(di Luca Masperone / foto di Marco Cattaneo) – Ricordo un’edizione dell’Acoustic Guitar Meeting a Sarzana, parecchi anni fa, nella quale Osvaldo Di Dio teneva un seminario sulla chitarra acustica nel pop. Allora, ancora giovanissimo, aveva appena iniziato la sua sfolgorante carriera di turnista, che lo avrebbe portato a suonare con veri e propri pezzi di storia della musica italiana, come Franco Battiato. Quel giorno, e in tempi non sospetti, Osvaldo disse che tanti riescono a eseguire i pezzi di Steve Vai, ma sui dischi di Ivano Fossati suonano sempre gli stessi, pochissimi, musicisti. Il concetto, oggi come allora, è chiaro: il mestiere del turnista è complesso e richiede una preparazione a trecentosessanta gradi, conoscenza e sviluppo dei vari linguaggi musicali, un senso del ritmo granitico, gusto, velocità di mente e di mani, un grande suono, capacità di adattarsi, controllo e organizzazione. Per questo in pochi ce la fanno: Osvaldo è uno di loro. Decido quindi di incontrarlo nuovamente per farmi raccontare le novità della sua carriera, come il suo album strumentale da solista Better Days, ma soprattutto per chiedergli di condividere con noi il suo punto di vista sul lavoro del session man in studio e dal vivo, dato il suo curriculum ormai ricco di esperienze che possono costituire un vero ‘caso di studio’.
Quanto è importante essere versatili per iniziare una carriera come turnista e vederla crescere nel tempo?
La versatilità è senz’altro una delle prerogative fondamentali per poter diventare un turnista e questo vale non solo a livello italiano. Mi viene in mente ad esempio Carl Verheyen: è uno dei più richiesti session man di Los Angeles, proprio perché in grado di andare con disinvoltura dalla chitarra classica all’hard rock, passando per il gipsy jazz e attraverso qualsiasi altro genere musicale finora conosciuto. Il suo modo di lavorare è un riferimento anche per me.
Sei molto apprezzato come chitarrista elettrico abile nel suonare in differenti stili e contesti. Come hai affrontato invece lo studio dell’acustica?
In realtà ho iniziato proprio suonando chitarra acustica e classica all’età di quindici anni quando, come la maggior parte dei ragazzi napoletani, cercavo di imparare il più fedelmente possibile i brani di Pino Daniele. È stata una grande scuola. Dalla fine degli anni ’90 in poi mi sono dedicato esclusivamente alla chitarra elettrica. Ma nei primi anni 2000 è salito alla ribalta un altro uragano dell’acustica: Tommy Emmanuel. Per circa un anno ho approfondito lo studio del suo stile e del suo repertorio.
Uno dei tuoi primi lavori significativi è stato con Cristiano De André. Nei suoi concerti fai uso di tutte le chitarre: la produzione aveva previsto fin dall’inizio un solo chitarrista abile sia con gli strumenti elettrici che con quelli acustici, oppure la scelta è dipesa dalla tua presenza?
Qualsiasi produzione si augura di trovare un chitarrista in grado di coprire tutto lo spettro sonoro richiesto, e farà carte false per averlo evitando così di doverne pagare due. Pertanto non era previsto fin dall’inizio che il chitarrista fosse uno, ma una volta assodata la mia preparazione sia sul versante acustico che su quello elettrico, quanto detto prima ha giocato assolutamente a mio favore.
Quali sono i principali aspetti da curare in fase di studio per farsi strada in questo ambiente?
La conoscenza armonica dello strumento, la capacità di arrangiare delle parti di chitarra pertinenti al mondo del brano, avere dei bei suoni, essere degli ispirati improvvisatori.
Un professionista cosa deve saper aggiungere in più a un disco, o a un live, oltre alla semplice esecuzione?
Sempre con grande rispetto per le parti originali, che sono il frutto di mesi di lavoro, occorre saper dare quel guizzo in più che caratterizza la personalità e la sensibilità di un musicista.
Raccontaci qualche esempio personale al riguardo, scendendo anche nei dettagli tecnici e teorici.
Nella musica pop l’armonia è quasi sempre molto essenziale, ma proprio per questo un semplice rivolto può cambiare tutto. Ad esempio, una volta mi trovavo negli Sphere Studios di Londra a lavorare per un artista inglese che si chiama Noah Francis con Chris Kimsey, produttore di Rolling Stones, Peter Frampton, ELP, Marillion, Duran Duran. Il provino del brano era stato realizzato da Wes Borland, chitarrista dei Limp Bizkit. L’artista era molto soddisfatto della demo e seguivamo attentamente le parti di chitarra per cercare di realizzarle al meglio. Ciò nonostante all’armonia dell’inciso, sul solito giro Em / C / G / D, mancava qualcosa. E allora Kimsey mi ha posto la fatidica domanda che puntualmente mi aspetto da ogni produttore con cui lavoro: «Osvaldo, cosa suoneresti tu in questo punto?» La soluzione che ho proposto si è rivelata tanto semplice quanto efficace: Em / C / G / G/F#. La sonorità dell’accordo maggiore con la settima maggiore al basso è una delle mie preferite, la utilizzano molto i Coldplay in brani come “In My Place”. Chris e Noah sono stati entusiasti della mia proposta e la settimana dopo ero nuovamente a Londra per terminare il disco.
A proposito, come è iniziata la tua collaborazione con gli Sphere Studios, che se non sbaglio continua dal 2005?
È nata perché Francesco Cameli, il proprietario degli studi, è stato il produttore di una mia band in quegli anni. La stima che si è creata ha fatto sì che da allora non abbiamo mai smesso di collaborare. Dal 2013 gli Studios si sono trasferiti a Los Angeles, ma siamo tuttora in contatto, tant’è vero che Francesco ha mixato due brani del mio album.
Uno dei punti più alti della tua carriera è a mio parere la tua partecipazione all’ultimo tour di Franco Battiato. Come sei stato coinvolto nel progetto e come ti sei preparato?
Sono assolutamente d’accordo con te, in quanto sono un fan di Franco da sempre. Sono stato invitato da Carlo Guaitoli, direttore musicale del tour, a registrare alcune tracce di prova su due brani, perché Franco stava cercando un chitarrista che fosse in grado di riproporre il più fedelmente possibile le parti originali. Conoscevo le sue canzoni a menadito e questo sicuramente mi ha aiutato a essere scelto, a volte le cose si incastrano da sole.
Parlaci del suono e della strumentazione che hai portato con te sul palco.
La richiesta principale era quella di andare in diretta, poiché il suono di Franco Battiato è estremamente controllato e il palco è molto silenzioso. Per la parte invernale del tour ho utilizzato le mie testate MESA/Boogie con il CabClone della MESA. Per quella estiva ho ricreato i suoni con la Helix della Line 6. Come chitarre ho utilizzato la StratOSonic, lo strumento signature che ho sviluppato in collaborazione con Alusonic, e la nuovissima Yamaha Revstar.
Ci racconti qualche aneddoto del tour?
Con Franco ci sono decine di aneddoti, ma quello che mi ha colpito di più non ha nessun aspetto musicale: una persona del pubblico urla «Franco, ma perché hai tagliato il codino?» E lui: «Perché io faccio quello che mi pare». Lo adoro!
Stai lavorando molto nel pop. Molti, a mio parere sbagliando, la considerano una musica estremamente semplice da suonare: qual è il tuo punto di vista al riguardo?
Tutto diventa semplice se sai come farlo. Il pop da questo punto di vista è come il blues: la maggior parte dei musicisti è convinta che sia facile e di essere in grado di suonarlo, ma non è così. E non sono io a dirlo, è sotto gli occhi di tutti: in questo ambiente lavorano sempre gli stessi nomi e non si tratta di politica o cose del genere; è proprio una musica che in pochi sono in grado di eseguire davvero ad alti livelli, in termini soprattutto di suono e di portamento.
A questo proposito, vuoi parlarci del tuo lavoro con Eros Ramazzotti e con Lorenzo Fragola?
Con Eros ho suonato molto in acustico: quasi tutta la promozione in Europa è stata realizzata attraverso degli showcase unplugged. E ho riscontrato quello che poi ho ritrovato anche nel tour di Fragola: ormai nel pop si fa grande uso di accordature alternative e di capotasto mobile; il tutto è molto stimolante dal punto di vista chitarristico!
Parlaci nel dettaglio della registrazione della chitarra acustica in studio: aspetti chiave, preparazione, suono, accompagnamento, eventuali consigli…
Un aspetto fondamentale è sicuramente possedere un bello strumento, risonante, ricco di armoniche, con corde della giusta scalatura, non sottili. In studio il suono deve risultare grosso, corposo, in modo da poter essere lavorato al meglio in fase di missaggio. Per quanto riguarda l’esecuzione, occorre aver lavorato tanto e bene sul portamento. Segreti per quanto riguarda la chitarra acustica in studio non ce ne sono: una volta che ti siedi con un microfono davanti, quello che verrà fuori sarà soltanto la verità.
Puoi chiarire il concetto di ‘portamento’ e dare qualche suggerimento su come svilupparlo?
Non è semplicemente la capacità di suonare correttamente a tempo. Saper suonare a tempo, precisi sul click, è la condizione di base necessaria, ma non sufficiente per avere un portamento efficace. Il portamento è l’arte di favorire il ‘tiro’ e la scorrevolezza del brano, assecondandone l’intenzione, appoggiandosi avanti o indietro sul tempo, in base a quello che il genere o l’arrangiamento richiede.
Cosa per la quale serve anche una certa dose di sensibilità musicale. Puoi darci qualche consiglio per le ritmiche e gli incastri con l’arrangiamento?
Suggerisco di scandire con la mano destra tutti i sedicesimi, anche se occorre suonare parti più larghe. Più suddividi le misure e meglio riesci a essere preciso sul tempo.
Che tipo di plettri usi, specialmente in fase di registrazione?
I plettri morbidi sono preferibili per lo strumming, e quelli duri per le parti soliste. Questo però solo in linea di massima, perché il suono va calibrato brano per brano. Ne utilizzo di diverse marche, spessori e materiali: Planet Waves su tutte, ma anche Wegen e, a volte, Dunlop.
Quali sono le differenze, sia dal punto di vista lavorativo che del suono, nelle esecuzioni dal vivo rispetto alle sessioni in studio?
Suonare dal vivo è una performance che richiede sangue freddo per non sbagliare, ma allo stesso tempo occorre mostrarsi a proprio agio per non sembrare ‘impalati’ sul palco. Quindi è importante suonare correttamente, con le note e il suono giusti, e nel frattempo muoversi nel modo migliore; perché nella musica moderna si è parte di uno spettacolo, non di un concerto esclusivamente di ascolto. In studio invece, quello che occorre è essere veloci, pertinenti e avere buone idee. Il suono dal vivo deve possedere la giusta presenza ed essere il più possibile ‘fermo’ e leggibile; in studio dipende da quello che occorre: come ho detto più volte, il suono viene dettato dalla direzione del brano.
Qual è il tuo attuale setup, a seconda del progetto?
Sia dal vivo che in studio utilizzo amplificatori MESA/Boogie, e da poco ho adottato i cabinet GLB Sound in acero massello. Uso varie chitarre elettriche e acustiche di stampo classico (Fender, Gibson) e moderno (Alusonic, Yamaha) e una miriade di pedali analogici che da poco affianco al mondo digitale di Helix.
Puoi citare i modelli delle tue acustiche, specificando in base a quale tipo di parte decidi di usare l’una o l’altra?
Il mio strumento principale in questo momento è una Yamaha LLX26, una dreadnought con un sistema di amplificazione a trasduttori. In studio è praticamente un pianoforte, davvero uno strumento eccezionale, ricco di armoniche e con uno spettro completo di frequenze. Dal vivo i trasduttori restituiscono il suono naturale dello strumento: è come se fosse ripreso con più microfoni. A questa affianco una Maton EBG808TE, che per quanto mi riguarda è ormai uno standard nel pop.
A tuo parere, quanto è importante la strumentazione e quanto il ‘suono nelle mani e nella testa’ di un musicista?
Assolutamente fondamentale è il suono nelle mani e nella testa. Nel tempo ho cambiato setup e chitarre più volte, ma con i miei colleghi musicisti mi diverto a notare che il mio suono è sempre lo stesso. Ciò accade perché, semplicemente, non smetto di sperimentare e di manipolare quello che ho a disposizione o che ho scelto di utilizzare, finché il risultato non coincide con il suono che ho in mente. E quello non cambia mai.
Ogni quanto tempo cambi le corde e regoli le ottave della chitarra? Quando le valvole degli amplificatori?
Dal vivo cambio le corde ogni tre date; in studio dopo due giorni intensi di registrazioni. Tutto questo mi è possibile da quando ho adottato le corde D’Addario NYXL; prima cambiavo le corde per ogni data dal vivo e per ogni brano in studio. Le ottave sono regolate in seguito al settaggio degli strumenti, che avviene circa ogni sei mesi ad opera di vari liutai di fiducia. Le valvole le cambio una volta ogni due anni, ma comunque dipende dall’utilizzo che faccio di quella determinata testata o amplificatore.
Recentemente hai approfondito anche lo studio della chitarra classica. Come ti sei riavvicinato a questo strumento e quali sono per ora le esperienze più interessanti in cui hai potuto impiegarlo?
Mi sono riavvicinato dopo aver apprezzato la lettura del repertorio classico da parte di Dominic Miller, il quale ha lavorato molto sul suono amplificato della chitarra classica suonata con i polpastrelli, aprendo soluzioni nuove e stimolanti soprattutto per il chitarrista elettrico. Si tratta dello stesso tipo di rivoluzione già attuato dai cantanti dopo l’avvento del microfono, quando nacquero i crooner che potevano sussurrare le parole. L’esperienza più bella ed emozionante che ho avuto è stata quando ho eseguito due sonate di Scarlatti nel Teatro San Carlo di Napoli come accompagnamento al balletto Don Juan, messo in scena dal coreografo internazionale Massimo Moricone, con protagonista l’étoile Luciana Savignano.
Suoni anche jazz con un interessante linguaggio improvvisativo. In questo contesto quali chitarre utilizzi?
Non prediligo le tipiche chitarre da jazz, ma piuttosto solid body che mi permettono di sperimentare con effetti e tecniche non propriamente jazzistiche… oppure chitarre acustiche steel o nylon.
Veniamo ora al tuo album da solista Better Days, uscito alla fine del 2015, che ti sta dando delle gran belle soddisfazioni. La formula sembra quella del trio rock (chitarra elettrica, basso, batteria) ma gli arrangiamenti e i brani nascondono molte più sfumature. Ce ne parli?
In realtà il trio è stato il punto di partenza. Poi, ascoltando la direzione dei brani, ho inserito altri elementi. È un disco che mi rappresenta molto, che pone al centro la composizione e il suono.
Ho amato in modo particolare “Secular Prayer”, che ha una melodia incantevole e che, anche dal titolo, ricorda un po’ “Hallelujah” di Leonard Cohen; poi “Unconditioned Mind”, “Hyper Galaxy” e “Fandango”. Come sono nate queste composizioni?
Sì, “Secular Prayer” ha questo tema molto solenne e – come gli altri brani che hai citato – è nato seguendo la melodia che sentivo nella mia testa, che poi è stata lavorata, smussata, fino a quando non c’era più niente ‘da togliere’, piuttosto che da aggiungere.
Di “Secular Prayer” verrebbe bene anche una versione acustica fingerstyle: cosa ne pensi
Sono assolutamente d’accordo con te, mi capita già di suonarla in acustico talvolta dal vivo.
Ci spieghi come hai eseguito le ‘folli’ e velocissime parti country presenti nel brano “ODD Blues”?
Sono una mia interpretazione delle frasi che ho ‘preso in prestito’ da Carl Verheyen in una delle lezioni che ho avuto la fortuna di prendere da lui. Sono eseguite con la tecnica del legato, della plettrata alternata e con i double stop tipici del modern country.
La chitarra acustica in questo lavoro si trova un po’ sullo sfondo, ad esempio nella title track “Better Days”. Come mai questa scelta?
È vero, è stata un po’ sacrificata, ma non è stata una scelta, me ne sono reso conto solo a fine lavoro. Infatti ho intenzione nel prossimo disco di utilizzarla di più.
Vuoi individuare delle parti acustiche significative per la loro funzione o per il suono e spiegarci come sono state realizzate?
Su “Better Days” ho utilizzato le corde a vuoto per creare dei cluster, come ad esempio sull’accordo DOsus(#4), con il Fa# sulla corda di Re che crea un cluster con la corda di Sol a vuoto. Ho mantenuto questa sonorità su quasi tutti gli accordi.
So che il brano “Rosso Ducati” ha avuto una storia un po’ particolare: ce la racconti?
Ho chiesto alla Ducati il permesso di utilizzare il suo nome all’interno del titolo del brano e loro, dopo averlo ascoltato, mi hanno chiesto di poterlo utilizzare a loro volta per fini promozionali. Alla fine è stato uno scambio equo!
Nel disco è presente anche un rapper, Thieuf, nel brano “Electric Climax”. Come è nata la vostra collaborazione?
Ho assistito a una sua performance durante un festival e mi ha colpito subito, così l’ho voluto assolutamente nel mio disco. Ha questa capacità unica di miscelare il senegalese, l’inglese e il napoletano… veramente eccezionale!
Ti faccio un’ultima domanda: che ruolo ha Internet nel tessere rapporti lavorativi e promuovere se stessi? Puoi farci qualche esempio personale?
Internet è una grande risorsa, che da sola però non basta. Può contribuire a potenziare la visibilità di quello che fai, ma alla base ci vuole sostanza. Posso dire di essere entrato in contatto attraverso Internet con Chris Tsangarides, produttore di Ozzy Osbourne e Yngwie Malmsteen, o con John Cruz, master builder del Fender Custom Shop e tanti altri. Ma questo è stato possibile perché, probabilmente, avevo qualcosa di valido da proporre.
Luca Masperone