«Una nuova figura di chitarrista classico compositore»
(di Andrea Carpi e Gabriele Longo) – Siamo andati a trovare Roberto Fabbri nella sede della sua scuola Novamusica 2.0 a Roma. Abbiamo parlato degli esordi, del suo percorso trasversale, lui emulo di Mario Gangi, antesignano dei chitarristi classici trasgressori nei riguardi del ruolo del chitarrista classico ingessato nel proprio accademismo. E poi, e soprattutto, del suo ultimo CD Nei tuoi occhi, pubblicato con la prestigiosa etichetta Sony Classical e recensito sul numero di gennaio di Chitarra Acustica, per finire con gli aspetti legati alla didattica, grande tema da sempre affrontato con autorevolezza.
Questo nuovo disco conferma la tua ricerca di chitarrista classico trasversale, aperto alla musica pop o comunque attuale e contemporanea. Vorremmo cominciare partendo dalla tua formazione, perché questo tema dell’apertura e della trasversalità era già presente nella cosiddetta ‘Scuola romana di Santa Cecilia’. Potresti raccontarci la tua formazione, il suo bilancio e in particolare qual è stato il destino ‘bistrattato’ di questa scuola, con riferimento a Mario Gangi?
Beh, certamente io ho vissuto quel periodo d’oro a Santa Cecilia contraddistinto dall’appellativo, come ricordavate, di ‘Scuola romana’, che faceva capo a Mario Gangi e a Carlo Carfagna. Stiamo parlando del pieno degli anni ottanta. La connotazione di questa scuola era particolare, perché in effetti Gangi era stato il maestro di Carfagna al conservatorio di Napoli, per poi ritrovarsi a insegnare insieme a Santa Cecilia. Di conseguenza noi studenti, sia della classe di Gangi che di quella di Carfagna, vivevamo alla fine uno scambio reciproco. Per esempio, il quartetto di chitarre con cui suono [denominato inizialmente Quartetto Chitarristico Romano, dal 1998 Quartetto Nexus e dal 2009 Roberto Fabbri Guitar Quartet] è composto appunto da ex allievi, due della classe di Gangi e due, tra cui me, di quella di Carfagna. Erano delle classi aperte.
Secondo me Mario Gangi ha rappresentato una figura importantissima nel panorama chitarristico italiano, anzi è stato il più grande chitarrista classico italiano del Novecento. Lui ha seguìto un percorso in anticipo sui tempi, un percorso unico e irripetibile. Questo grazie al fatto che è stato un chitarrista classico con un itinerario formativo di tutto prestigio: infatti studiò in conservatorio composizione e si diplomò in contrabbasso; il padre inoltre era un chitarrista classico con cui imparò i primi rudimenti dello strumento, fino a suonare con lui in duo nelle prime dirette radiofoniche dell’epoca. A fianco di questo mondo accademico classico, lui però suonava anche la chitarra in ambito leggero, con il Quartetto Cetra, nelle prime edizioni del Festival di Sanremo. Questo avvenne perché l’Orchestra della Rai, dove lui suonava il contrabbasso, ebbe la necessità di un chitarrista elettrico, per cui gli affidarono questo ruolo comprandogli una Gibson semiacustica a cassa alta! Gangi raccontava che all’epoca, dovendo usare il plettro per l’elettrica, comprò un metodo per mandolino esercitandosi così nella plettrata. Quindi la sua formazione si arricchì di questo aspetto popolare, ma anche jazz. Ricordiamo il periodo in cui accompagnò Fausto Cigliano nei classici napoletani. E ricordo che all’epoca c’era in Rai una trasmissione, “Chitarra, amore mio”, dove le due anime dello strumento erano proprio rappresentate da Mario Gangi per la classica e Franco Cerri per quella jazz.
Allora noi studenti eravamo affascinati e un po’ intimoriti, da questa figura di maestro che si vedeva spesso in televisione. Era una figura autorevole che con noi teneva una certa distanza, per cui fare lezione con lui era molto impegnativo: ti sentivi sotto esame ad ogni lezione. Il bello, poi, era che alla fine della lezione si lasciava andare e magari ti faceva ascoltare i suoi arrangiamenti di pezzi di Gershwin o di alcune canzoni napoletane. E non ci scordiamo che è stato il primo chitarrista a scrivere degli arrangiamenti di canzoni dei Beatles, essendo loro ancora attivi! Insomma, lui attraversò la musica e i musicisti più importanti del Novecento, dal Quartetto Italiano a Salvatore Accardo, da Severino Gazzelloni ai Berliner Philharmoniker, fino ad un’opera prima per chitarra e orchestra di Stockhausen. Non c’erano steccati per lui. E questa sua trasversalità non fu ben vista da un certo chitarrismo accademico, inteso nel senso più deteriore del termine, perché certamente non era un personaggio ‘inquadrabile’. Invece l’opera di Gangi fu meritoria proprio perché portò la chitarra classica all’attenzione della grande utenza. Ecco, lui portò la chitarra classica ad essere più fruibile dal grande pubblico.
E invece Carfagna come si colloca rispetto a quanto detto finora? Sembra che il suo orientamento sia più sperimentale e contemporaneo rispetto a Gangi.
Bisogna ricordare che anche Gangi aveva una conoscenza profonda della musica contemporanea e atonale. Fu il dedicatario dei pezzi di Ennio Morricone per chitarra, che sono della scuola petrassiana. Ma in effetti Carfagna sviluppò ampiamente l’aspetto della musica contemporanea e, di conseguenza, Gangi lasciava a lui il terreno più libero in questo settore, soprattutto nei riguardi di noi studenti.
Dopo gli anni della tua formazione, ti sei dedicato quasi subito all’attività didattica, con la creazione della scuola. Rimanendo legati, quindi, alla tua immagine veicolata dal tuo ultimo disco di chitarrista trasversale, aperto, diretto, orientato a interessare un grande pubblico, ci chiedevamo se anche la tua attività di insegnante non abbia contribuito a questo orientamento. Viene in mente il tuo primo metodo per chitarra dedicato ai bambini.
Beh, io uscivo dal conservatorio con una formazione rigorosamente classica; anche se, come molti chitarristi della mia generazione, non disdegnavo la chitarra elettrica e, conseguentemente, ascolti musicali oltre l’accademismo classico. Però sostanzialmente ero un chitarrista classico. Poi purtroppo [ride divertito] c’è stata una persona che mi fece deviare: proprio nel 1986, anno del mio diploma, e anno in cui nacque la rivista Chitarre, venni contattato da un certo… Andrea Carpi, responsabile della collana dei “Quaderni di chitarra” della casa editrice Anthropos, per scrivere dei libri di trascrizioni. Addirittura il primo era dedicato a Eddie Van Halen! Stiamo parlando di tempi pionieristici: la scrittura era fatta a mano con i trasferibili. Era un lavoro improbo, perché si trattava di ‘capire’, ascoltando e riascoltando decine di volte, quello che il chitarrista suonava e di riscriverlo. Per me fu una sfida, perché io non ero un chitarrista elettrico e quindi ero poco avvezzo al vocabolario rock.
Quest’esperienza mi aprì maggiormente le porte verso ambiti sonori diversi. È stata una bella palestra. Subito dopo iniziai a collaborare con la neonata Chitarre, rapporto che è andato avanti per buoni quindici anni. Questo percorso editoriale mi ha messo in contatto con tutto il mondo della chitarra, acustica, fingerstyle, elettrica, rock, e questa è stata per me l’apertura mentale che mi ha tolto tutti quei paletti rappresentati dalla mia formazione di conservatorio. Devo ammettere che anche quello che sto realizzando adesso è il frutto della sedimentazione di quegli anni. Mi riferisco ai miei metodi pubblicati per la Carisch, anticipati da un video didattico per la Playgame Music [Lezioni di chitarra classica, 1987], seguìto da un relativo Metodo per chitarra classica edito dalla Bérben nel 1989 con l’ausilio della intavolatura; che fece uno scandalo. Ma funzionò, perché il libro ebbe un buon successo, tant’è che venne ripreso nel 2003 dalla Carisch col titolo di Chitarrista classico autodidatta: altra cosa che fece ‘impazzire’ il mondo accademico…
Dopo queste prime prove editoriali, la Carisch mi chiese di realizzare un metodo per bambini che li facesse innamorare dello strumento; e io nel 2000 scrissi Suoniamo la chitarra, che divenne un best seller.
Qual era la peculiarità di quel metodo?
Fino ad allora, per la chitarra classica esisteva principalmente un solo metodo, il Sagreras, un metodo per tutte le età. Io, invece, mi preoccupai di creare una metodologia per i bambini dagli otto ai dodici anni, dove le informazioni non erano ‘semplificate’ ma semplicemente ‘diluite’: poche informazioni all’inizio e la possibilità di suonare da subito con poche note, per poi man mano – con un processo additivo di conoscenza delle note – affrontare i pezzi nella loro complessità. Il tutto corredato da una grafica accattivante, fatta di fumetti, disegni da colorare. Tutto ciò attirava moltissimo l’interesse dei più piccoli. Del resto l’intuizione mi venne dal fatto che, dirigendo una scuola privata, avevo l’esigenza di trovare metodologie che avvicinassero i più piccoli alla chitarra. Altro elemento di novità è stato allegare al libro il CD con le basi musicali: cosa adesso acquisita, ma ai tempi fu un altro scandalo! Le basi avevano lo scopo di far abituare lo studente al ritmo, erano un po’ il sostituto del metronomo. Inoltre, davano quella dimensione di divertimento all’esecuzione arida che prima lo studente si trovava ad affrontare. L’apprendimento, per i bambini, scatta nel momento in cui si divertono. Questo è fondamentale. La motivazione è data dal divertimento e dalla gratificazione che viene da quello che si sta facendo.
Parliamo del tuo nuovo disco solista, il terzo dopo Beyond [Egea, 2010] e No Words [Egea, 2011]. La cosa che colpisce subito è la proporzione ragguardevole di brani suonati in ensemble. Come è nata questa scelta, anche tenuto conto della concomitanza del tuo ingresso nella Sony Classical?
Dopo il mio secondo disco, il mio produttore Riccardo Vitanza mi disse che la Sony era interessata alla mia musica e che i responsabili volevano conoscermi. Li incontrai a Milano, dove mi ribadirono il loro apprezzamento, in particolare riguardo a No words, ritenendolo un disco giusto per la chitarra classica così come la concepivano loro. Mi hanno proposto quindi di pensare a un disco di chitarra sola. Io ho accettato. Però, strada facendo, iniziai a ragionare che avrei dovuto fare qualcosa di diverso, anche se nell’idea della Sony stessa c’era la proposta di riprendere alcuni pezzi già pubblicati su No Words. L’occasione che cercavo mi venne da una commissione che ricevetti dal Festival Internacional ‘Andrés Segovia’ di Madrid, a cui partecipai nel 2010 ricevendo il premio Socio de honor, un riconoscimento molto importante di cui vado orgoglioso. La commissione, affidata anche ad altri compositori europei, consisteva nel comporre musica per omaggiare la figura di Segovia nel 2012, anno in cui è caduto il venticinquennale della sua morte. La mia idea è stata quella di riprendere sei brani di chitarra sola presenti in No Words e riproporli in una versione per chitarra e orchestra d’archi dal titolo Fantasia sin palabras, nella quale il brano di punta è “Il cavaliere errante”, chiaramente ispirato a Segovia paladino della chitarra in tutto il mondo. Inoltre, sempre riguardo al nuovo CD, ho voluto tenere più presente il quartetto di chitarre, perché ha una sonorità prorompente. E sono proprio i primi quattro brani del quartetto ad aprire il disco. Brani dalle sonorità più ‘pop’, che però non esauriscono le aspettative riguardo agli altri brani. Anche le sei composizioni della fantasia segoviana sono state volutamente diluite nell’ambito della sequenza dei pezzi, proprio per un preciso intento della Sony di voler conferire al disco un percorso ‘emozionale’ più che ‘razional-musicale’, passatemi l’espressione!
Quello che colpisce è che nei brani eseguiti dal quartetto di chitarre troviamo la dimensione della chitarra solista, melodica, con sotto l’accompagnamento ritmico, ladddove in passato, invece, il repertorio dell’ensemble presentava parti più articolate.
Beh, sì, il repertorio del quartetto aveva una struttura polifonica, dove le varie voci si intersecavano tra loro. La parte solista ‘emigrava’ da una chitarra all’altra. Qui, essendo un disco a mio nome, e trattandosi di brani con melodie volutamente semplici e immediate, ho pensato gli arrangiamenti in modo tale da mantenere per me la parte da solista, abbandonando la concezione polifonica. Abbiamo, invece, lavorato sulle diverse peculiarità dei chitarristi: per esempio la ritmica, che in questi brani è importantissima, è affidata a Paolo Bontempi che ha una capacità incredibile in tal senso, è una vera ‘macchina da guerra’! La parte del basso è affidata a Leonardo Gallucci, che è un bassista eccezionale oltre ad essere un grande chitarrista; e perciò, anche se suona una chitarra a 10 corde, le sue parti sono pensate da bassista. L’altra chitarra, affidata a Luigi Sini, invece è la chitarra dei ‘ricami’, che copre le parti interne di queste armonizzazioni con note ribattute eseguite con estrema regolarità, note particolari che si vanno a intersecare. Il risultato finale è apparentemente più semplice di quello che in realtà nasconde al suo interno.
Passando alle composizioni con gli archi, eseguite insieme alle musiciste del ‘Four Flowers’ String Quartet, l’impressione è che le parti di chitarra solista siano state pensate e realizzate con estrema naturalezza. Le orchestrazioni le hai scritte tu o in collaborazione col quartetto?
Le orchestrazioni le ho scritte in collaborazione con un compositore, il contrabbassista Luca Proietti. La mia idea era quella di realizzare un’orchestrazione leggera, lasciando la parte di chitarra inalterata. Gli archi dovevano entrare in modo delicato per supportare la chitarra, riprendendo con dei fugati i temi suonati da me. Ma, ripeto, con una presenza degli archi molto discreta, in modo che il loro colore arricchisse il messaggio della chitarra classica.
A questo punto viene da dire: che ruolo conserva la chitarra solista? Nell’insieme del disco sembra che entri in gioco una questione di chiaroscuri.
Beh, sì, l’intento è stato quello di presentare un numero più o meno uguale di pezzi per ogni tipologia: quindi sei brani con gli archi, sei da solo e cinque col quartetto di chitarre, alternandoli secondo un ordine funzionale alla resa del disco. E diciamo che la chitarra solista ha i suoi momenti di gloria. Secondo me ci sono dei brani di chitarra sola che sono venuti molto bene, uno dei quali è “Inside me”, anche se molto drammatico; mentre da contrappeso gli fa “Lullaby”, che è una ninnananna delicata.
Colpisce anche “Maree”, un pezzo dal sapore mediterraneo con una inaspettata cadenza blues…
Sì, era un pezzo mediterraneo, poi dopo… è scappata questa virata blues, che però ci stava bene! E ho deciso di lasciarla.
Dal vivo, questa varietà di colori come puoi riprodurla? Insomma, come presenterai questo disco in concerto?
La presentazione con l’organico ufficiale avverrà il 19 marzo all’Auditorium ‘Parco della Musica’ di Roma. Alcuni concerti però li abbiamo già fatti, con la seguente struttura: inizio io da solo con tre brani, poi proseguiamo con tre brani col quartetto di chitarre, quindi ancora tre brani da solo, a seguire tutta la fantasia insieme agli archi, per chiudere col pezzo “Autostrade” suonato tutti assieme, cioè con i due quartetti di archi e di chitarre. Ecco, questa è la mia idea, che naturalmente è realizzabile solo nei grandi teatri.
Inoltre, ho già presentato alcuni brani solistici del mio disco aprendo i concerti della tournée di Franco Battiato, iniziata il 21 gennaio. Siamo stati a Torino, Bologna, Milano, e l’ultima data sarà il 3 marzo al Teatro Comunale di Firenze.
Dove è stato registrato il disco?
Qui al Novamusica & Arte Studio, presso la mia scuola.
Ah, la tua abituale sala di registrazione è stata trasferita all’interno della scuola. Ci puoi raccontare la sua storia?
Sì, la sua storia è che Leonardo Gallucci, oltre ad essere membro del quartetto di chitarre, è un fonico specialista nella registrazione della chitarra classica. Infatti, lui aveva precedentemente uno studio di registrazione ad Anguillara, dove hanno registrato molti chitarristi classici. Il fatto che conosca bene lo strumento gli consente di valorizzare al massimo le sue peculiarità, per niente facili da riprodurre in registrazione. Io ho sempre registrato con lui tutti i miei dischi, per cui, dopo l’esperienza di Anguillara, ha deciso di trasferire lo studio nella mia struttura a Roma. Per questo disco volevo un suono molto presente, e lui l’ha realizzato egregiamente con due microfoni Neumann posizionati molto vicino alla buca, a trenta centimetri. E qui si lega un altro aspetto molto contestato dai chitarristi classici: che io, dal vivo, amo suonare amplificato. La mia preoccupazione, in concerto, è di avere il più possibile la stessa sonorità del disco: la mia musica ha bisogno di pervadere la sala e di conseguenza, se non sono amplificato, questo suono potente e avvolgente non arriva. Il sistema che uso sulla mia Ramirez 125th Anniversary è basato su un microfonino Røde a condensatore, che fissato con una clip arriva vicino alle corde e mi consente di ottenere una presenza della chitarra del tutto simile a quella che si sente sul disco. Come amplificatore uso un SR Technology Jam 150, che mi fa da monitor sul palco o comunque da amplificatore negli spazi più piccoli. Ecco, con questa attrezzatura ottengo una grandissima capacità dinamica: posso divertirmi a fare dei pianissimi, dei fortissimi, e arrivare sempre al pubblico. E soprattutto la tecnologia attuale conserva lo stesso suono della chitarra al naturale: non lo cambia come poteva essere in passato, ma semplicemente gli dà più presenza e corpo. A volte, specialmente all’aperto, uso invece la Ramirez ‘Roberto Fabbri’ Signature, che monta un piezo al ponte con un sistema della Roland realizzato appositamente per Ramirez, al quale ho aggiunto il sistema di microfoni e preamplificatore GuitaReal, in modo da poter uscire in stereo.
Come si è sviluppato il tuo rapporto con la Ramirez?
Questo rapporto esiste ormai da quasi vent’anni. Io ho sempre suonato chitarre Ramirez e, ai tempi del mio video didattico con la Playgame in cui suonavo la mia Ramirez, conobbi l’importatore della casa spagnola in Italia, Luigi Jannarone, a cui lo feci vedere. Il video gli piacque moltissimo e lui mi fece invitare a Madrid, dove incontrai anche Amalia Ramirez. Da lì è iniziato questo rapporto, che ha comportato per me il ruolo di testimonial italiano del marchio ed è andato avanti fino alle recente celebrazioni per il 125° anno di vita della casa, con varie manifestazioni musicali a cui ho partecipato di buon grado. Negli anni ho cambiato diverse Ramirez, e devo dire che il mio suono si è sviluppato per quello che è oggi grazie alle peculiarità delle chitarre Ramirez. Di tempo ce n’è voluto tanto, ma oggi posso dire di sapere perfettamente cosa posso tirar fuori da questi strumenti.
La Ramirez che suoni attualmente è stata realizzata specificamente per te. Quali peculiarità possiede?
Beh, a parte la scelta accuratissima dei legni pregiati di cui è composta, presenta delle soluzioni tecniche diverse e innovative rispetto ai modelli del passato anche recente. Per esempio ha la tastiera leggermente rialzata, in modo tale che risulta più agevole scendere giù lungo la tastiera dopo il dodicesimo tasto, e nel contempo mantiene una distanza adeguata delle corde rispetto alla buca, cosa che consente allo strumento di suonare sempre potente. La dinamica ne ha guadagnato molto.
Torniamo ad un aspetto didattico. A un certo punto hai avuto dei tentennamenti rispetto all’uso della tablatura: qual è oggi il tuo pensiero al riguardo?
La tablatura l’ho usata per gli aspetti ‘amatoriali’, ma poteva essere esemplificativa di posizioni particolarmente complesse anche per chi conoscesse la musica, grazie alla sua immediatezza. Detto ciò, ultimamente sono tornato di più alla tradizione, preferendo non usarla sugli spartiti dei miei pezzi. In questo caso si tratta di vera e propria chitarra classica, laddove quando usavo la tablatura mi rivolgevo a un pubblico più ampio, fatto anche di fruitori non professionisti.
Ti chiedevamo questo perché noi di Chitarra Acustica ci stiamo orientando verso un uso del doppio rigo con pentagramma e tablatura che prevede l’aggiunta delle indicazioni del ritmo anche sulla tablatura, in modo che ogni chitarrista possa essere orientato più precisamente sull’aspetto ritmico, evitandogli di andare su e giù con lo sguardo.
Sì, a suo tempo avevo adottato anch’io lo stesso metodo di scrittura. Anzi, avevo dato pure le indicazioni relative alla polifonia: la linea melodica con le stanghette in su e quella del basso con le stanghette in giù. Insomma la tablatura viveva autonomamente rispetto al rigo tradizionale.
Per concludere, come si va configurando oggi la figura del chitarrista classico, alla luce della tua esperienza?
Premesso che il mio percorso mi ha fatto avvicinare al mondo ‘trasgressivo’ del chitarrista classico che suona Piazzolla, le canzoni dei Beatles o i pezzi di Morricone per chitarra, mi sono reso conto che bisognava riportare in auge la figura del chitarrista classico compositore, che con forza e convinzione porta avanti un suo percorso musicale contestualizzato, attingendo al pop, alla contemporaneità, alle varie esperienze, ma in maniera personale, con materiale nuovo, originale. E credo che alla Sony mi sia stato riconosciuto proprio questo: l’originalità dell’offerta di riproporre, in una veste rinnovata, questa figura ormai desueta del chitarrista compositore. Penso che questo sia un grande stimolo per i giovani che studiano chitarra classica, i quali magari scrivono propri brani, ma poi hanno una paura terribile del giudizio del mondo accademico. Ecco, sono felice nel pensare che il mio esempio di chitarrista classico che suona da diverso tempo solo materiale proprio, dia il coraggio a tanti giovani chitarristi di presentare in pubblico le proprie pagine di musica.
Grazie Roberto, in bocca al lupo per il tuo imminente concerto al ‘Parco della Musica’ di Roma e per la tua attività di compositore e di didatta.
Grazie a voi.
Andrea Carpi
Gabriele Longo