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Is Still Here – Il ritorno all’acustico di Eric Clapton

E. C. Is Still Here

Il ritorno all’acustico di Eric Clapton

di FRANCESCO BRUSCO

Quando nel gennaio del 1996 acquistai già diciottenne la mia prima acustica, mi ritrovai come ogni autodidatta alla ricerca di fonti affidabili – e possibilmente gratuite – per una prima educazione chitarristica. Il Web, in quel senso, era agli esordi. E comunque, non avrei avuto una connessione Internet in casa per altri dieci anni, quindi di tutorial manco a parlarne. Pochi, costosi e arretrati – ne ricordo gli sguardi di indicibile orrore a vedere il mio pollice sinistro sbucare dal retromanico – i maestri disponibili nel raggio di venti chilometri. In attesa di scoprire le riviste specializzate, restavano i prontuari di accordi, le salvifiche tablature e i pionieristici metodi tipo Abner Rossi, venduti già impolverati. Il mio dispositivo di apprendimento più efficace, tuttavia, era l’orecchio. Già i Beatles erano stati i miei veri migliori docenti di lingua inglese, a furia di trascrivere i loro testi. Ad essi mi rivolsi ovviamente anche per il mio primo repertorio chitarristico.

Poche settimane dopo l’acquisto del prezioso – soltanto per me – strumento, ricevetti una musicassetta il cui nastro avrebbe finito ben presto per smagnetizzarsi, a causa del reiterato ascolto. Era il magnifico Unplugged di Eric Clapton del 1992, la mia carta d’imbarco verso il mondo del blues e del fingerstyle.

In particolare il lato A, ben presto ingrigito per l’irrimediabile dipartita dell’ossido di ferro, era una piccola enciclopedia, un manuale che svelava l’immediata bellezza di una semplice polifonia su corde di metallo. Non erano i semplici accompagnamenti in strumming, con la mano sinistra aggrappata alle prime posizioni, ma vere e proprie voci la cui condotta attraversava il manico in lungo e in largo.

“Signe” – le cui corde erano in realtà di nylon – diventò il mio primo ‘strumentale’. Da “Before You Accuse Me” imparai che non era obbligo di legge concludere un giro blues col classico lick terzinato per seste (c’è davvero bisogno di allegare un esempio in tablatura?).

E quanto a lick, che epifania il virtuosismo a portata di mano del riff di “Hey Hey”! E ancora “Tears in Heaven”, “Lonely Stranger”, “Layla”, “Running on Faith”, prima lezione di slide guitar.

Risparmiai dall’usura il lato B, eccetto la meravigliosa “Old Love” di Robert Cray. Ce n’era già troppo di lavoro.

Per mesi.

Per anni, a essere onesti.

Compresi in seguito che quel disco sanciva la rinascita di ‘Slowhand’, non soltanto in termini musicali. L’edonismo autodistruttivo degli anni ’80 – artisticamente privi di ispirazione — stava lasciando il campo a una maturità segnata dal più tragico dei dolori, la morte del piccolo Conor. Ecco il senso di quei versi: «Would you know my name? / If I saw you in heaven».

Eric ripartiva dal blues, conferendo immediata legittimazione artistica al semplice format ideato da Beth McCarty per MTV, che avrebbe avuto in quegli stessi mesi altri momenti memorabili: Bob Dylan, Paul McCartney, Pearl Jam, fino al canto del cigno di Kurt Cobain.

Trent’anni dopo, è tempo di una nuova ripartenza, terapia per un dramma ben più collettivo. Va detto che la stagione dei lockdown ha riportato in prima pagina anche gli aspetti più insostenibili e indifendibili del Clapton-pensiero: lo abbiamo visto schierarsi con Van Morrison contro chiusure e distanziamenti, strizzare l’occhio ai no-vax, paragonare le misure anti-COVID allo schiavismo, come un qualsiasi cospirazionista da tastiera. Non stupisce che gente come Robert Cray – proprio quello di “Old Love” – gli abbia risposto a muso duro, rompendo rapporti personali e professionali.

Comunque. Burbero, un po’ incattivito, ‘Slowhand’ sceglie nuovamente di ricominciare dal blues, ripetendo l’esperimento – e in parte la scaletta – del 1992. Tanto più che sono ancora con lui Nathan East al basso e Russ Titelman alla produzione; a completare i ranghi Chris Stainton alle tastiere e il mostro sacro Steve Gadd alla batteria.

Dopo l’ennesimo rinvio degli annuali concerti alla Royal Albert Hall, particolarmente cari a Clapton, il settantaseienne di Ripley si è rassegnato al piano B, imboccando le stesse vie di campagna battute in questo periodo da molti dei suoi colleghi, in un diffuso adattamento musicale del Decameron

Appuntamento alla Cowdray House di Midhurst nel West Sussex. Unici presenti sua moglie, la band e uno sparuto staff per riprendere il concerto privato. Il risultato, The Lady at the Balcony – The Lockdown Sessions, è praticamente il sequel dell’Unplugged.

Manca il pubblico, e non è soltanto l’assenza del suo segno sonoro a dichiararlo. Si intuisce dal feeling della band, e in particolare da quello del leader, che si rivolge a un solo spettatore, la sua Melia, la donna al balcone: a lei è espressamente dedicata “Believe in Life”, da Reptile del 2001.

Le diciassette tracce ripropongono vecchi standard in una nuova veste acustica. I due omaggi a Peter Green – “Black Magic Woman” e “Man of the World” – scomparso un anno fa sono tra i momenti migliori dell’album, costellato da piccole perle. Se “Bell Bottom Blues” ci riporta ai più ispirati fraseggi chitarristici del Nostro (di cui condividiamo il «wow!» finale), “River of Tears” ci ricorda quanto di Eric ci sia mancata anche la voce, sabbiosa come già cinquant’anni fa. Ed è invecchiata con classe la stessa “Layla”, benché quell’intro un po’ sfilacciata sia come un filo che penzola dal vecchio abito da sera di trent’anni fa.

“Got My Mojo Working” si pone sul lato luminoso della scena, mentre all’angolo opposto “Tears in Heaven” non potrà mai raggiungere il sollievo di una piena catarsi. Eric la canta mettendo la mano destra sul cuore, commuovendoci.

Clapton è chiaramente consapevole dei fili mai spezzati che qui riprende, quando definisce il concerto come un «not plugged in again». Burbero e incattivito, ma ancora musicalmente sensibilissimo, maturo al punto giusto da rifiutare ogni competizione con il passato. Sembra felice di suonare, non gli importa di quanto siano rugose le sue mani. «All I am trying to do is keep the candle burning» dice.

A sentirlo, torna la voglia di imbracciare lo strumento, seguendo nuovamente le sue mosse, trascrivendo altre voci di quella piccola enciclopedia chitarristica che Eric da tanto non aggiornava. E torna in mente un suo vecchio titolo, da aggiornare anch’esso: E. C. Is Still Here.

 

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