Riccardo Chiarion è un chitarrista che appartiene alla nuova generazione dei musicisti jazz, sia per formazione (si è diplomato col massimo dei voti alla Scuola di Jazz del Conservatorio “Tartini” di Trieste) quanto per i suoi orizzonti musicali, decisamente orientati verso la ricerca. Dotato di un fraseggio fluido, quasi sassofonistico, in cui si rinvengono influenze dei moderni chitarristi jazz come Pat Metheny o Adam Rogers, ma anche la presenza di una forte impronta personale. Al contempo, Chiarion è anche compositore dalla sensibilità non comune, votato alla ricerca introspettiva. Cogliamo l’occasione dell’imminente uscita del suo nuovo CD Sirene, inciso con Michele Polga al sax, Stefano Senni al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, per intervistarlo.
Riccardo, qual è stato il tuo percorso musicale e come ti sei accostato alla chitarra jazz?
Inizialmente non amavo molto la musica, anzi mi sembrava essere una cosa imposta. Mio padre suona la chitarra e spesso lo sentivo suonare e non capivo, ero solo interessato al basket. Poi a quattordici anni è scoppiata la passione, ho preso in mano la sua Fender Stratocaster e imparato la scala blues, che mio padre mi ha subito insegnato. Da allora ho iniziato a suonare sempre, ogni momento libero, e a pensarci anche quando ero a scuola. Risultato: bocciatura… Dopo due anni ho iniziato con i primi gruppi suonando blues, avvicinandomi alla musica di Jimi Hendrix.
C’è stato un artista o un ascolto musicale che ti ha colpito e ti ha fatto decidere di studiare la chitarra jazz?
In realtà inizialmente non gradivo molto il jazz, non lo capivo. Un giorno però mi è capitato di ascoltare un CD di John Coltrane, First Meditations, forse ci ho sentito un’energia simile a quella di Hendrix e gradualmente mi sono addentrato nel mondo del jazz. Mi sono piaciuti anche i Weather Report, anche se non c’era un chitarrista. Fondamentalmente credo di essermi affidato alle sensazioni più che ad un discorso tecnico.
Che anni erano?
Era il 1988, ho iniziato a quattordici anni, intorno ai diciotto mi sono avvicinato al jazz e devo veramente ammettere di essere stato fortunato, perché mio padre mi ha spiegato molte cose fin da subito.
Quando hai incominciato a studiare in maniera seria e sistematica?
Quando ho iniziato a frequentare, all’Istituto di Musica di Gorizia, il corso di jazz che allora teneva Glauco Venier. Lui mi ha spiegato quasi tutto quello che so, tranne le cose che ho capito suonando e pensandoci da solo o grazie ai molti musicisti con cui ho avuto la fortuna di suonare.
Be’, Glauco Venier è un rinomato insegnante oltre che artista molto conosciuto.
Sì, lo è, uno dei pochi che ti dicono veramente le cose come stanno, cosa molto importante per un allievo. Ti fa capire veramente come suoni e cosa devi fare per affrontare il professionismo musicale.
Ho molti amici che hanno studiato con lui e tutti gli sono molto grati.
Anch’io, lo ringrazio sia per la didattica che per le esperienze musicali; con lui ho potuto suonare in contesti diversi, con musicisti internazionali ed eseguire musiche molto impegnative e interessanti. Poi ho studiato un po’ con Roberto Dani, un percussionista batterista di Vicenza e lì ho veramente capito l’importanza del ritmo, che davvero può cambiare il senso a una melodia. Queste sono le cose che ancora adesso studio e esploro ogni giorno. Quindi sono entrato al Conservatorio di Trieste e mi sono diplomato al triennio e biennio jazz, è stata un’esperienza molto formativa anche per i rapporti con gli insegnanti di musica classica. Penso, per esempio, a Stefano Procaccioli, l’insegnante di armonia di Trieste, un docente veramente illuminante…
Come sono visti gli studenti di jazz nei conservatori?
Ormai legano con gli altri, grazie a iniziative come big band o gruppi allargati che coinvolgono docenti e allievi di tutte le discipline. La cosa pian piano sta cambiando e tutti capiscono l’importanza che può avere una formazione completa per un musicista d’oggi.
La didattica jazz ha fatto passi da gigante ultimamente in Italia, portare il jazz nei Conservatori era impensabile fino a pochi anni fa. Come valuti questa cosa? C’è il rischio che il jazz insegnato in maniera standardizzata diventi a sua volta qualcosa di troppo cristallizzato e perda spontaneità?
È un’ottima domanda! Attualmente sto insegnando in tre conservatori (Trieste, Udine e Rovigo) e penso che la risposta stia nell’intelligenza di ogni singolo insegnante. La parola d’ordine secondo me è ‘rischiare’: se uno si limita esclusivamente a insegnare, a spiegare quello che sa al meglio, è inevitabile che, con il passare degli anni, spieghi cose sempre meno attuali. Credo invece che sia importante far capire allo studente che la musica è in continua evoluzione, che bisogna correrle dietro e cercare di capire cosa sta succedendo adesso! Oltre a conoscere benissimo quello che è successo in passato, chiaramente…
Nel tuo studio ti sei affidato anche alla didattica americana? Negli anni sessanta c’era pochissimo materiale a disposizione, il metodo di Mickey Baker [Complete Course in Jazz Guitar, 1955] e poco altro, oggi ci sono centinaia di libri, DVD, masterclass e chi più ne ha più ne metta.
Sì, nello studio ho curiosato tutto quello che ho trovato in giro… e poi ho fatto un sunto e trovato un mio metodo. Forse conoscerai i miei due libri: Appunti di chitarra – Vol. 1 e Fraseggio jazz per chitarra; li ho pubblicati per dare ai miei allievi un sunto di tante cose imparate da me con l’esperienza e la pratica sul palco.
Certo li conosco, sono fatti molto bene. Questo mi dà lo spunto per la prossima domanda: la chitarra è uno strumento molto diffuso e nella musica jazz ha un ruolo particolare, che si è via via accresciuto nel corso degli anni. Da semplice strumento della sezione ritmica, che sostituiva il banjo negli anni 1920, siamo arrivati ai solisti moderni come Jonathan Kreisberg e Kurt Rosenwinkel, la cui musica sembra andare oltre i generi. Ciònonostante ci sono ancora molti che seguono una corrente principale ‘mainstream’. Tu che direzione segui?
A me piacerebbe saper fare entrambe le cose, ma sicuramente mi sento più un chitarrista moderno. Il mainstream credo sia una passione che brucia dentro ad alcune persone… e le porta a dedicare molto o tutto il tempo nel riuscire a padroneggiare perfettamente un linguaggio conosciuto (e in alcuni casi a evolverlo), mentre nel jazz moderno un musicista cerca costantemente di capire chi è, qual è la propria voce e in che maniera può esprimerla. Non è facile ed è molto rischioso: molti musicisti facendo questo possono essere fraintesi, penso per esempio a John Coltrane che inizialmente è stato molto criticato.
Od Ornette Coleman…
Sì, anche Ornette Coleman. Comunque a me piace rischiare, è come vivere un’avventura senza sapere dove si arriverà, una forma di esplorazione. E ho notato che grazie a questo approccio miglioro molto! La mia ricerca attualmente è ritmico-melodica applicata all’armonia e all’utilizzo delle dissonanze: c’è un mondo di possibilità che credo non sia ancora del tutto esplorato. Se ascolto Brad Mehldau, è evidente che qualcuno riesce a captarlo e farci intuire che è possibile andare avanti. E credo sia importante. Tutti i musicisti che studiamo, anche quelli del periodo che oggi ispira il mainstream, nei loro anni erano dei pionieri.
Ho visto recentemente un tuo bel concerto con il gruppo del sassofonista Nicola Fazzini. Musica molto interessante, ma anche molto articolata e complessa, che richiede un pubblico attento e competente. Come ti poni riguardo questo aspetto? Credi che un artista debba scendere a compromessi con i gusti del pubblico?
Non lo so con certezza, ma penso che un musicista debba fare quello in cui crede. Mentire per avere pubblico potrebbe pagare in termini economici, ma non so se alla lunga fa star bene l’artista. È una scelta molto personale. La speranza è che quello che piace a me in qualche maniera possa incontrare l’interesse di almeno un po’ di persone, e magari farle vibrare con qualche sentimento… oltre ai concetti. La musica di Nicola credo che abbia pienamente queste caratteristiche. È vero che forse in questo periodo l’ascoltatore è abituato sempre più ad ascolti brevi, e fa fatica a concentrare l’attenzione sui suoni in maniera curiosa. Penso sia possibile fare un parallelo con la pittura, è come osservare un quadro figurativo o uno astratto: c’è chi predilige l’astrattismo e ama cercare i significati da solo, e chi invece sceglie la sicurezza di ciò che è comprensibile.
Parlando di musica moderna mi viene in mente che ancora oggi molti musicisti jazz fanno riferimento al blues considerandolo come il nocciolo del jazz. Quanto è presente il blues nella tua musica?
Credo che in qualche maniera in Sirene, il mio ultimo CD, il blues sia presente ma non in maniera esplicita: non suoniamo mai la scala blues, per intenderci, ma la sua emotività penso ci sia. Io ho ascoltato e suonato molto blues e quando lo ami ti resta dentro.
La stessa cosa vale per lo swing e la pronuncia jazzistica? Spesso gli artisti europei e non solo europei paiono prescindere da questi elementi.
Sì, è vero, alle volte sembra essere una cosa da evitare, ma io non lo credo. Ho suonato per circa tre anni nel quartetto di Pietro Tonolo e con lui ho capito che possiamo suonare quello che vogliamo senza paletti. In Sirene ho utilizzato anche lo swing, mi piace suonarlo: dopo tanti anni di studio per acquisirlo, non vedo perché io non possa usare quel linguaggio.
In Sirene i brani sono tutte tue composizioni?
Sì, sono otto composizioni originali. È stato molto interessante comporle, ho cercato spesso delle idee che guidassero il brano, come ad esempio la scelta di alcuni disegni intervallari molto limitati, utilizzando al massimo tre intervalli melodici per costruire un tema. Compongo scegliendo un ambito e ne sviscero le potenzialità. Spesso armonizzo la melodia in un secondo momento e, facendolo, cerco di enfatizzarne le caratteristiche. Altre volte parto dal ritmo, ad esempio “Namòs”, un brano del disco, ha un tema che quasi ogni misura cambia metrica; ma a chi lo ascolta non sembra. Questo lavoro di composizione è fondamentale per me quanto quello successivo in studio di registrazione, dove – grazie ai musicisti – la musica prende forma. Il quartetto suona in maniera moderna e devo ammettere che è particolarmente adatto alla mia musica, mi diverto molto quando suono con loro: Michele Polga, Stefano Senni e Luca Colussi. Naturalmente in un disco di musica jazz è importante anche l’aspetto improvvisativo; da questo punto di vista credo di aver capito alcune mie peculiarità, mi piace improvvisare pensando alle ‘regole’ del contrappunto classico: note di volta, note di passaggio, appoggiature e ritardi, anticipazioni e… cercare la melodia scomponendola in cellule più piccole. Ho letto molti libri di Arnold Schoenberg dedicati alla composizione e mi sono serviti molto. Mi è stato molto utile anche analizzare musiche seriali… alla fine la musica è una!
In effetti Schoenberg sembra essere uno dei musicisti ‘classici’ preferiti dai jazzisti, il suo Manuale di armonia è forse anche qualcosa di più di un libro di musica.
Beh, non vorrei entrare in un campo che non è il mio… comunque senz’altro, dal punto di vista didattico, è stato per me illuminante: l’ho letto la prima volta a diciannove anni e poi riletto un po’ di volte…
La ricerca di un suono personale e riconoscibile è sempre stato un obiettivo primario per i chitarristi e gli strumentisti in genere. Alle volte si contesta a questo o a quell’altro chitarrista di ‘assomigliare’ troppo come suono ad artisti noti. Tu lavori su questo aspetto?
Io credo nel suono dato dalla scelta delle note e mi piace usare un suono pulito per lo più, se intendi per suono quello dello strumento. Personalmente amo sentire il suono della chitarra senza utilizzare troppi effetti, che le fanno perdere a parer mio concretezza. Ultimamente ho notato che la chitarra pulita è una scelta sempre più frequente anche nei giovani chitarristi.
Tu suoni anche altri strumenti oltre alla chitarra?
Suono il basso elettrico, che è molto simile alla chitarra e dovrebbe essere studiato secondo me come strumento complementare, in quanto permette di concentrare al massimo l’attenzione sull’armonia e sulla struttura del brano. Suono il piano, per lo più armonicamente, e la batteria per concentrare l’attenzione sulle poliritmie e gli spostamenti di accenti. Solo con la chitarra e il basso potrei però gestire una serata. Ah, dimenticavo… canto il più possibile, è una cosa che chi studia dovrebbe capire subito: più si canta, meglio si suona! Non c’è dubbio.
Tu vivi a Gorizia, una città generalmente vista un po’ come periferica culturalmente rispetto al resto dell’Italia, ma in realtà pienamente mitteleuropea e quindi in una posizione virtualmente privilegiata. Molti musicisti friulani si spostano, altri rimangono in Friuli. Come consideri questa zona da un punto di vista musicale?
In Friuli-Venezia Giulia ci sono moltissimi bravi musicisti e penso che la regione possa dare molto dal punto di vista geografico: potrebbe veramente diventare una delle porte verso l’Europa. Con il Gorizia Jazz Workshop volevo fare questo, creare un punto di aggregazione musicale per tutti; e spero che la cosa continui, siamo ormai arrivati alla quinta edizione.
Di cosa si tratta? Vuoi parlarcene?
È un seminario didattico della durata di tre giorni, con bravissimi insegnanti di strumento e classi di teoria, ritmica, musica d’insieme e, alla sera, le jam session: tre giorni di incontri musicali, insomma, con un entusiasmo veramente particolare. Purtroppo l’edizione del 2011 è saltata per motivi tecnici, ma spero nel 2012.
Siete in contatto con le altre scuole?
Sarebbe mia intenzione creare un network con contatti tra docenti e allievi. In questo senso anche i conservatori si stanno muovendo. La prossima settimana andrò in Francia, a Lille, per un congresso di docenti di accademie di tutta Europa, in rappresentanza del Conservatorio “Tartini” di Trieste. Spero che nei prossimi anni, anche grazie a queste esperienze, in Friuli-Venezia Giulia inizino a vedersi sempre più musicisti stranieri. E spero che i progetti internazionali portino nuove energie creative e un sano confronto.
Essere un musicista professionista è sempre stata una cosa non semplice, in particolare in Italia dove la musica non è mai stata particolarmente agevolata. Ti sentiresti, ciònonostante, di consigliare la strada del professionismo musicale a un appassionato?
Quando mi sono avvicinato a questo mondo immaginavo solo gli aspetti positivi, poi ho capito che anche quelli negativi non mancano… Ma una cosa è sicura: se al giorno d’oggi una persona volesse fare il musicista professionista, per prima cosa dovrebbe comprendere quanto è importante studiare – con la massima serietà – la musica, che diventa appunto una professione e richiede capacità specifiche indispensabili. Oltretutto la concorrenza è sempre più agguerrita e nessuno ti viene a cercare, se non suoni veramente bene: spesso gli studenti dei conservatori dovrebbero capire questo.
Questo è particolarmente vero per i chitarristi, che sono forse i più numerosi tra gli strumentisti.
Sì, siamo veramente tanti. Però è anche vero che la chitarra è uno strumento particolarmente complicato ed è veramente difficile suonarlo bene: se ci pensi, dentro cinque tasti abbiamo quasi un sassofono, almeno parlando di note… I sassofonisti invece hanno altre difficoltà, suono, intonazione…
È sicuramente uno strumento con molte potenzialità inesplorate…
Sì, hai ragione, e questo lo rende particolarmente affascinante ai miei occhi.
Parliamo della tua attrezzatura, argomento sempre prediletto dai chitarristi: che strumento utilizzi?
Una Gibson 335, con corde lisce Thomastik .011, un amplificatore Polytone Mini-Brute e tre pedali: Rat, Nova Reverb e Nova Delay della TC, non uso altro… In studio alle volte mi avvalgo di riverberi particolari, solo per dare profondità al suono.
Suoni anche l’acustica?
Sì, non l’ho ancora utilizzata in incisioni, ma il suono acustico è fondamentale per un musicista.
A questo proposito, oggi sembra che il ruolo del tecnico del suono sia diventato molto importante, quasi quanto quello dei musicisti. Pensi che si sia andati troppo oltre su questa strada?
Non lo so, credo che comunque un CD debba rispecchiare le capacità del musicista: se in studio si usa troppo la tecnologia, forse la naturalezza perde qualcosa. È una questione di scelte personali, a me piace poter eseguire dal vivo quello che incido in studio, così chi decide di comprare il CD a un mio concerto può ricordare la situazione live.
Abbiamo parlato del tuo ultimo CD Sirene. Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
Sto pensando di lavorare su piani diversi: da una parte vorrei dedicarmi ad autori di poesie locali e musicarne qualcuna; vorrei continuare con il quartetto e quindi con brani originali, e forse provare a registrare anche delle cose in duo e forse da solo; vorrei anche dedicarmi alla registrazione di qualche CD di standard… Insomma ho tante idee e, con calma, una alla volta arriveranno.
Hai un tuo sito web, sfrutti la tecnologia Internet?
Sì, per adesso è un blog, www.riccardochiarion.com, che però è già molto visitato da appassionati della chitarra. Pubblico videolezioni gratuite abbinate ai libri che ho scritto. Fra un po’ sarà attivo il nuovo sito, sempre allo stesso indirizzo, e sto preparando una nuova serie di lezioni organizzate come una vera scuola online, che servirà a tutti i miei allievi dei conservatori, per ripetere il programma, e a chiunque altro volesse capire più a fondo la chitarra in una maniera seria e professionale. Chiunque sia interessato può contattarmi via email, all’indirizzo riccardochiarion@gmail.com.
Domenico Lobuono
Chitarra Acustica, 4/2012, ppRiccardo Chiarion è un chitarrista che appartiene alla nuova generazione dei musicisti jazz, sia per formazione (si è diplomato col massimo dei voti alla Scuola di Jazz del Conservatorio “Tartini” di Trieste) quanto per i suoi orizzonti musicali, decisamente orientati verso la ricerca. Dotato di un fraseggio fluido, quasi sassofonistico, in cui si rinvengono influenze dei moderni chitarristi jazz come Pat Metheny o Adam Rogers, ma anche la presenza di una forte impronta personale. Al contempo, Chiarion è anche compositore dalla sensibilità non comune, votato alla ricerca introspettiva. Cogliamo l’occasione dell’imminente uscita del suo nuovo CD Sirene, inciso con Michele Polga al sax, Stefano Senni al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, per intervistarlo.
Riccardo, qual è stato il tuo percorso musicale e come ti sei accostato alla chitarra jazz?
Inizialmente non amavo molto la musica, anzi mi sembrava essere una cosa imposta. Mio padre suona la chitarra e spesso lo sentivo suonare e non capivo, ero solo interessato al basket. Poi a quattordici anni è scoppiata la passione, ho preso in mano la sua Fender Stratocaster e imparato la scala blues, che mio padre mi ha subito insegnato. Da allora ho iniziato a suonare sempre, ogni momento libero, e a pensarci anche quando ero a scuola. Risultato: bocciatura… Dopo due anni ho iniziato con i primi gruppi suonando blues, avvicinandomi alla musica di Jimi Hendrix.
C’è stato un artista o un ascolto musicale che ti ha colpito e ti ha fatto decidere di studiare la chitarra jazz?
In realtà inizialmente non gradivo molto il jazz, non lo capivo. Un giorno però mi è capitato di ascoltare un CD di John Coltrane, First Meditations, forse ci ho sentito un’energia simile a quella di Hendrix e gradualmente mi sono addentrato nel mondo del jazz. Mi sono piaciuti anche i Weather Report, anche se non c’era un chitarrista. Fondamentalmente credo di essermi affidato alle sensazioni più che ad un discorso tecnico.
Che anni erano?
Era il 1988, ho iniziato a quattordici anni, intorno ai diciotto mi sono avvicinato al jazz e devo veramente ammettere di essere stato fortunato, perché mio padre mi ha spiegato molte cose fin da subito.
Quando hai incominciato a studiare in maniera seria e sistematica?
Quando ho iniziato a frequentare, all’Istituto di Musica di Gorizia, il corso di jazz che allora teneva Glauco Venier. Lui mi ha spiegato quasi tutto quello che so, tranne le cose che ho capito suonando e pensandoci da solo o grazie ai molti musicisti con cui ho avuto la fortuna di suonare.
Be’, Glauco Venier è un rinomato insegnante oltre che artista molto conosciuto.
Sì, lo è, uno dei pochi che ti dicono veramente le cose come stanno, cosa molto importante per un allievo. Ti fa capire veramente come suoni e cosa devi fare per affrontare il professionismo musicale.
Ho molti amici che hanno studiato con lui e tutti gli sono molto grati.
Anch’io, lo ringrazio sia per la didattica che per le esperienze musicali; con lui ho potuto suonare in contesti diversi, con musicisti internazionali ed eseguire musiche molto impegnative e interessanti. Poi ho studiato un po’ con Roberto Dani, un percussionista batterista di Vicenza e lì ho veramente capito l’importanza del ritmo, che davvero può cambiare il senso a una melodia. Queste sono le cose che ancora adesso studio e esploro ogni giorno. Quindi sono entrato al Conservatorio di Trieste e mi sono diplomato al triennio e biennio jazz, è stata un’esperienza molto formativa anche per i rapporti con gli insegnanti di musica classica. Penso, per esempio, a Stefano Procaccioli, l’insegnante di armonia di Trieste, un docente veramente illuminante…
Come sono visti gli studenti di jazz nei conservatori?
Ormai legano con gli altri, grazie a iniziative come big band o gruppi allargati che coinvolgono docenti e allievi di tutte le discipline. La cosa pian piano sta cambiando e tutti capiscono l’importanza che può avere una formazione completa per un musicista d’oggi.
La didattica jazz ha fatto passi da gigante ultimamente in Italia, portare il jazz nei Conservatori era impensabile fino a pochi anni fa. Come valuti questa cosa? C’è il rischio che il jazz insegnato in maniera standardizzata diventi a sua volta qualcosa di troppo cristallizzato e perda spontaneità?
È un’ottima domanda! Attualmente sto insegnando in tre conservatori (Trieste, Udine e Rovigo) e penso che la risposta stia nell’intelligenza di ogni singolo insegnante. La parola d’ordine secondo me è ‘rischiare’: se uno si limita esclusivamente a insegnare, a spiegare quello che sa al meglio, è inevitabile che, con il passare degli anni, spieghi cose sempre meno attuali. Credo invece che sia importante far capire allo studente che la musica è in continua evoluzione, che bisogna correrle dietro e cercare di capire cosa sta succedendo adesso! Oltre a conoscere benissimo quello che è successo in passato, chiaramente…
Nel tuo studio ti sei affidato anche alla didattica americana? Negli anni sessanta c’era pochissimo materiale a disposizione, il metodo di Mickey Baker [Complete Course in Jazz Guitar, 1955] e poco altro, oggi ci sono centinaia di libri, DVD, masterclass e chi più ne ha più ne metta.
Sì, nello studio ho curiosato tutto quello che ho trovato in giro… e poi ho fatto un sunto e trovato un mio metodo. Forse conoscerai i miei due libri: Appunti di chitarra – Vol. 1 e Fraseggio jazz per chitarra; li ho pubblicati per dare ai miei allievi un sunto di tante cose imparate da me con l’esperienza e la pratica sul palco.
Certo li conosco, sono fatti molto bene. Questo mi dà lo spunto per la prossima domanda: la chitarra è uno strumento molto diffuso e nella musica jazz ha un ruolo particolare, che si è via via accresciuto nel corso degli anni. Da semplice strumento della sezione ritmica, che sostituiva il banjo negli anni 1920, siamo arrivati ai solisti moderni come Jonathan Kreisberg e Kurt Rosenwinkel, la cui musica sembra andare oltre i generi. Ciònonostante ci sono ancora molti che seguono una corrente principale ‘mainstream’. Tu che direzione segui?
A me piacerebbe saper fare entrambe le cose, ma sicuramente mi sento più un chitarrista moderno. Il mainstream credo sia una passione che brucia dentro ad alcune persone… e le porta a dedicare molto o tutto il tempo nel riuscire a padroneggiare perfettamente un linguaggio conosciuto (e in alcuni casi a evolverlo), mentre nel jazz moderno un musicista cerca costantemente di capire chi è, qual è la propria voce e in che maniera può esprimerla. Non è facile ed è molto rischioso: molti musicisti facendo questo possono essere fraintesi, penso per esempio a John Coltrane che inizialmente è stato molto criticato.
Od Ornette Coleman…
Sì, anche Ornette Coleman. Comunque a me piace rischiare, è come vivere un’avventura senza sapere dove si arriverà, una forma di esplorazione. E ho notato che grazie a questo approccio miglioro molto! La mia ricerca attualmente è ritmico-melodica applicata all’armonia e all’utilizzo delle dissonanze: c’è un mondo di possibilità che credo non sia ancora del tutto esplorato. Se ascolto Brad Mehldau, è evidente che qualcuno riesce a captarlo e farci intuire che è possibile andare avanti. E credo sia importante. Tutti i musicisti che studiamo, anche quelli del periodo che oggi ispira il mainstream, nei loro anni erano dei pionieri.
Ho visto recentemente un tuo bel concerto con il gruppo del sassofonista Nicola Fazzini. Musica molto interessante, ma anche molto articolata e complessa, che richiede un pubblico attento e competente. Come ti poni riguardo questo aspetto? Credi che un artista debba scendere a compromessi con i gusti del pubblico?
Non lo so con certezza, ma penso che un musicista debba fare quello in cui crede. Mentire per avere pubblico potrebbe pagare in termini economici, ma non so se alla lunga fa star bene l’artista. È una scelta molto personale. La speranza è che quello che piace a me in qualche maniera possa incontrare l’interesse di almeno un po’ di persone, e magari farle vibrare con qualche sentimento… oltre ai concetti. La musica di Nicola credo che abbia pienamente queste caratteristiche. È vero che forse in questo periodo l’ascoltatore è abituato sempre più ad ascolti brevi, e fa fatica a concentrare l’attenzione sui suoni in maniera curiosa. Penso sia possibile fare un parallelo con la pittura, è come osservare un quadro figurativo o uno astratto: c’è chi predilige l’astrattismo e ama cercare i significati da solo, e chi invece sceglie la sicurezza di ciò che è comprensibile.
Parlando di musica moderna mi viene in mente che ancora oggi molti musicisti jazz fanno riferimento al blues considerandolo come il nocciolo del jazz. Quanto è presente il blues nella tua musica?
Credo che in qualche maniera in Sirene, il mio ultimo CD, il blues sia presente ma non in maniera esplicita: non suoniamo mai la scala blues, per intenderci, ma la sua emotività penso ci sia. Io ho ascoltato e suonato molto blues e quando lo ami ti resta dentro.
La stessa cosa vale per lo swing e la pronuncia jazzistica? Spesso gli artisti europei e non solo europei paiono prescindere da questi elementi.
Sì, è vero, alle volte sembra essere una cosa da evitare, ma io non lo credo. Ho suonato per circa tre anni nel quartetto di Pietro Tonolo e con lui ho capito che possiamo suonare quello che vogliamo senza paletti. In Sirene ho utilizzato anche lo swing, mi piace suonarlo: dopo tanti anni di studio per acquisirlo, non vedo perché io non possa usare quel linguaggio.
In Sirene i brani sono tutte tue composizioni?
Sì, sono otto composizioni originali. È stato molto interessante comporle, ho cercato spesso delle idee che guidassero il brano, come ad esempio la scelta di alcuni disegni intervallari molto limitati, utilizzando al massimo tre intervalli melodici per costruire un tema. Compongo scegliendo un ambito e ne sviscero le potenzialità. Spesso armonizzo la melodia in un secondo momento e, facendolo, cerco di enfatizzarne le caratteristiche. Altre volte parto dal ritmo, ad esempio “Namòs”, un brano del disco, ha un tema che quasi ogni misura cambia metrica; ma a chi lo ascolta non sembra. Questo lavoro di composizione è fondamentale per me quanto quello successivo in studio di registrazione, dove – grazie ai musicisti – la musica prende forma. Il quartetto suona in maniera moderna e devo ammettere che è particolarmente adatto alla mia musica, mi diverto molto quando suono con loro: Michele Polga, Stefano Senni e Luca Colussi. Naturalmente in un disco di musica jazz è importante anche l’aspetto improvvisativo; da questo punto di vista credo di aver capito alcune mie peculiarità, mi piace improvvisare pensando alle ‘regole’ del contrappunto classico: note di volta, note di passaggio, appoggiature e ritardi, anticipazioni e… cercare la melodia scomponendola in cellule più piccole. Ho letto molti libri di Arnold Schoenberg dedicati alla composizione e mi sono serviti molto. Mi è stato molto utile anche analizzare musiche seriali… alla fine la musica è una!
In effetti Schoenberg sembra essere uno dei musicisti ‘classici’ preferiti dai jazzisti, il suo Manuale di armonia è forse anche qualcosa di più di un libro di musica.
Beh, non vorrei entrare in un campo che non è il mio… comunque senz’altro, dal punto di vista didattico, è stato per me illuminante: l’ho letto la prima volta a diciannove anni e poi riletto un po’ di volte…
La ricerca di un suono personale e riconoscibile è sempre stato un obiettivo primario per i chitarristi e gli strumentisti in genere. Alle volte si contesta a questo o a quell’altro chitarrista di ‘assomigliare’ troppo come suono ad artisti noti. Tu lavori su questo aspetto?
Io credo nel suono dato dalla scelta delle note e mi piace usare un suono pulito per lo più, se intendi per suono quello dello strumento. Personalmente amo sentire il suono della chitarra senza utilizzare troppi effetti, che le fanno perdere a parer mio concretezza. Ultimamente ho notato che la chitarra pulita è una scelta sempre più frequente anche nei giovani chitarristi.
Tu suoni anche altri strumenti oltre alla chitarra?
Suono il basso elettrico, che è molto simile alla chitarra e dovrebbe essere studiato secondo me come strumento complementare, in quanto permette di concentrare al massimo l’attenzione sull’armonia e sulla struttura del brano. Suono il piano, per lo più armonicamente, e la batteria per concentrare l’attenzione sulle poliritmie e gli spostamenti di accenti. Solo con la chitarra e il basso potrei però gestire una serata. Ah, dimenticavo… canto il più possibile, è una cosa che chi studia dovrebbe capire subito: più si canta, meglio si suona! Non c’è dubbio.
Tu vivi a Gorizia, una città generalmente vista un po’ come periferica culturalmente rispetto al resto dell’Italia, ma in realtà pienamente mitteleuropea e quindi in una posizione virtualmente privilegiata. Molti musicisti friulani si spostano, altri rimangono in Friuli. Come consideri questa zona da un punto di vista musicale?
In Friuli-Venezia Giulia ci sono moltissimi bravi musicisti e penso che la regione possa dare molto dal punto di vista geografico: potrebbe veramente diventare una delle porte verso l’Europa. Con il Gorizia Jazz Workshop volevo fare questo, creare un punto di aggregazione musicale per tutti; e spero che la cosa continui, siamo ormai arrivati alla quinta edizione.
Di cosa si tratta? Vuoi parlarcene?
È un seminario didattico della durata di tre giorni, con bravissimi insegnanti di strumento e classi di teoria, ritmica, musica d’insieme e, alla sera, le jam session: tre giorni di incontri musicali, insomma, con un entusiasmo veramente particolare. Purtroppo l’edizione del 2011 è saltata per motivi tecnici, ma spero nel 2012.
Siete in contatto con le altre scuole?
Sarebbe mia intenzione creare un network con contatti tra docenti e allievi. In questo senso anche i conservatori si stanno muovendo. La prossima settimana andrò in Francia, a Lille, per un congresso di docenti di accademie di tutta Europa, in rappresentanza del Conservatorio “Tartini” di Trieste. Spero che nei prossimi anni, anche grazie a queste esperienze, in Friuli-Venezia Giulia inizino a vedersi sempre più musicisti stranieri. E spero che i progetti internazionali portino nuove energie creative e un sano confronto.
Essere un musicista professionista è sempre stata una cosa non semplice, in particolare in Italia dove la musica non è mai stata particolarmente agevolata. Ti sentiresti, ciònonostante, di consigliare la strada del professionismo musicale a un appassionato?
Quando mi sono avvicinato a questo mondo immaginavo solo gli aspetti positivi, poi ho capito che anche quelli negativi non mancano… Ma una cosa è sicura: se al giorno d’oggi una persona volesse fare il musicista professionista, per prima cosa dovrebbe comprendere quanto è importante studiare – con la massima serietà – la musica, che diventa appunto una professione e richiede capacità specifiche indispensabili. Oltretutto la concorrenza è sempre più agguerrita e nessuno ti viene a cercare, se non suoni veramente bene: spesso gli studenti dei conservatori dovrebbero capire questo.
Questo è particolarmente vero per i chitarristi, che sono forse i più numerosi tra gli strumentisti.
Sì, siamo veramente tanti. Però è anche vero che la chitarra è uno strumento particolarmente complicato ed è veramente difficile suonarlo bene: se ci pensi, dentro cinque tasti abbiamo quasi un sassofono, almeno parlando di note… I sassofonisti invece hanno altre difficoltà, suono, intonazione…
È sicuramente uno strumento con molte potenzialità inesplorate…
Sì, hai ragione, e questo lo rende particolarmente affascinante ai miei occhi.
Parliamo della tua attrezzatura, argomento sempre prediletto dai chitarristi: che strumento utilizzi?
Una Gibson 335, con corde lisce Thomastik .011, un amplificatore Polytone Mini-Brute e tre pedali: Rat, Nova Reverb e Nova Delay della TC, non uso altro… In studio alle volte mi avvalgo di riverberi particolari, solo per dare profondità al suono.
Suoni anche l’acustica?
Sì, non l’ho ancora utilizzata in incisioni, ma il suono acustico è fondamentale per un musicista.
A questo proposito, oggi sembra che il ruolo del tecnico del suono sia diventato molto importante, quasi quanto quello dei musicisti. Pensi che si sia andati troppo oltre su questa strada?
Non lo so, credo che comunque un CD debba rispecchiare le capacità del musicista: se in studio si usa troppo la tecnologia, forse la naturalezza perde qualcosa. È una questione di scelte personali, a me piace poter eseguire dal vivo quello che incido in studio, così chi decide di comprare il CD a un mio concerto può ricordare la situazione live.
Abbiamo parlato del tuo ultimo CD Sirene. Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
Sto pensando di lavorare su piani diversi: da una parte vorrei dedicarmi ad autori di poesie locali e musicarne qualcuna; vorrei continuare con il quartetto e quindi con brani originali, e forse provare a registrare anche delle cose in duo e forse da solo; vorrei anche dedicarmi alla registrazione di qualche CD di standard… Insomma ho tante idee e, con calma, una alla volta arriveranno.
Hai un tuo sito web, sfrutti la tecnologia Internet?
Sì, per adesso è un blog, www.riccardochiarion.com, che però è già molto visitato da appassionati della chitarra. Pubblico videolezioni gratuite abbinate ai libri che ho scritto. Fra un po’ sarà attivo il nuovo sito, sempre allo stesso indirizzo, e sto preparando una nuova serie di lezioni organizzate come una vera scuola online, che servirà a tutti i miei allievi dei conservatori, per ripetere il programma, e a chiunque altro volesse capire più a fondo la chitarra in una maniera seria e professionale. Chiunque sia interessato può contattarmi via email, all’indirizzo riccardochiarion@gmail.com.
Domenico Lobuono