temevo che non ci fosse granché da fare su un’isola, e ho iniziato a lavorare in un mercato agricolo: caricavo gli ananas su un camion alle sei di mattina… Ben presto, comunque, ho scoperto che c’era davvero tantissima musica alle Hawai, tantissimi bravi musicisti sia nativi che statunitensi, un sacco di musicisti famosi che vivevano lì. Così ho cominciato a lavorare anche lì con la musica: suonavo nelle band e con dei musicisti hawaiani, così da poter imparare la musica del posto. Andavo anche dagli anziani per imparare lo stile tradizionale.
Questi sono stati i miei primi passi nell’ambito della world music. Ma non pensavo ancora di seguire una percorso più ampio, di andarmene in giro per il mondo. Mi ero trasferito lì e in quel momento pensavo solo alla musica hawaiana; avevo dimenticato tutto il resto e pensavo di starmene lì tanquillo per qualche anno. Finché un giorno, anche se mi ero sistemato e mi trovavo bene, ho deciso che volevo imparare qualcosa di più sulla slide guitar indiana, che avevo scoperto in quel periodo. Mi ero ritrovato con Brozman, durante una delle sue visite alle Hawaii, e lui stava incidendo un album di musica indiana con il chitarrista slide indiano Pandit Debashish Bhattacharya. Ma prima ancora avevo trovato un album di Vishwa Mohan Bhatt con Ry Cooder, che si intitolava A Meeting by the River [1993]; e mi son detto: «Wow, quindi esiste una chitarra indiana!» Ho sempre amato la cultura indiana e la musica indiana, ma non ero andato in India a suonare il sitar come gli hippy… suonavo la chitarra e mi sembrava già abbastanza difficile! Però, quando ho sentito suonare quei musicisti, ho deciso che dovevo trovare quella chitarra slide indiana. E proprio lì alle Hawaii mi sono messo in contatto con Bhattacharya e, grazie a lui, ho potuto comprare una chitarra indiana. Ma ho scoperto ben presto che non potevo imparare a suonarla da solo. Così ho deciso che sarei andato in India.

Dalle Hawai all’India!
Sì, esattamente! Ho scritto a Vishwa Mohan Bhatt e ho iniziato a tartassarlo: email, lettere, telefonate a un numero che ero riuscito a trovare, per chiedergli se poteva insegnarmi la musica indiana e a che prezzo; ma non rispondeva. Un giorno, all’improvviso, ho ricevuto un’email che diceva: «Caro Fernando, se vieni sarai il benvenuto.» Era proprio lui, un’email sacra! Viveva a Jaipur, così ho preso un aereo e me ne sono andato a Jaipur. Una volta lì mi sono presentato a casa sua e ha coinvolto anche i suoi figli per insegnarmi. Sono stato lì per un po’ di tempo. Poi ho trovato anche altri insegnanti e ho passato qualche anno in India a studiare. Come nell’esperienza precedente, quando sono arrivato lì ho dimenticato tutto il resto e ho iniziato a pensare solo alla musica indiana. E dopo qualche anno è successo quello che di solito mi capita in ogni luogo dove vado a studiare: i miei insegnanti mi hanno detto che avevo raggiunto un buon livello. A quel punto ho suonato in alcuni concerti locali, per gente del posto, e sono stato apprezzato. Quindi mi sono sentito pronto per spostarmi di nuovo: non che pensassi di aver finito, perché non si finisce mai di imparare, ma mi sentivo pronto per passare a qualcos’altro. Avrei continuato a studiare quella musica, sia da solo che con l’aiuto dei miei insegnanti, perché ci saremmo comunque mantenuti in contatto. Ma era arrivato il momento di trovare qualcosa di nuovo. E, ricevuta la benedizione dei miei maestri, ho deciso di trasferirmi in Egitto…

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Hawaiian Steel Guitar

Come mai in Egitto? Quando ti sei spostato dalle Hawaii all’India, c’era l’idea del passaggio dalla lap steel hawaiana alla chitarra slide indiana. E in questo caso?
In realtà non ne sapevo molto della musica araba, però mi sono sempre piaciute le sue sonorità. E poi tutta la cultura araba aveva per me un grande fascino…

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Indian Guitar

Saranno stati forse i collegamenti tra il sistema dei raga indiani e il sistema dei makam arabi?
No, all’epoca non sapevo quasi niente della musica araba. Non sapevo che c’erano dei collegamenti con quello che avevo studiato in India. E anche quando ero andato in India, sapevo davvero poco dei raga; è qualcosa che ho imparato lì. Ma quello che mi ha spinto verso la musica araba è stato il suo fascino, la mia curiosità per la cultura araba in senso lato, per la sua epoca d’oro. Da ragazzo avevo letto molti libri, come Le mille e una notte, e ne ero entusiasta; per me quella era la cultura araba! Inoltre, quand’ero adolescente, c’è stato un periodo in cui compravo molte riviste di archeologia ed ero interessato in modo particolare all’egittologia; pensavo che sarei diventato un egittologo. Era solo un sogno di gioventù, come quando immagini di diventare un astronauta, però qualcosa è rimasto e l’Egitto ha continuato a esercitare un certo fascino su di me: le piramidi, le forze mistiche…
Una volta trasferito in Egitto, pensavo di cercare un maestro di oud, perché è uno strumento simile alla chitarra, e di imparare lo stile dell’oud con la mia chitarra. Ma non sapevo niente di microtoni e cose di questo tipo. Ero semplicemente andato lì, avevo preso un aereo per l’Egitto senza nemmeno sapere dove stabilirmi di preciso, se al Cairo – che è una grande città – o ad Alessandria, che è una città più piccola. In realtà non mi sono mai piaciute troppo le grandi città: mi piacciono come luogo di lavoro, ma non mi piace viverci. Ed ero davvero indeciso: anche se prima di partire avevo prenotato un hotel economico al Cairo e non ad Alessandria, avevo pensato di decidere una volta arrivato. Ma quand’ero ancora in aereo, ho visto Il Cairo: è semplicemente immensa… così ho deciso che sarei andato ad Alessandria! E lì sono andato al Conservatoire de Musique, dove ci sono insegnanti di musica araba. Sono andato a lezione da un vecchio maestro di musica araba ed era davvero divertente, perché io non sapevo parlare molto l’arabo, e lui non conosceva l’inglese e cercava di insegnarmi i microtoni, i makam. Io facevo quel che potevo, ma mi rendevo conto che c’erano note che non potevo suonare sulla chitarra: tiravo le corde, facevo di tutto, ma la musica non scorreva. Così tornavo a casa frustrato, chiedendomi cosa potevo fare. Un giorno ho preso la mia chitarra, delle pinze e ho cominciato a togliere i tastini, quindi ho riempito i buchi con della colla. E sono tornato da quel maestro con la mia chitarra fretless: improvvisamente, da un giorno all’altro, sembrava che il mio arabo fosse perfetto, perché capivo tutto quello che diceva! Potevamo farcela, la sua espressione era totalmente diversa e mi consigliava cosa fare, dandomi indicazioni su dove mettere le dita e come muoverle. Mi diceva di posizionarmi in un certo modo e a me sembrava stonato, ma lui diceva che andava bene. All’inizio è davvero strano per un occidentale, ma poi mi sono abituato e sono andato avanti per qualche anno a studiare. Ho imparato davvero molto e sono stato anche invitato da alcuni artisti a suonare con loro.

Suonavi anche l’oud oltre che la chitarra?
No, suonavo solo la chitarra fretless. Imparavo il repertorio dell’oud e lo suonavo sulla chitarra fretless. Più avanti, quando ho imparato ancora meglio, riuscivo ad ascoltare anche una melodia suonata con il flauto ney o il violino arabo e a copiarla sulla chitarra, ma all’inizio non ne ero capace.

Fernando Perez – National Resophonic Guitar

Dopo questo periodo in Egitto, qual è stata la tua nuova destinazione?
Dopo aver studiato la musica araba, per prima cosa mi son preso una pausa. Poi ho cercato qualcosa di diverso e ho cominciato a documentarmi sulla musica cinese. Ne avevo già avuto un assaggio da alcune persone incontrate durante i miei viaggi e l’avevo trovata interessante; avevo pensato che forse un giorno mi ci sarei dedicato. Così ho cominciato a studiarla autonomamente, per qualche mese, e mi sono preparato diverse cose. A quel punto, ho deciso di intraprendere il viaggio in Cina: avevo intenzione di restarci per un po’, anche qualche anno se necessario. Sono andato al Conservatory of Music di Shanghai e all’inizio era davvero spassoso; tutti ridevano di me e pensavano: «Che cosa fa questo tizio? Vuole suonare la musica cinese con la chitarra?» Ma per fortuna, come ti dicevo, avevo già imparato qualcosa che potevo mostrare a loro; e sono subito rimasti sorpresi, perché quelle musiche suonavano bene. In particolare c’era una bravissima persona, che ha parlato con un paio di insegnanti del dipartimento di musica tradizionale e ha deciso con loro di incontrarmi, per vedere di cosa avevo bisogno e cercare di aiutarmi. Stabilirono che non dovevo iscrivermi al conservatorio, pagare e frequentare le lezioni, ma potevo andare direttamente a trovarli nel loro ufficio. Sono stati davvero carinissimi: ci mettevamo a sedere e mi mostravano i diversi strumenti cinesi e come andavano suonati, con tutte le tecniche specifiche. Hanno tirato fuori un vecchio libro cinese e mi hanno detto: «Vedi, queste sono le nostre tecniche, ma ce ne sono altre, davvero antiche, che non vengono più usate, e qui puoi leggere come vanno eseguite.» Così ho iniziato a scoprire un sacco di cose interessanti. Ad esempio, per quanto riguarda il pipa, il liuto cinese, ho scoperto che pizzicavano le corde in un modo totalmente diverso da quello che conosciamo. E mi sono accorto che, cambiando la tecnica di esecuzione, tutte le cose che avevo imparato da solo iniziavano a sembrare davvero musica cinese. Prima sembravano più che altro un’imitazione, per quanto fedele; ma con i loro insegnamenti riuscivo a fare mio il vero spirito della loro musica e il suo suono autentico. Inoltre ho anche scoperto la musica del guqin, uno degli strumenti più antichi al mondo, ancora in uso al giorno d’oggi. È una sorta di grande cetra con sette corde: fai pressione sulle corde con la mano sinistra e le pizzichi con la destra. All’inizio avevo subito pensato che fosse un po’ come una lap steel, anche se non si suona con la tecnica slide. Poi mi è sembrata piuttosto come una chitarra fretless che si suona tenendola appoggiata in orizzontale. Ho iniziato a studiare la sua musica e ho trovato dei pezzi che suonavano bene sulla chitarra; ho trovato le accordature adatte e ho preparato un nuovo repertorio da mostrare al mio insegnante cinese, che è stato molto contento. E in questi anni molte persone in Cina si sono divertite con queste musiche: mi sono arrivate tantissime email in proposito ed è una cosa sorprendente, perché la musica tradizionale spesso è molto chiusa e – se provi a inserirci uno strumento ‘straniero’ – sembra quasi che tu la stia distruggendo; o comunque non vieni apprezzato. Invece è andata bene! E a quel punto mi sono detto: «E adesso?»

Un’altra destinazione?
[ride] Certo! Subito dopo la Cina c’è stata l’Africa. In Africa è stato un viaggio piuttosto breve, un paio di mesi. Infatti, arrivato a questo punto, i miei tempi hanno cominciato a restringersi. Fino ad allora i miei viaggi erano durati diversi anni, però cominciavo a rendermi conto che avevo già coperto parte dei principali sistemi musicali del pianeta, e che ogni cosa nuova in qualche modo era correlata a quello che avevo già fatto. Nella fattispecie, per quanto riguarda l’Africa, avevo alcuni amici africani suonatori di kora, che avevo incontrato in luoghi diversi, in Spagna e in Francia. In Africa avevo sempre desiderato di andarci, ma pensavo che prima sarebbe stato meglio imparare tutto quello che potevo autonomamente. La musica africana, come quella cinese, non ha armonia, non ha un sistema molto complicato; il difficile è ottenere il giusto feeling. Quando poi mi sono sentito pronto e si è presentata l’opportunità, sono andato in Senegal, in un piccolo villaggio. Uno dei miei amici veniva da lì e mi aveva detto: «Tu vai lì, i miei amici e la mia famiglia ti daranno una mano.» Così sono andato in questo villaggio in mezzo al nulla: non c’era niente intorno, né edifici né altro. Stavamo nella casa migliore che c’era, che era totalmente vuota; c’erano solo i muri. Probabilmente era una delle poche case del villaggio che era stata costruita in mattoni. E una volta che sono arrivato, la notizia si è diffusa molto velocemente: io stavo lì con la mia chitarra a suonare, e improvvisamente cominciavano a presentarsi dei suonatori. Un giorno si è presentato un tipo con un djembè, poi un altro che suonava la kora, e mi chiedevano: «Tu sei il tizio bianco che suona la chitarra?» Io rispondevo di sì e loro si sedevano dicendo: «Va bene, cominciamo!» E iniziavano a suonare. Poi ne arrivavano anche altri: sapevano che in quel villaggio, in quella casa, avrebbero trovato il tizio bianco che suona la chitarra. La gente in quel posto è davvero gradevole; lì non c’è niente, quindi l’unica cosa che puoi fare è incontrarti con le persone e stare insieme. In seguito ho incontrato anche un jali, un griot, e ho cominciato a prendere lezioni da lui, nel senso che lui veniva da me e lo pagavo. In realtà, non ha veramente accettato di farmi da insegnante, perché lui suonava la kora e io la chitarra. Quindi, nelle nostre lezioni, lui mi mostrava una canzone e io gli chiedevo di farla più lenta, un pezzo alla volta, così potevo provare a suonarla con la chitarra; in pratica cercavo di memorizzare le melodie per lavorarci poi da solo. Così lui ha iniziato a illustrarmi il suo repertorio, a spiegarmi da che zona proveniva una certa canzone o un particolare stile, come erano state scritte le varie canzoni.

Fernando Perez – Jaipur, India

E dopo l’Africa?
All’epoca avevo iniziato a interessarmi alla musica greca e alla musica turca. Per prima cosa sono andato in Grecia, e nel mio primo viaggio ci sono rimasto per qualche mese. La musica greca si basa su due sistemi: c’è uno stile più occidentalizzato ed uno più orientale, che risente dell’influenza turca. La musica turca si basa sui makam, che condivide con la tradizione araba, così sono riuscito ad imparare questo stile greco abbastanza velocemente. Con la musica greca più europea, poi, non ho avuto problemi per quanto riguarda l’armonia e la tecnica, mentre per il ritmo l’apprendimento è stato più impegnativo: ci sono diversi tempi dispari non convenzionali nelle diverse zone. Così sono rimasto lì per qualche mese, ho suonato con molti musicisti locali, arrangiato brani, scritto dei pezzi originali. E ho registrato questi pezzi nel mio CD Greek Music for Guitar [2014]. Del resto – non ne abbiamo parlato finora – questa è una cosa che faccio normalmente: ogni volta che lascio un posto, cerco di registrare i miei pezzi preferiti che provengono da quell’esperienza. È come una memoria del viaggio. E in questi CD invito anche i miei insegnanti e altra gente a suonare con me. È così che realizzo i miei album, che non sono un’operazione commerciale, non sono qualcosa che faccio tanto per fare, solo per far uscire un album.

Questi CD si possono trovare nel tuo sito, giusto?
Sì, è tutto su Internet, sul mio sito. Ma tornando a parlare del mio viaggio in Grecia, mentre mi immergevo nella musica greca, ho trovato un posto fantastico nell’isola di Creta, il Labyrinth Musical Workshop: non è esattamente una scuola, ma un centro dove organizzano molti workshop soprattutto con artisti mediorientali. È stata un’esperienza fantastica, con tutti questi insegnanti bravissimi che vengono a tenere dei corsi intensivi. Di solito, uno dei principali problemi quando decidi di studiare in un paese orientale, è che spesso c’è molta disorganizzazione; o meglio, hanno un modo tutto loro di organizzarsi! E quindi finisci per metterci molto tempo a fare le cose, e diventa frustrante. Lì a Creta, invece, è stato davvero bellissimo: ho potuto imparare moltissimo, in un contesto ben organizzato. È lì che ho cominciato a seguire le lezioni di alcuni maestri turchi. Più tardi li ho reincontrati, quando sono andato qualche mese a Istanbul per studiare. È stato a quel punto che ho iniziato a capire veramente il sistema makam della musica turca, che è piuttosto diverso da quello della musica araba. A Istanbul ho anche registrato con alcuni musicisti locali [Guitar & Music of Turkey, 2015], e dopo questo percorso ho iniziato a interessarmi alla musica persiana. In quel periodo, però, era difficile andare in Persia, in Iran. Ma anche in questo caso sono stato fortunato, perché in Grecia avevano cominciato a invitare docenti di musica proprio dall’Iran. Così ho incontrato il mio insegnante di musica persiana, che poi ho ritrovato in Spagna, dove si è trasferito in seguito. E ho fatto la stessa cosa con la musica afghana, visto che andare in Afghanistan non è una grande idea ora come ora: adoro visitare altri paesi, ma non sono completamente incosciente. Quindi ho incontrato un maestro afghano che vive in Germania e che viaggia molto e tiene dei workshop. È un rifugiato che ha lasciato il suo paese da molti anni, ed è uno degli ultimi maestri di musica afghana che segue la tradizione. Ho cominciato a studiare questa musica sotto la sua guida e mi sono accorto, anche se l’Afghanistan è certamente più vicino all’Iran sotto molti punti di vista, che la sua musica è più simile a quella indiana. Tutti i maestri afghani sono andati a studiare in India, con il sistema dei raga. E ho subito pensato che ancora una volta mi diceva bene: potevo farcela, avevo già studiato in India.

La musica persiana però non viene affrontata nel tuo libro…
No, infatti, non avevo ancora studiato la musica persiana quando ho scritto il libro. Mi ci sono dedicato dopo e l’ho trovata veramente interessante. In realtà la sto ancora studiando, ma ho scoperto che la base del sistema makam della musica turca e della musica araba viene dalla musica persiana. Ho anche visto, come ti dicevo, la relazione tra musica afghana e musica indiana, così ho studiato contemporaneamente musica afghana e musica persiana. E ho anche approfondito un altro stile, sempre collegato alla musica persiana: la musica curda, in particolare quella della regione del Kermanshah, che si trova in Iran. È successo infatti che il mio insegnante di musica persiana teneva una lezione in un posto dove c’era anche un insegnante curdo. Così ho avuto modo di ascoltare la sua musica, che mi è piaciuta molto; ho visto i suoi strumenti, in particolare il tanbur curdo, che è diverso da quello turco; e soprattutto ho visto la sua tecnica, che mi è sembrata fantastica, con tutto quel rasgueado: sembrava quasi flamenco! Allora sono andato a studiare da lui ed è stato favoloso: quella musica suona così bene sulla chitarra!

Andrea Carpi

Grazie a Matteo Carpi per la traduzione dall’inglese dell’intervista.

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