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Tony Rice – La stella del flatpicking

Tony Rice

La stella del flatpicking

tra bluegrass, canzone americana e nuova musica acustica

Jerry Douglas and Tony Rice perform with Alison Krauss and Union Station on April 28th, 2007 at Merefest. Jon C. Hancock/Acoustic Images.org

di Andrea Tarquini

David Anthony Rice (Danville, 8 giugno 1951 – Reidsville, 25 dicembre 2020), noto ai più come Tony Rice, è morto il giorno di Natale del 2020 lasciando sotto shock una intera comunità musicale. A molti chitarristi europei questo nome ancora non dice molto, eppure stiamo probabilmente parlando del più grande chitarrista acustico degli ultimi cinquant’anni, sicuramente per quanto riguarda la chitarra a plettro.

E dunque, chi era Tony Rice?

Più che raccontare qui tutta la sua vita e la sua lunga discografia, lavoro che rischierebbe di risultare improbo ed eccessivo, credo che vadano prima di tutto dette alcune cose per spiegare la sua unicità.

Al mondo non esiste un chitarrista acustico che, consapevolmente o meno, non abbia nel proprio vocabolario stilistico e tecnico qualcosa che sia stato inventato e introdotto da Rice. Il suo contributo all’evoluzione dello stile e delle tecniche del flatpicking è di tale portata, che nessuno dei suoi epigoni ha mai potuto introdurre cambiamenti o innovazioni di uguale importanza. A detta dei più importanti flatpicker, la sua grandezza sta nell’aver totalmente ridefinito l’idea di chitarra acustica, tanto nell’approccio al soloing quanto nella sua rivoluzionaria idea di chitarra ritmica. Oltre a tutto questo, è stato un compositore e un cantante di rara qualità e raffinatezza.

Nato in Virginia ma cresciuto in California, figlio di un musicista bluegrass che gli insegnò i fondamentali, Tony Rice entrò in una bluegrass band già giovanissimo. E nei primi anni ’70 si fece notare già da quelli che contano, primo tra tutti Clarence White, il mitico chitarrista e frontman dei Byrds. White, di cui Rice divenne allievo, ebbe su di lui un’enorme influenza: il destino dei due rimase un segno indelebile per tutta la vita di Tony, anche grazie alla mitica Martin D-28 con la buca allargata, prima appartenuta a Clarence, poi sparita dalla circolazione dopo la morte di quest’ultimo, infine ritrovata proprio da Tony, che la acquistò e ne fece il proprio strumento e tratto distintivo.

Poco più che ventenne, Rice iniziò a suonare insieme a quel gruppo di musicisti che pochi anni dopo, per primi, mossero i passi fondamentali per la creazione di tutti quei metageneri che dal bluegrass tradizionale presero vita, e che da quest’ultimo trassero alcuni tipici segni di riconoscimento – come un certo virtuosismo sullo strumento e sul canto – per approdare e spendere questi valori su altri stili e generi, andando così a creare quella novità che alcuni hanno chiamato newgrass music, new acoustic music, spacegrass e Dawg music a seconda delle declinazioni. La sua intelligenza musicale e il suo talento lo portarono a suonare con i più grandi musicisti della scena acustica e bluegrass a lui precedente, come il già citato White, Doc Watson, J.D. Crowe e poi, più in là, con i grandissimi musicisti della sua generazione, come Sam Bush, Peter Rowan, David Grisman, Mark O’Connor, Jerry Douglas, Béla Fleck, Vassar Clements, Ricky Skaggs, Mike Marshall, Darol Anger e moltissimi altri.

Tutta la carriera artistica e la discografia di Tony Rice ruotano grosso modo intorno a tre ambiti artistici fondamentali: la chitarra acustica bluegrass e quindi le tecniche del flatpicking, la canzone americana, il jazz acustico e i suoi derivati.

Dopo i primi dischi con J.D. Crowe e altri, che già mostravano il suo virtuosismo chitarristico e il suo talento come vocalist, la prima svolta avvenne nel 1977 grazie all’incontro con il grande mandolinista David Grisman, che proprio in quegli anni aveva messo in piedi il suo Quintet con l’idea di portare chitarra, mandolino e violino a elaborare una specie di jazz-grass che fu chiamato Dawg music, una forma di jazz acustico suonato quasi con tutti gli strumenti del bluegrass tranne il banjo e il dobro. Infatti il David Grisman Quintet, nell’album Hot Dawg (A&M-Horizon, 1978), era formato da Grisman e un giovanissimo Mike Marshall al mandolino, Tony Rice alla chitarra, più avanti sostituito da Mark O’Connor, Darol Anger al violino e Todd Phillips al contrabbasso. Proprio durante questo sodalizio si tenne quella stellare e indimenticabile tournée del Quintet insieme a Stéphane Grappelli al violino. Siamo tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, periodo di grandi trasformazioni musicali per quel che riguarda i generi musicali, periodo nel quale l’industria discografica americana accrebbe ulteriormente la propria capacità di presidiare tutte le nicchie e raccogliere tutti i nuovi talenti.

Questa esperienza di jazz acustico, a così pochi anni dal suo debutto, portò Rice a pubblicare Acoustics (Rounder, 1979): firmato come Tony Rice Unit, fu uno dei suoi primi dischi strumentali interamente dedicati a quel genere inventato da Grisman. In recenti interviste, molti suoi colleghi hanno sostenuto che fu proprio Grisman a stimolare Rice al punto da farlo ‘brillare’, ma Rice ovviamente reinterpretò l’invenzione grismaniana in una chiave molto più chitarristica, portando così il suo flatpicking a esplorare lidi assolutamente nuovi per l’epoca.

Da qui potremmo già prendere spunto per alcune riflessioni sulla sua rilevanza e sulla sua personalissima e spiccatissima musicalità. Tony Rice, che pur era artisticamente figlio di Clarence White, interrogato circa i criteri che lo portarono a definire i suoi licks e il suo stile, dichiarò spesso di essersi ispirato ai fraseggi di Thelonious Monk e di aver ascoltato tantissimo Coltrane. Nella sua grande testa musicale non c’erano barriere, come invece pensa spesso chi – magari in buona fede – alza steccati per difendere una preziosa nicchia, come la consideriamo qui in Italia. Per esempio, la sua interpretazione della scala pentatonica blues è infatti un’elaborazione molto personale, che riceve influenze da altri mondi, come ben ci spiega più avanti Edoardo Martinez nel suo articolo.

Il successivo punto di svolta che consacrò Tony Rice come uno dei migliori artisti della scena acustica e bluegrass americana è il suo disco interamente chitarra e voce, Church Street Blues (Rounder, 1983): un disco che, dopo la prima esperienza jazz, riportò Rice nel mondo folk e bluegrass imponendolo come l’artista più autorevole. Un disco suonato e cantato in maniera eccellente, nel quale Rice affrontò a modo suo diversi ‘capisaldi’ della canzone americana. Un disco tuttora molto amato in tutto il mondo.

Un’altra pietra miliare è la grandiosa epopea degli strumenti vintage narrata su Tone Poems insieme a David Grisman (Acoustic Disc, 1994): un disco strumentale nel quale ogni traccia venne suonata esclusivamente con mandolino e chitarra, con la grande particolarità di aver assegnato ad ogni pezzo il mandolino e la chitarra filologicamente più coerenti con la storia e la tipologia del pezzo stesso; da qui l’esigenza di riunire tanti mandolini e tante chitarre vintage e di collezione quanti erano i brani del disco. Infatti, come descritto nel libretto, la realizzazione dell’album fu possibile grazie all’adesione di importantissime collezioni private. Il libretto, magistralmente impaginato, descrive ad ogni pagina e con bellissime foto la chitarra e il mandolino utilizzati in ciascun brano. Esistono inoltre veri e propri articoli riguardanti il processo di registrazione del disco, che ad oggi rimane un altissimo esempio di musica acustica. L’idea di Grisman di realizzare una raccolta di brani della storia del folk fu azzeccata a tal punto, che egli stesso – con lo stesso criterio di raccolta di strumenti che fecero la storia della musica americana – pubblicò un secondo e un terzo volume con altri chitarristi, dedicando il secondo volume al jazz arcaico e acustico con Martin Taylor, e il terzo agli strumenti resofonici con Mike Auldridge e Bob Brozman. Una serie fortunatissima.

Altri lavori irrinunciabili sono Backwaters pubblicato come Tony Rice Unit (Rounder, 1982), Tony Rice Sings Gordon Lightfoot (Rounder, 1996) oppure i meravigliosi dischi realizzati più recentemente con Peter Rowan, in particolare Quartet (Rounder, 2007). E, soprattutto, come non citare la sua versione di “Shenandoah” contenuta nel bellissimo Unit of MeasureI, anch’esso pubblicato come Tony Rice Unit (Rounder, 2000): un brano tradizionale nel quale, prima ancora che la sua incredibile e raffinatissima tecnica, Tony Rice regalò al mondo la sua idea di composizione e arrangiamento, capace di travalicare i generi musicali suonando una chitarra acustica.

Potremmo andare avanti delle ore analizzando la sua discografia completa. Ma, a questo punto, è necessario soffermarsi un momento su questioni biografiche e personali, che se da un lato hanno accresciuto ulteriormente l’aura di leggenda intorno alla sua figura, al contempo lo hanno afflitto terribilmente.

Tony Rice possedeva una splendida voce baritonale, che negli anni della maturità si era addirittura ‘arrotondata’, diventando ancor più piacevole e narrativa. Nel 1995, nel bel mezzo della sua carriera e poco prima di pubblicare la meravigliosa raccolta di brani del già citato cantautore canadese Gordon Lightfoot, Tony venne affetto da una grave forma di disfonia, un allentamento della tensione muscolare delle corde vocali che, nel giro di poco tempo, lo portò a perdere l’uso della voce. Della sua voce rimase poco più che un ‘raglio’, che gli serviva per esprimersi, per parlare, seppur interrompendosi con continui deglutimenti di saliva. Da quel momento la sua attività artistica, che rimase comunque molto fitta e impegnativa, fu solo chitarristica.

Tony Rice è sempre stato una stella, un uomo stellare, ma la perdita della voce lo gettò in uno sconforto che iniziò a renderlo una stella sempre più cupa e afflitta. Iniziò a dimagrire, a mangiare poco, fumando centinaia di sigarette al giorno e bevendo solo litri di caffè, cosicché quell’uomo bellissimo e affascinante si trasformò pian piano nella controfigura della star che avevamo conosciuto. Questa triste storia venne ulteriormente e definitivamente aggravata quando, nel 2013, dovette smettere di suonare anche la chitarra per via di un’artrite reumatoide. Da allora in poi è stata una progressiva, e se vogliamo ancor più veloce, discesa agli inferi. Grazie all’impegno di Dana Bourgeois, che costruì una replica della D-28 di Tony per poi metterla all’asta, la comunità acustica mondiale raccolse i fondi per permettere a Tony di curarsi al meglio.

Abbiamo detto molto delle sue qualità di musicista e di cantante, ma sul piano umano la sua vicenda mi ha sempre ricordato quella scena di Blade Runner nella quale Roy – il replicante più intelligente e dotato, interpretato da Rutger Hauer – angosciato dall’idea della morte si introduce in casa del suo creatore, sottoponendogli il suo problema. E il ‘padre’ gli risponde con una frase che calza a pennello con la storia di Tony Rice: «La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti».

Sembra proprio uno scherzo di pessimo gusto della natura che, dopo aver racchiuso in un solo uomo un’incredibile quantità di talento e qualità, avrebbe improvvisamente deciso di togliergli tutto e voltargli le spalle, come fosse il patto del Faust, come se Tony Rice avesse fatto un dispetto agli dei o cose del genere. Qualcosa che ha brutalmente tolto a lui tutto ciò a cui teneva e a noi, pubblico impotente, la possibilità di godere ancora della sua arte.

Personalmente scoprii Rice proprio grazie a Edoardo Martinez. Sarà stato il 1996, avevo avuto in prestito una cassetta senza titoli e quindi non sapevo di chi fosse quella splendida voce. Me lo spiegò Edoardo durante uno dei nostri incontri musicali a casa mia. In quegli anni a Roma ci si vedeva spesso per fare session di bluegrass e musica americana. L’uscita di un nuovo disco di Tony o la scoperta di un suo disco già pubblicato era una conquista vera, dalla quale cercare di carpire qualcosa della sua chitarra o del suo modo di cantare. Negli anni ho comprato tutti i metodi dedicati al suo stile flatpicking. Ne sono usciti tantissimi, stampati con CD o DVD, e continuano a uscirne. La cosa che capii a un certo punto, anche grazie a una splendida prefazione di John Carlini al metodo di Rice con sei CD, New Acoustic Guitar (Homespun, 2004), è che sarebbe inutile – oltre che impossibile – copiare Tony Rice. Esiste un solo Tony Rice. Lo studio delle sue tecniche serve se queste sono utilizzate per capire, accrescere la propria cultura e formazione musicale e, poi, cercare sé stessi nella chitarra. Anche grazie all’esempio di Tony Rice.

Ancora oggi – benché gli Stati Uniti sfornino pacchi di nuovi eccellenti chitarristi, spesso molto dotati tecnicamente – non si vede nelle generazioni successive a Rice nemmeno l’ombra di un apporto innovativo così grande, nei confronti dello strumento, come quello che lui ci ha dato. Il modo migliore per celebrare questa dipartita, quindi, è semplicemente quello di imbracciare la chitarra e cercare di suonare un suo pezzo, oppure quello di mettere un suo disco.

Tony Rice se n’è andato in silenzio. Tristemente, forse per via di un infarto. Preparandosi una tazza del suo amato caffè. Rendendo il 2020 ancora più desolante.

Andrea Tarquini

 

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