Intervista a Luca Pirozzi e Luca Giacomelli
(di Andrea Carpi / foto di Alfonso Giardino) – Dietro l’apparente esuberanza giovanile espressa dall’orchestrina Musica da Ripostiglio nel gran finale così ben condotto a Ferentino Acustica, si nasconde in realtà un ventennale sodalizio artistico tra i due amici chitarristi Luca Pirozzi, il ‘cantautore’ del gruppo, nato a Maddaloni in provincia di Caserta e grossetano d’adozione, e Luca Giacomelli, grossetano in tutto e per tutto. Come ci raccontano in questa intervista, Luca & Luca sono arrivati all’attuale configurazione di Musica da Ripostiglio attraverso una lunga serie di esperienze vissute sempre in comune, dall’amicizia con Finaz alla formazione musicale a Siena Jazz, dall’amore per Django e lo swing ai numerosi gruppi giovanili e collaborazioni, dalla perenne curiosità verso ogni musica al fondamentale incontro con il teatro e all’avvicinamento all’universo infantile.
Secondo la presentazione del vostro sito, l’aspirazione iniziale sarebbe stata quella di sviluppare la vostra musica in chiave cameristica, ma poi – visti i tempi magri che corrono – questa sarebbe diventata ‘da ripostiglio’… Che senso vogliamo dare a questo gioco di parole?
Luca Pirozzi: Nella home page il sottotitolo a Musica da Ripostiglio è… «perché da camera ci sembrava eccessivo»! Ci sembrava una cosa un po’ troppo seria, no? Diciamo che l’ambizione era di fare buona musica, per quello che è possibile, attraverso le canzoni, però sempre con un’ironia, una leggerezza di fondo. Il nostro leitmotiv è questo, la leggerezza: proporre una musica divertente, far passare una bella serata… anzi, passarla noi innanzitutto, perché se non la passiamo noi, non la passa neanche chi sta di fronte. Quindi questo è il senso del ‘ripostiglio’. Perché poi nel ripostiglio si trovano un sacco di vecchie cose, cose che non usi più. È un po’ quello che facciamo noi con la musica, cerchiamo di ripescare certe cose, di rifarci ai grandi del passato, anche italiani, Fred Buscaglione, Renato Carosone, un po’ in quello stile, lo swing, il tango, il valzer, il manouche… Insomma, cerchiamo di non avere limiti per quanto riguarda la nostra musica, che comunque è una musica ‘asciutta’, acustica, leggera. Cioè si può fare musica come stiamo facendo qua intorno a un tavolo, ma anche su un palco grande.
Partendo dall’inizio, come si è sviluppata la vostra formazione musicale, anche individualmente?
L.P.: Individualmente in pratica non c’è niente, perché noi abbiamo sempre fatto tutto insieme.
Luca Giacomelli: È la classica storia di quando si dice: «Voi come avete iniziato?» Noi abbiamo iniziato alle scuole superiori! I due Luca, io e lui, l’anno scorso abbiamo festeggiato i nostri vent’anni di musica insieme. Eh, sì, perché sembriamo giovani ma in realtà abbiamo una certa età, vero?
L.P.: Trentanove, abbiamo la stessa età…
L.G.: E da lì è nato tutto, con vari gruppi come si inizia sempre, magari strizzando l’occhio di più al rock o alla musica cantautorale italiana. Poi da lì ci siamo divertiti a esplorare la scrittura di canzoni originali, abbandonando un po’ le cover, e Luca si è messo a scrivere i testi. Via via negli anni le formazioni dei nostri gruppi sono cambiate, fino ad arrivare agli ultimi sette anni appunto con Musica da Ripostiglio, che vede – oltre a me e Luca Pirozzi – Raffaele Toninelli al contrabbasso ed Emanuele Pellegrini alle percussioni.
Com’è nata questa dimensione cantautorale di Luca Pirozzi?
L.P.: In realtà c’è sempre stata, fin dal primo gruppo. Forse ho iniziato a suonare la chitarra proprio perché mi piaceva cominciare a scrivere delle canzoni. Quindi questa dimensione ci ha sempre accompagnato. Poi noi facciamo anche delle cover, perché è divertente e ci piace, ma la dimensione cantautorale l’ho sempre curata. Sarà che sono di origini napoletane, sono nato in un paese vicino Napoli da genitori napoletani, quindi mi ha sempre accompagnato la tradizione della canzone. Mi sono appassionato alla musica di Adriano Celentano, che ascoltavo quand’ero piccolo, ma poi mi sono appassionato molto a Carosone e Buscaglione, due che avevano entrambi la passione per la musica americana, quindi lo swing, però con dei testi italianissimi, sempre molto ironici, sempre a prendere in giro la nostra ‘italianità’. Cerco un po’ di fare questo, nei miei testi c’è quasi sempre l’ironia, che è sempre alla base delle nostre canzoni e del nostro spettacolo, sia nelle cover che nei brani originali. Adesso, in ‘maturità’, il mio modo di scrivere sento che sta cambiando. Nel frattempo sono diventato padre di due figli, anche Luca ha due figli, quindi cambiano le esigenze, subentra la voglia di raccontare un altro mondo, un mondo più intimo. Sento che ascolto altre cose, che faccio molto più caso a qualche canzone di Ivano Fossati o di Gianmaria Testa. Sto ascoltando Luigi Tenco attualmente. Sai, quei momenti in cui dici: «Se potessi mi regalerei un concerto voce e pianoforte, senza chitarra, tutto sussurrato»… Credo che sia una voglia naturale, che fa anche bene. Farà bene secondo me anche al nostro gruppo, che ha una formazione basata sulle corde, con contrabbasso, due chitarre, banjo…
Che tipo di banjo e chi lo suona?
L.P.: Lo suono io. È un banjo tenore a quattro corde, alla Lino Patruno per capirci, che suono in un modo molto personale, molto istintivo, non ho studiato nessun metodo.
Tornando un attimo indietro, nessuno di voi ha seguìto degli studi musicali più o meno regolari? Siete arrivati al livello cui siete arrivati, che è un livello evoluto, da autodidatti?
L.G.: I ‘maestri’ di Musica da Ripostiglio sono Raffaele ed Emanuele, che sono diplomati in conservatorio, quindi hanno seguìto un percorso classico. Noi invece – da buoni chitarristi, perché si sa che i chitarristi sono sempre scansafatiche – abbiamo seguìto un altro tipo di percorso, un percorso più moderno, i corsi di Siena Jazz.
L.P.: Una bellissima scuola, ci siamo stati quattro anni, anche lì insieme. E riportavamo sempre tutto subito nel Ripostiglio.
L.G.: Sì, è questo, il trait d’union del Ripostiglio sono le nostre chitarre. Succede spesso che ci incontriamo io e lui, vediamo dei brani nuovi che lui ha scritto, proviamo, arrangiamo un po’ le chitarre. Poi riportiamo il tutto all’interno del gruppo, dove gli altri arrangiano i loro strumenti e così nascono le canzoni del gruppo. Il trait d’union nasce da questo connubio, da questa conoscenza ormai viscerale che abbiamo l’uno nei confronti dell’altro, in particolare nel modo di suonare. C’è capitato spesso, come capita a tanta gente che suona insieme, di suonare delle cose mai suonate prima e di trovare lo stesso feeling, degli stop insieme…
L.P.: Lo stesso finale…
Infatti pensavo di trovare l’uno più chitarrista solista e l’altro più cantautore, ma ho visto che vi interscambiate molto.
L.G.: Esatto, e ci piace proprio questa cosa.
L.P.: E comunque, alla domanda ‘che tipo di formazione musicale hai avuto’, devo dire molto sinceramente che quello che sono oggi penso di doverlo proprio a ciò che ho fatto ‘sul campo’, che ho imparato in modo molto istintivo, forse anche alla curiosità. A me piace sempre andare a chiedere ai musicisti: «Mi fai vedere cosa hai fatto?»
Come prima con Giuseppe Tropeano a proposito della tecnica ritmica della chitarra battente.
L.P.: Sì, a me nella chitarra è sempre piaciuto l’aspetto ritmico: forse è quello che ho curato di più, perché è la pulsazione, la base più importante; è suonare la chitarra come se fosse una percussione, perché sono abituato a cantare e ad accompagnarmi.
Quindi forse anche per questo vi caratterizzate più verso il manouche che verso il jazz?
L.P.: Esatto, perché nel manouche c’è molto ritmo, come anche nella musica cubana… Insomma, per me la formazione musicale è proprio andare a rubacchiare qua e là. Però, forse non ho mai studiato un pezzo intero dall’inizio alla fine, ho sempre preso degli elementi che mi servivano. Ho avuto chiaro, da quando avevo diciott’anni, che avevo bisogno di trovare uno stile, uno stile che mi rappresentasse.
L.G.: Che, poi, una delle caratteristiche che ci ha permesso di rimanere insieme così tanto e di trovare altre vie musicali oltre lo swing, è stata proprio questa curiosità che tutti abbiamo nei confronti dei diversi stili.
Infatti nella vostra musica, anche nelle descrizioni del vostro sito, oltre allo swing e al gipsy jazz, si cita la chanson française, la valse musette, il sirtaki, il tango, il bolero… Cioè mi sembra che ci sia tutta una miscela di musiche popolaresche urbane del ’900 mediterranee e non. Come si è sviluppata questa circolazione di idee?
L.P.: È vero, sì, io credo che nasca sempre dagli ascolti che si fanno. Per esempio, a un certo punto arriva che ascolti Astor Piazzolla, Richard Galliano…
L.G.: Gli stessi valzer manouche, gli stessi valzer della tradizione sinti…
L.P.: E poi tante cose arrivano dal teatro. Ecco, Musica da Ripostiglio ha conosciuto a un certo punto una pagina nuova, che ha cambiato profondamente il gruppo, ed è l’incontro con il teatro. Lo facevamo già da un po’ di anni, però sporadicamente, poi a un certo momento sono arrivate proprio le tournée teatrali lunghe, gli spettacoli con Pierfrancesco Favino, dove a una band come la nostra viene proprio richiesto di proporre un materiale musicale per lo spettacolo.
Come sono nati questi contatti, prima con Mariangela D’Abbraccio, poi con Favino?
L.P.: Guarda, ‘in strada’, tutt’e due in strada, senza dover cercare. Ci hanno visto suonare, ci siamo incontrati per caso in una situazione con Paolo Sassanelli, ed è nata un’amicizia. Attraverso la musica, ti metti a suonare e da lì poi arriva il resto, arriva l’amicizia, arriva il lavoro e arriva tutto.
L.G.: Sassanelli, un attore romano, è stato il regista insieme a Favino dello spettacolo Servo per due, che ha girato tre anni per tutta Italia [2013-2015] e per il quale noi abbiamo praticamente riarrangiato tutti quei brani del ventennio fascista e non solo, quei brani che sono ormai nella nostra memoria, che tutti conoscono, che conosce anche mio figlio che ha cinque anni, non so come fa a cantarla…
… Tipo “Pippo non lo sa”?
L.G.: Esatto, e noi abbiamo fatto un lavoro di riarrangiamento dei brani utilizzando per esempio i kazoo invece della sezione fiati, perché in quattro siamo e in quattro ci dobbiamo un po’ arrabattare, poi è entrato il banjo, quindi a volte abbiamo strizzato l’occhio più al Dixieland. E questo è stato un impegno e una scommessa molto divertente per noi, perché Pierfrancesco Favino voleva proprio una brass band per richiamare quella musica di allora. Paolo Sassanelli invece – il nostro ‘gancio’, mettiamola così – ci ha chiesto di arrangiare dei brani e abbiamo fatto un provino: Favino li ha sentiti e gli sono piaciuti, così abbiamo iniziato questa collaborazione.
Con Sassanelli avevate già partecipato allo spettacolo Fiori di carta [2012], che racconta la vita di Django Reinhardt e incrocia l’attività del trio musicale dei Djaguaros, composto dallo stesso Sassanelli alla chitarra e altri due attori, Luciano Scarpa al contrabbasso e Giorgio Tirabassi alla chitarra, che a sua volta ha recentemente inciso Romantica, un album di canzoni romane riproposte in chiave gipsy…
L.G.: Sì, tutto è nato dal fatto che gestivo un circolo ARCI a Grosseto, che si chiama Korakhanè e che esiste ancora, e organizzavo delle serate musicali, curavo la programmazione artistica. Un giorno lessi casualmente un volantino, dove si annunciava che in un paesino piccolino e sperduto vicino a Grosseto c’erano questi tre artisti, Sassanelli, Tirabassi e Luciano Scarpa, un altro attore romano, in programma con un tributo a Django. Allora li ho chiamati e ho chiesto loro se potevano venire a suonare nel nostro circolo. Loro sono venuti, ci siamo conosciuti quella stessa sera, il problema è che avevano solo sei brani musicali in repertorio…
L.P.: Ma non volevano soldi, volevano una forma di formaggio, del prosciutto…
L.G.: È vero, li abbiamo pagati così! Comunque, a quel punto abbiamo fatto una grande jam e da lì abbiamo cominciato a girare per due anni insieme. Dopo questi due anni è nata l’opportunità dello spettacolo Servo per due e poi anche altri spettacoli e tournée.
Del resto Servo per due non è semplicemente uno spettacolo musicale con un sottofondo musicale…
L.P.: No, perché la musica è protagonista, va via la scena e noi entriamo nei cambi scena, quindi abbiamo una responsabilità notevole.
L.G.: Non siamo in buca, siamo sul palco, accompagniamo anche gli attori che cantano. Suoniamo ventidue canzoni, sono tante in uno spettacolo di prosa.
Tutto questo si traduce anche nella teatralità dei vostri propri spettacoli, nella grande cura dell’aspetto scenico.
L.P.: Sì, c’è una grande cura proprio della performance. Questa è una caratteristica che un po’ già avevamo, per esempio inserivamo delle gag tra una canzone e l’altra. Chiaramente poi in teatro il fatto si è accentuato, perché ci hanno dato fiducia ed evidentemente la cosa funzionava. Così anche noi ci abbiamo preso gusto. Anche il concerto, che tradizionalmente rischia di avere delle pause, dei buchi in mezzo, adesso lo studiamo un po’ come se fosse fatto in un teatro. In teatro un silenzio, un chitarrista che accorda, durano un’enormità. Se stai trenta secondi fermo, in teatro la gente va via. Quindi ci siamo abituati a questo aspetto della performance teatrale, dove il pubblico è molto esigente.
L.G.: E questa cosa a noi piace tanto: il fatto di non curare soltanto l’aspetto musicale – quello va curato, è ovvio – ma anche l’aspetto scenico, senza che sia estremizzato o fuori luogo, piccole cose che però riportano il nostro modo di proporci in teatro anche in concerto.
Questa è stata una delle carenze della generazione degli anni ’70, magari ‘folkettara’…
Sì, c’era chi saliva sul palco in ciabatte… Invece, un insegnamento fondamentale del teatro è stato proprio il grande rispetto per il pubblico. Quello che Favino diceva ogni sera prima di salire sul palco a noi e a tutta la compagnia era: «Stiamo andando in scena, ci sono delle persone che hanno pagato, noi siamo i loro intrattenitori, dobbiamo amare questa gente». Anche le nostre gag sono sempre legate in funzione del pubblico, sono pensate per coinvolgere il pubblico, per portarlo con te. Cioè lo scopo, dopo un’ora e mezza, è di ‘rompere la quarta parete’ come si dice in teatro, cioè di superare la barriera tra te e la gente. Questa è una cosa che anche nei concerti ce la portiamo dietro. Prima del concerto, quando facciamo lo scaramantico ‘merda, merda, merda’, ci diciamo: «Oh, vogliamogli bene a questo pubblico, facciamogli passare una bella serata!»
Mi sembra che ci sia in atto un grande cambiamento di mentalità in Italia: c’è stata una fase in cui molti musicisti si comportavano con snobismo, parlavano di ‘fare una marchetta’ quando dovevano fare un lavoro non alla loro presunta altezza…
L.G.: No, il lavoro non è mai una marchetta!
L.P.: Questo è successo in certi anni. Ma Carosone e Buscaglione lo sapevano benissimo che il pubblico è esigente, e stavano lì a suonare per tre ore a sera coinvolgendolo. Poi c’è stata una sorta di ‘buco’. Adesso però c’è uno Stefano Bollani in primis che ha portato tremila persone a vedere un concerto jazz: un merito pazzesco, perché ha capito che non basta essere solo dei bravi musicisti, ma che bisogna anche strizzare un po’ l’occhio al pubblico, coinvolgerlo. Il che non è una ‘leccata di culo’, è proprio avere rispetto di chi hai davanti.
L.G.: Uno spettacolo lo fai te e lo fanno anche le persone che vengono a vederlo. È per questo che il teatro tadizionale è rotondo, non c’è soltanto il palcoscenico e la platea…
L.P.: Sì, è un abbraccio, il teatro all’italiana è fatto proprio come un abbraccio.
Parliamo dei vostri dischi. Il primo mi sembra che sia Luca Pirozzi – Musica da Ripostiglio, pubblicato da Mojito nel 2007 con la produzione artistica di Finaz.
L.P.: Sì, come Musica da Ripostiglio sì, perché prima eravamo con altri gruppi come i Suonatori da Taverna e Grand Hotel, con cui abbiamo realizzato Balli impossibili nel 2004: roba del passato, non facciamo più niente di quel repertorio lì. Luca Pirozzi – Musica da Ripostiglio invece è un primo disco di canzoni, molto embrionali, anche se ancora non eravamo proprio la formazione attuale…
Il contatto con Finaz mi sembra un elemento importante.
L.P.: Ecco, con Finaz torniamo ai nostri studi musicali, perché è stato uno dei nostri maestri. Cioè a diciott’anni, a metà anni ’90, io volevo smettere di andare a scuola, e vidi un concerto della Bandabardò: era proprio quell’idea che avevo in testa, con la chitarra acustica, perché io con la chitarra elettrica non sono buono, non era il mio mondo. Lo fermai dopo il concerto e gli chiesi: «Dai lezioni?» «Certo, a Poggibonsi.» «Vengo!» Il giorno dopo ero da lui, insieme a Luca, e abbiamo fatto un paio di anni insieme. Così è nata un’amicizia…
L.G.: Che dura ormai da vent’anni, ci sentiamo spesso. Poi con la Bandabardò abbiamo lavorato tante volte.
Be’, c’è una certa affinità tra voi e loro, nel rapporto con il pubblico, nell’idea della festa.
L.P.: Sì, come no! Per esempio l’anno scorso con Finaz ho fatto anche una serata in duo, un set lui, uno io e poi insieme. Per me è stato un onore.
Le lezioni con lui sono state una cosa a parte rispetto a Siena Jazz?
L.P.: Sì, era prima di Siena Jazz.
Comunque Finaz è un grande, anche come persona.
L.P.: Eh, sì! È un altro, vedi, che ha capito il rapporto con il pubblico. Con un progetto di sola chitarra è riuscito a fare tutte quelle date, a vendere tutti quei dischi, ad attirare un interesse. Come mai? Perché tira dentro il pubblico, lo porta con sé.
L.G.: Finaz è un altro che è curioso, quanto e più di noi. Se senti il suo Guitar Solo, c’è dentro il tango, lo swing, la musica elettronica, c’è dentro un mondo.
Tornando ai vostri lavori, nel 2012 avete realizzato Gli artisti a nome Luca Pirozzi & Musica da Ripostiglio.
L.P.: Ecco, questo è il primo disco in cui siamo proprio noi quattro, con l’aggiunta di Aldo Milani ai sassofoni e al clarinetto.
E dopo due dischi live nel 2014, Dal vivo e Signori… chi è di scena!, che contiene le musiche di scena di Servo per due, arriviamo oggi all’audiolibro Django. La leggenda del plettro d’oro con Paolo Sassanelli, pubblicato in coedizione da Curci e Fingerpicking.net.
L.G.: La verità è che Django ci accompagna da tanti anni. E diciamo che l’audiolibro è stato più che altro un pretesto per poter fare qualcosa su Django! I ‘djangofili’ sono persone che sanno di cosa si parla quando si parla di swing, mentre noi siamo delle persone curiose, ma non siamo dei djangofili veri, anche a livello musicale, nel senso che a noi semplicemente piace quell’area dello swing. Io non mi reputo un chitarrista manouche, ma uno a cui piace suonare un po’ questa roba. Quindi fare un disco manouche sarebbe stata una cosa pretenziosa, per chi non studia veramente e si applica su questa cosa. Poi, abbiamo dei figli… E una sera, tornando da un concerto, hanno regalato a Luca un audiolibro francese che narra la storia degli zingari ai bambini, tutto suonato dal vivo, molto bello. Invece, tanti audiolibri in Italia si avvalgono di basi MIDI o altro, non è che ci sia molto ascolto buono per i bambini. Così con Luca ci siamo detti: «Certo, mannaggia la miseria, bisognerebbe davvero fare qualcosa…» «Facciamo un audiolibro!» «E su cosa lo facciamo?» L’idea è venuta da sé: in un personaggio come Django, che è riuscito a superare il suo handicap e a diventare un eroe, c’è proprio tutta una morale…
L.P.: È una storia educativa…
L.G.: Nella vita ti può succedere qualsiasi cosa, ma se tu credi in quello che fai e hai la passione per farlo, puoi riuscire a diventare anche uno dei migliori chitarristi al mondo di sempre. Poi, per di più, in questo periodo così difficile anche per l’integrazione multietnica, ai bambini è importante spiegare che gli zingari non sono solo quelli che vanno a rubare nelle case. I manouche per esempio sono tutti o musicisti o allevatori di cavalli da corsa, non è che hanno la tendenza all’accattonaggio. Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere un chitarrista manouche che si chiama Lollo Meier, olandese, molto bravo, con cui ho suonato in un paio di concerti. E lui mi spiegava proprio questa cosa, che l’accattonaggio per i manouche non è contemplato: o allevano cavalli – infatti sono andato a trovarlo dove sta lui in Olanda, in un campo nomadi a suonare una settimana, e lì arrivano i cavalli tutt’intorno allo stato brado – oppure sono proprio di tradizione musicisti; e tutti nelle loro roulotte hanno la foto di Django! Quindi, per tornare all’audiolibro, avendo due figli a testa e non sapendo come far loro ascoltare delle cose belle, abbiamo deciso – non che noi si faccia per forza delle cose belle – di impegnarci, almeno di provarci…
L.P.: Se non altro senza le basi MIDI, abbiamo suonato gli strumenti dal vivo. L’audiolibro vuole essere anche un po’ educativo. Intanto si chiama La leggenda del plettro d’oro, perché chi è o è stato insegnante come lo siamo stati noi, sa quant’è difficile far imparare quella parola; tutti dicono: «Maestro, la penna…» «Si chiama ‘plettro’!» Così l’abbiamo voluta mettere nel titolo! Educativo anche perché, nei disegni di Chiara di Vivona, ci sono tutti gli strumenti, c’è un passaggio dove si ascoltano proprio gli strumenti: questo è il violino, questa è la chitarra, questo è il banjo e questo è il contrabbasso…
Adesso avete anche accompagnato lo spettacolo Una favola di Campania, ciclo di letture tratte da Il Decamerone campano, una raccolta di racconti orali trascritti da vari studiosi e pubblicata a cura di Roberto De Simone in Fiabe Campane. I novantanove racconti delle dieci notti nel 1994. Nelle letture si avvicendano di volta in volta grandi attori tra cui Vincenzo Salemme, Umberto Orsini, Giuliana De Sio, Giancarlo Giannini, Alessandro Haber, Leo Gullotta. Come mai hanno scelto voi per uno spettacolo dedicato alla Campania?
L.G.: Guarda, questa è una domanda che ci siamo fatti pure noi! Il fatto è che la società produttrice di Servo per due è una parte che ha prodotto anche questo spettacolo. E la fortuna ha voluto che sia piaciuto come abbiamo lavorato nello spettacolo di Favino e in altri spettacoli che abbiamo fatto sempre con loro, così che ci hanno dato fiducia anche per accompagnare questi dieci attori in queste letture campane. Poi tra l’altro, con Alessandro Haber, Sergio Rubini, Rocco Papaleo e Giovanni Veronesi, andremo anche in scena dodici giorni ad aprile all’Ambra Jovinelli a Roma.
In effetti la vostra musica è una sorta di folk contemporaneo internazionale, che si può adattare a varie situazioni…
L.P.: Guarda che il regista di Una favola di Campania ogni tanto ci chiedeva addirittura un pezzo dei Radiohead!
L.G.: In quindici-sedici date, noi che siamo di matrice swing non abbiamo suonato un pezzo swing!
L.P.: Quindi è stata una bella esperienza musicale…
Cioè che tipo di richieste musicali vi sono state fatte?
L.G.: Dal rock alla musica tradizionale e ai pezzi originali. Prima di affrontare questo lavoro il regista ci aveva dato qualche indicazione musicale. Però poi la scommessa più bella è stata quella di andare il pomeriggio al soundcheck, arrivava l’attore e lì in un’ora creavamo lo spettacolo per la sera stessa.
Cioè lo spettacolo cambiava ogni volta che c’era un lettore diverso?
L.P.: Eh, sì, cambiavano le favole e cambiavano i raccordi musicali. Diciamo che poi si è creato una specie di format, dove noi facevamo una sigla iniziale da soli, e una sigla finale con un pezzo nostro in cui si coinvolgeva il pubblico. Anche per questo hanno chiamato noi, perché volevano un gruppo che scuotesse la gente, perché la lettura in sé e per sé dopo un po’ rischiava… di ritrovarsi con parecchie teste dondolanti! E anche per l’esperienza che ormai avevamo maturato in teatro, quindi di accompagnare, di realizzare sottofondi, tappeti, con i finali giusti.
Reno Brandoni parlava anche di un nuovo progetto di cui non so nulla…
L.G.: Allora, la verità è che non sappiamo nulla neanche noi! Nel senso che c’è un’idea… che non ti dico! [risate] No, a parte gli scherzi, in realtà sarà una collaborazione con il nostro regista Paolo Sassanelli, che è stata la voce de La leggenda del plettro d’oro e che sicuramente sarà anche la voce di questo nuovo audiolibro. E lui ha un’idea particolare su un eroe sudamericano.
L.P.: Infatti la musica sarà di ispirazione sudamericana, ci sarà sempre un sacco di musica, e forse stavolta sarà più divertente…
Quindi parliamo sempre di un audiolibro per bambini?
L.G.: Sì, l’idea è sempre la stessa, ormai ci siamo presi carico di questo settore, ma anche per il nostro stesso piacere. Io ieri, non mi vergogno a dirlo, ho fatto riascoltare ai miei figli Django, la leggenda del plettro d’oro e, sarà per l’amore verso Django, sarà per il fatto che c’erano i miei bambini che ascoltavano qualcosa di mio, insomma mi sono ancora commosso. Non voglio peccare di presunzione, ci mancherebbe altro, ma dico che sono molto orgoglioso, siamo molto orgogliosi di quello che abbiamo fatto. È un grazie alla musica di Django: nel nostro piccolo abbiamo cercato di regalarla anche ai nostri figli, quella che lui ha regalato a noi con i suoi dischi
Andrea Carpi