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A proposito di Dylan: Dylaniati

(di Giuseppe Cesaro) – 9 settembre 1956: un ventunenne di Tupelo, Mississippi, strappa la camicia a un mondo agonizzante, afferra gli elettrodi del defibrillatore, glieli preme sul petto, gli scarica addosso la sua “Hound Dog”, e gli salva la vita. È grazie alla voce e alle oscillazioni isocrone del bacino di quel ragazzo (anche se, alla prima apparizione all’Ed Sullivan Show, verrà inquadrato solo dalla cintola in su) che il mondo – ancora in coma farmacologico, dopo due guerre mondiali in trent’anni – si rimetterà in piedi, ritrovando energia, vitalità, voglia di vivere. Riprendendo in mano – avrebbe detto Nietzsche – la ‘materia incandescente della vita’.

È il Big Bang. Passano pochissimi anni, e altre due deflagrazioni sconvolgono la nuova galassia ancora in formazione: quattro ventenni di Liverpool le insegnano ad amare e sognare, e un ventiduenne di Duluth, Minnesota, a pensare e fare.

Con la poesia? Certo. Esiste, forse, in natura energia più grande? Anche se troppo spesso lo dimentichiamo, la poesia non è astrazione, sdolcinato sdilinquimento, palpito adolescenziale, insipida oleografia di aurore, tramonti, notti stellate, cuoricini e Baci Perugina. La poesia è altro. Ben altro. Tutt’altro, anzi. «Pronto soccorso» secondo Erri De Luca. Una «botta di salvezza», non «una sviolinata al chiaro di luna». Botta di salvezza, dunque: di questo parliamo. «Però non ho mai detto che a canzoni / Si fan rivoluzioni, si possa far poesia» cantava Guccini. Non l’ha mai detto, è vero. Ma l’ha fatto. E come lui – anzi, più di lui – Bob Dylan. Perché poesia è fare. Letteralmente. Ποίησις, da ποιέω: ‘fare’, ‘produrre’.

E non è affatto un caso che tutto questo ‘fare’, tutto questo ‘produrre’, sia frutto della vitalità di anime poco più che ventenni. Così come esiste un tempo ideale per pro-creare, infatti, esiste anche un tempo ideale per creare. Lo dimostra non solo la vicenda personale dei più grandi songwriter di sempre, ma anche il fatto che le cose migliori il ‘rock’ (chiedendo a questo termine di dilatarsi fino a contenere tutta la musica ‘popolare’ che ha rivoluzionato il ’900) ce le abbia fatte sentire nel corso di quella che potremmo definire la sua adolescenza: gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Il resto – a parte pochissime eccezioni – è rimasticamento più o meno felice.

 

Non scriverò di musica, però. Non dello strumming – piaccia o no – imprescindibile di Dylan, non della sua voce sgraziatamente aggraziata, non dell’arte sublime del suo songwriting. E di certo non parlerò del suo carattere o del suo continuo stravolgere i pezzi, come un Leonardo dadaista che non resiste alla tentazione di mettere i baffi a ogni sua Gioconda. Chiunque scriva su queste pagine – e anche molti di coloro i quali le leggono – lo sa fare meglio di me. Mi limiterò a invitarvi a riflettere sulla potenza di quel Big Bang e sul fatto che, senza quello sparuto drappello di ventenni, che ha in Robert Allen Zimmerman una guida spirituale, morale, intellettuale e poetica senza eguali, nulla di ciò che è venuto dopo sarebbe mai stato così. E, forse, non sarebbe mai nemmeno stato.

«Ci sono testi più poetici dei suoi e ci sono musiche più belle delle sue» ha scritto Francesco Merlo (la Repubblica, 14 ottobre 2016) «ma nessuno è letteratura quanto lui». È così. Nessuno. Nessuno prima. Nessuno dopo. Nessuno di più. E non solo perché la cultura rock ha detto tutto quello che aveva da dire (anche se, come ogni classico – Calvino docet – non smetterà mai di dire ciò che ha da dire), ma perché certe altezze si toccano assai raramente. Troppo raramente perché possa apparire un altro Dylan anche nel prossimo secolo.

Ha ragione Merlo nel rilevare che il Nobel a Dylan («letteratura incarnata») era in ritardo perché «la canzone ce l’aveva già fatta senza l’Accademia di Stoccolma».  Sacrosanto. La canzone, quando è davvero tale, s’intende (diciamo quella che si approssima più a “The Times They Are a-Changin’” che non a “Il ballo del qua qua”: absit iniuria verbis), è leggera, trasparente e invisibile come l’aria. E, proprio come l’aria, sembra niente e invece è tutto. Senza di lei, infatti, non potremmo respirare. E, dunque, vivere.

Il mondo esisterebbe anche senza il blues, si potrebbe obiettare. Vero. Siamo proprio sicuri, però, che resisterebbe? Personalmente ne dubito. «Di vita si muore», ricordate? «Siamo la forma più elevata di vita sulla terra» ha scritto Don DeLillo «eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire». Ecco: io credo che la canzone sia l’urlo disperato dell’uomo, quando si trova di fronte al vicolo cieco di questa consapevolezza. Cos’altro significa, se non questo, la parola blues? È Il mattone che lanciamo contro la cupola del cielo, nella speranza che si rompa e ci lasci passare; la maledizione che mandiamo a chi ci ha messo in testa l’assurda ‘malattia dell’infinito’, quando tutto, intorno a noi, è finito. Se le cose stanno davvero così, allora non c’è dubbio: Bob Dylan è il più grande ‘urlatore’ e ‘lanciatore di mattoni’ della nostra storia recente.

E al momento giusto – come sempre con Dylan – è arrivata “Murder Most Foul” che, come ha magistralmente scritto Alessandro Portelli (il manifesto, 31 marzo 2020), «è un lamento funebre per Kennedy e per l’America che incarnava, riesumato da Bob Dylan nel momento in cui la sua America diventa il paese più infetto del pianeta. […] è una storia di morte, caduta, rimpianto e lutto che aiuta a capire sia i nostri tempi, sia il tragitto dello stesso Bob Dylan». Un mondo rimasto senza testa. Né teste, aggiungerei. Basta guardarsi intorno, per rendersene conto. Una decapitazione, però, che non è rivoluzione ma «perdita di un padre». Perdita che ci rende tutti orfani. Non a caso: «Il titolo è una citazione dell’Amleto, storia di un regicidio e del fantasma di un padre.»

«L’anima di una nazione è strappata via» canta Dylan «e sta cominciando lentamente a marcire». Dite la verità: non sembra anche a voi che non sia solo l’anima di una nazione a marcire ma quella di un intero pianeta? COVID-19, Black Lives Matter, #MeToo, riscaldamento globale, inquinamento e consumi fuori controllo, bombe d’acqua, incendi, uragani, e una disuguaglianza economica ogni giorno più devastante (ventisei persone posseggono tanta ricchezza quanta la metà più povera della popolazione del pianeta), non vi sembrano altrettante piaghe bibliche? «Fede, speranza e carità sono morte». E il sogno è diventato incubo. Il dramma come costante della Storia: questo canta Dylan. Un dramma che è, allo stesso tempo, coda e preludio di dramma. “The Times They Are a-Changin’”, sì ma in Rough and Rowdy Ways, verrebbe da commentare, chiudendo il cerchio di quasi sessant’anni di (grandi) canzoni.

Acqua siamo, altro che polvere. E Dylan ci invita a risalire la corrente fino alla nostra sorgente – per trovare sia il senso del ‘sé’ che del ‘noi’ – e poi a ridiscenderla, per raggiungere quel mare che qualsiasi fiume – Mississippi o rigagnolo che sia – è destinato a diventare, per contenere, finalmente, tutte quelle moltitudini sul mistero delle quali ci ha illuminato il Dylan dell’800: Walt Whitman. Coraggio, dunque, leviamo i nosti cuori, imbracciamo la seicorde preferita e intoniamo, insieme, “I Sing the (Solid)Body Electric”!

Giuseppe Cesaro

 

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