Mark O’Connor
Il ritorno di Markology
di Andrea Tarquini
Mark O’Connor, icona della musica country, bluegrass e acustica americana, torna a pubblicare un disco di sola chitarra dopo più di quarant’anni, durante i quali ha suonato quasi esclusivamente il violino andando a costruire una vera e propria epopea musicale, sempre ai massimi livelli. Questo nuovo disco si chiama Markology II e, mentre scriviamo, apprendiamo che è entrato nella top ten di Billboard per la sezione “Bluegrass Albums”, cosa assolutamente stupefacente per un album di sola chitarra. Abbiamo chiesto al diretto interessato di raccontarci tutto.
Ciao Mark, benvenuto su Chitarra Acustica. Iniziamo con una domanda per scaldarci. Markology è stato pubblicato ben quarantadue anni fa ed è stato una sorta di pietra miliare per molti flatpicker in giro per il mondo. Io personalmente sono ancora alle prese con le prime otto battute della tua versione di “Blackberry Blossom”, e ora sto ascoltando questo nuovo Markology II che contiene diverse cose sorprendenti. Puoi spiegare ai lettori più giovani, che non ti conoscono come chitarrista, come mai hai dovuto smettere di suonare la chitarra e soprattutto quali emozioni ti dà pubblicare un disco di chitarra acustica dopo tanto tempo?
Grazie per aver ricordato il primo Markology, l’album del 1978. Nel tempo, verso il 1997, ho sofferto di borsite cronica al gomito destro e abbiamo capito che la causa era il flatpicking su chitarra e mandolino. Così ho smesso con questi strumenti, per poter continuare a suonare il violino, che considero più importante e di valore nella mia carriera musicale. Vent’anni dopo, nel 2017, ho ricominciato a prendere in mano la chitarra nella mia band di famiglia. Suonavo con due chitarristi molto bravi, mio figlio Forrest e Joe Smart. Puoi ascoltarci insieme sul recente album A Musical Legacy del 2019. Loro, insieme a mia moglie Maggie, mi hanno molto incoraggiato a riprendere la chitarra nel contesto del gruppo, anche se soltanto per un paio di brani. Tutto questo ha portato al mio rinnovato interesse per la chitarra e a sperimentare nuovi arrangiamenti e composizioni che sorprendevano persino me, con tante idee apparentemente stipate nel mio subconscio, anche senza sapere che sarei tornato allo strumento. Ho iniziato a registrare ogni arrangiamento che mi veniva in mente, documentando il mio ritorno alla chitarra man mano che avveniva. E dopo dieci canzoni, avevo un nuovo album!
A proposito del tuo stile, sembra che la scelta dei brani sia molto personale e indipendente, anche se alcuni brani onorano la tradizione. In che modo hai scelto o composto i brani?
Ho preso soprattutto brani molto conosciuti e ho aggiunto nuove idee, portandoli in una nuova dimensione rispetto a ciò che avevo fatto prima con gli stessi pezzi. Ho soprattutto sfidato me stesso, per capire se pensavo al lavoro chitarristico in un modo nuovo rispetto al passato.
In alcuni post sulla tua pagina Facebook hai parlato di un certo stile pianistico col quale hai più recentemente arricchito il tuo flatpicking. Puoi spiegarcelo meglio?
Fin dall’inizio, nel 2017, il mio proposito era di utilizzare le mie capacità compositive e la mia creatività derivate da anni di scrittura per orchestra, musica da camera e pezzi per violino solo, e vedere dove mi avrebbe portato quel tipo di esperienza su una Martin, con un plettro.
Parlaci della tua mano destra. È un costante alternarsi di up and down, dove il down coincide con il chop, oppure – un po’ alla maniera di Tony Rice – il tuo picking è più irregolare e imprevedibile?
Lo stile di Tony Rice ha giocato un ruolo molto importante nel riportarmi al timbro della chitarra. E questo è stato fondamentale perché, senza il suono di quella dreadnought su cui mi concentravo, non sarei riuscito a fare quello che ho fatto. Cercavo quel tipo di thud [letteralmente ‘tonfo’ – ndt] della Martin D-28, la sensazione di spingere davvero l’aria fuori dalla cassa. Per qualche ragione era questa la cosa che mi intrigava, proprio come se avessi di nuovo tredici anni. Da una parte sentivo che stavo ricominciando, anche se nel 2017 quella sensazione è durata settimane e non anni. Ma era un momento cruciale, perché cercavo di capire se veramente stavo ricominciando, se potevo gestire il mio braccio malandato e sopportare le conseguenze nell’eventualità che le cose non fossero andate bene.
Il mio stile è simile a quello di Tony Rice, perché lui è stato per me un grande mentore ed era il mio chitarrista bluegrass preferito quando iniziavo a cavarmela con lo strumento a tredici anni. Era lui insieme a Clarence White. E siccome nel 2017 stavo ricominciando, in qualche modo la mia mente è tornata all’epoca in cui ero impressionato dallo stile di Tony. Ci sono cose che facciamo in modo simile, ma direi che ci sono anche un paio di differenze. Una è il mio uso del crosspicking, e credo che derivi dai miei riferimenti pianistici: anche i riferimenti pianistici hanno a che fare con la trama e i colori dei suoni che ottengo col plettro sulle chitarre dreadnought nell’album; ho composto molta musica per piano in questi vent’anni lontano dalla chitarra, e credo che ciò abbia influenzato la mia musica. Uso anche un più ampio spettro dinamico, e l’arte dello strumming come parte del suo ruolo solistico. Molti pensano al fingerstyle quando immaginano un’incisione di sola chitarra. Io realizzo comunque questo lavoro di sola chitarra usando il crosspicking in un senso improvvisativo, senza nessun pattern, poi le ‘pause’ vengono riempite con lo strumming. Queste caratteristiche differenziano la chitarra acustica da tutti gli altri tipi di chitarra, che si tratti della classica o dell’elettrica e via dicendo. Sto anche cercando di suonare lo strumming un paio di punti di dinamica più piano, mantenendolo però al tempo stesso ancora energico. Di contro, voglio che parte del solismo suoni forte come lo strumming, o anche di più. Questo è stato uno dei miei obiettivi per quanto riguarda la tecnica chitarristica su questo disco: bilanciare il tutto dal punto di vista acustico, in modo da non dover sempre alzare o abbassare il volume nel missaggio. Il disco è stato suonato in modo organico, con dinamiche che scaturiscono dal mio stesso modo di suonare.
Prima ho nominato Tony Rice. Markology II è dedicato a lui, e addirittura sembra esserci qua e là una manciata dei suoi signature licks, immagino come una sorta di addio, un ultimo saluto a questo immenso artista. Siamo rimasti tutti tristi e scioccati dalla notizia della sua morte: nessuno sarà più come lui, anche se non esiste chitarrista che – consapevolmente o meno – non abbia nel proprio repertorio un lick di Tony Rice. Puoi dirci chi è stato Tony Rice per te e quale eredità lascia alle nuove generazioni di musicisti?
Tony Rice è stato una grande fonte d’ispirazione nella mia prima adolescenza, e quando avevo sedici anni è stato il mio mentore. Quando avevo diciassette anni, mi ha insegnato personalmente tutti i brani che aveva scritto, per cui ho trascorso molto tempo sul suo chitarrismo. E Tony ha collaborato al mio primo disco di chitarra, Markology appunto, e mi ha aiutato a mixarlo. Ma, come chiunque può notare ascoltando l’album, io avevo già un mio stile personale a sedici anni, molto diverso da quello che aveva lui da giovane. Il mio modo di suonare è stato in parte influenzato da Tony, ma c’erano altre ispirazioni, per esempio John McLaughlin, Charlie Christian, Al Di Meola, Pat Martino, Joe Pass, Django Reinhardt, Eddie Lang, George Benson, Andrés Segovia, Manitas de Plata. Ho studiato con Steve Morse per ben un anno e mezzo! Anche musicisti rock come Jimi Hendrix e Duane Allman mi hanno influenzato parecchio. Così come B.B. King e Chet Atkins. E penso che, quando ho preso il posto di Tony nel David Grisman Quintet, ho potuto contare ancor più sulla mia capacità di essere sia personale che capace di adattarmi al lavoro che dovevo fare, ovvero suonare un po’ come Tony, che era il chitarrista originale e aveva contribuito a creare quel Dawg sound. Perciò è stato difficile per entrambi accettare i nostri rispettivi ruoli in quel periodo, ma ci siamo riusciti grazie alla mia capacità di suonare con lui il violino lungo la nostra carriera professionale. Per molti versi, sono stato veramente fortunato a essere un polistrumentista, cosa che Tony non apprezzava all’inizio, ma che entrambi abbiamo più tardi individuato come il modo per poter suonare insieme strada facendo.
Tony ha significato molto per i giovani chitarristi bluegrass come me negli anni ’70, così come oggi, se si è in grado di intenderlo. È stato sempre una star da quando ha preso in mano la chitarra. Il ritmo era una componente centrale della sua musicalità, insieme al suo solismo, al suo suono e timbro e alle sue composizioni e fraseggi. Alcuni parlano oggi di tutti questi ‘cloni di Tony Rice’, ma non penso che sia questo il modo giusto per descrivere ciò che sta accadendo. Penso che molti chitarristi stiano cercando di avere un ‘suono’ come il suo, ma nessuno gli si avvicina nemmeno. Per cui ogni tanto sembra trattarsi di una cattiva imitazione, e forse anche peggio… Tutto il tempo che qualsiasi musicista professionista impiega per cercare di suonare come Tony, o come qualsiasi altro artista, in realtà è sottratto al tempo e allo sforzo per suonare in modo originale, o per contribuire con qualcosa di nuovo, e soprattutto per suonare ‘come sé stessi’, che è una cosa di grande valore per un artista. Specialmente per un professionista.
A proposito di generazioni, eri molto giovane quando hai cominciato a suonare con David Grisman, suonavi la chitarra quando Stéphane Grappelli è venuto in tour con il Quintet. Anni dopo avete formato l’incredibile band acustica Strenght in Numbers e, solo per nominare alcuni tuoi colleghi, Béla Fleck e Sam Bush fecero i Newgrass Revival, Russ Barenberg pubblicò Moving Pictures, Tony Rice formò la sua Unit, Mike Marshall e Darol Anger realizzarono i loro lavori progressivi e, successivamente, ti sei trovato anche a collaborare con artisti e cantautori tra i più importanti, tra cui James Taylor e molti altri. Be’, l’impressione generale è che la vostra generazione sia stata in grado di fornire enormi innovazioni, rispetto a quello che vediamo fare adesso alle nuove generazioni. Stiamo assistendo a un periodo di stagnazione? È già stato detto e inventato tutto? C’è qualcuno di cui non ci siamo accorti? Possiamo aspettarci solo uno sguardo retrospettivo dai giovani?
È un punto di vista interessante. Se percepisci questo, una ragione potrebbe essere legata al fatto di essere un artista solista o meno. Io ero a tutti gli effetti un artista solista fin da giovane. Ciò implicava essere costantemente impegnato a ragionare sulla prossima scaletta di un concerto, o su cosa registrare sul prossimo disco e chiedermi: perché, innanzitutto, sto facendo un nuovo disco? Di certo non era per riuscire a suonare come qualcun altro. Che senso avrebbe essere uno strumentista solista e non offrire nulla di nuovo? Credo che questa possa essere una parte della risposta, se la guardi dal tuo punto di vista. Nonostante il fatto che per quanto riguarda tre chitarristi in particolare – che considero miei successori, Frank Vignola, Julian Lage e Bryan Sutton, tutti presenti nei tour del mio Hot Swing Trio o degli ensemble allargati – io attribuisca anche alla loro creatività sulla chitarra l’ispirazione per tornare allo strumento. Frank ha la mia età, ma Bryan è dieci anni più giovane di me e Julian ha vent’anni meno di me.
Durante la realizzazione di Markology, quando avevo sedici anni, Tony ne aveva ancora solo ventisei e già registrava i suoi dischi solisti. È un’età molto inferiore a quella di molti artisti che diventano solisti al giorno d’oggi. E credo ci sia una grande differenza tra essere solisti ed essere dei pur ottimi collaboratori, dove non ti viene richiesto di avere grandi idee sulla musica a parte saper occupare un ruolo che il leader ha in mente. Se pensi ai grandi flatpicker della mia epoca, erano tutti artisti solisti già da ventenni: Doc Watson, Norman Blake, Dan Crary, Clarence White, Tony Rice. Anche se tutti abbiamo suonato per altri in certi periodi, eravamo tutti concentrati sulla nostra carriera solista, sui nostri dischi e sui nostri concerti, in ensemble o da soli, e in termini di repertorio, in termini di idee.
Gli Stati Uniti sono sempre stati visti come un faro dai musicisti di tutto il mondo, spesso non solo per la musica ma anche per lo stile di vita. Quando abbiamo visto il Campidoglio sotto attacco, i nostri cuori si sono raggelati. Tutti ci siamo molto preoccupati nel constatare che i rapporti umani dipendono sempre più dai social network e che esiste realmente il pericolo che poteri privati e digitali possano sopraffare le democrazie, creando paure e rabbia basate su fake news come il Deep State. Abbiamo visto il tuo impegno per la campagna di Joe Biden. È vero che questo impegno ti ha causato una perdita di fan, o anche questa è una fake news?
È stato triste per me vedere il nostro Paese perdere così tanto sotto Trump. E poi l’insurrezione al Campidoglio è stata terrificante: non pensavo mai che avrei visto qualcosa di simile in America. Ciò dimostra che cosa possa ancora causare un politico ‘carismatico’ nel XXI secolo quanto a odio, paura e intolleranza in qualsiasi paese del mondo, compresa l’affermata democrazia degli Stati Uniti. Così ho trasformato le mie pagine musicali sui social in comunicazione a favore dei candidati democratici al Senato, poi dei miei candidati preferiti per la corsa alla Presidenza, e infine per Joe Biden e Kamala Harris, quando sono stati scelti per concorrere contro Trump. Lì per lì ho perso migliaia di fan, ma poi ne ho riguadagnati più del doppio ed erano sostenitori interessati sia alla mia musica che alle mie posizioni pubbliche su cultura e politica. Perciò credo di aver ottenuto miglioramento, sostituendo le persone che ho perso con della brava gente… E incoraggio tutti i musicisti e gli artisti a usare le proprie piattaforme quando si avvicinano le elezioni, perché non possiamo permetterci altri errori.
Nella tua esperienza, cosa può fare la musica – anche ‘didatticamente’ – per avvicinare le persone alla verità e alla solidarietà?
Gli artisti, che la cosa si ritenga giusta o meno, hanno una sfera d’influenza. E potrebbero non usarla soltanto per la propria carriera, ma anche per il bene superiore del proprio Paese e del mondo intero, al meno se sentono di poterlo fare senza ritrovarsi in pericolo. Per farla breve, serve ancora un po’ di coraggio, ma se non miglioriamo il mondo, saremo tutti più poveri.
Puoi raccontare ai lettori cosa è successo con Ricky Skaggs?
Ricky Skaggs si è esposto pubblicamente promuovendo i princìpi del pericoloso e distruttivo culto di QAnon. Io ho fatto alcuni post su quanto fosse inaccettabile, per un musicista del suo livello, non solo far parte di quella setta, ma incoraggiare altri verso la superstizione, le menzogne e pericolose cospirazioni. Sì, più che mai, c’è bisogno che gli artisti parlino delle cose giuste da fare per promuovere inclusività, giustizia razziale, azione climatica, energie alternative, riforma dell’immigrazione, equilibrio salariale, sicurezza del porto d’armi, salute pubblica, università gratuita, diritto di voto e tutta una serie di questioni importanti. Se Skaggs parla a favore di QAnon, allora c’è bisogno che sempre più persone parlino contro quel messaggio di odio e intolleranza.
Ultima domanda. Sai che ogni anno, nell’ambito di Cremona Musica International Exhibitions and Festival, si organizza un Acoustic Guitar Village, dove speriamo di invitarti prima o poi. Insieme alla secolare eredità degli strumenti ad arco, vediamo ogni anno la partecipazione di importantissimi musicisti internazionali, molti dei quali vengono dalla scena acustica americana. Inoltre ogni anno sono ospitati i più importanti marchi di chitarre acustiche, come Martin, Taylor, Bourgeois e via dicendo. Puoi dirci, come violinista e fiddler, che importanza ha per te Cremona e qual è la tua esperienza rispetto all’Italia?
È emozionante che una fiera della chitarra si connetta con la grande tradizione della liuteria violinistica di Cremona. Tutti noi violinisti siamo incantati dal prestigio degli strumenti di Cremona, specialmente dagli Stradivari, Guarneri e Amati. Ho avuto l’occasione di provare molti di questi strumenti nella mia vita, anche se non ne ho mai posseduto uno. Il violino che suono è realizzato artigianalmente da Jonathan Cooper, un liutaio del Maine, ed è ricalcato sul modello Guarneri, che è il mio preferito. Ho suonato il Guarneri posseduto dal grande violinista Fritz Kreisler in due occasioni alla Library of Congress, che lo conserva attualmente. E credo di aver provato una cinquantina di questi strumenti nel corso degli anni. D’altra parte, mentre lo strumento violino è stato perfezionato molto tempo fa, la liuteria chitarristica ha fatto veramente passi avanti qui nell’ultima generazione. E sono molto contento che si sia creato un ponte tra questa liuteria e la grande tradizione della liuteria violinistica, perché penso che sia una cosa meritata. La nuova chitarra che uso in Markology II, costruita dalla Colorado Guitar Company di John Baxendale sulle specifiche della mia Martin D-28 Herringbone, penso sia all’altezza delle migliori dreadnought che si possano realizzare al giorno d’oggi. Il suo suono e la qualità della sua fattura sono responsabili al cento per cento per avermi fatto tornare la voglia di riprendere in mano la chitarra. Perché sapevo che, se la mia tecnica fosse ritornata, avrebbe potuto ripagare uno strumento di questo livello. Puoi sentire il risultato di tutto questo sul mio nuovo album!
Per completare allora questa annotazione tecnica, quale altra strumentazione hai utilizzato in Markology II?
Ho suonato anche la mia Martin Herringbone del 1945, che avevo usato pure sul primo Markology. Inoltre ho suonato un brano su un mandoloncello Gibson del 1924. Poi uso corde D’Addario Bronze .014-.059 e un plettro molto spesso, il BlueChip 55. Per la registrazione ho usato principalmente un microfono AKG C 24 del 1953.
Andrea Tarquini
Grazie a Luca ‘Swanz’ Andriolo per il contributo alla traduzione dell’intervista.