Anita Camarella & Davide Facchini
La nostra casa canterina
di ANDREA CARPI
andrea.carpi@fingerpicking.net
Abbiamo avuto il piacere di ascoltare Anita Camarella e Davide Facchini quest’estate in occasione di Ferentino Acustica, dove hanno incentrato il loro spettacolo sullo storico repertorio dello swing italiano, che li ha consacrati come una ‘eccellenza italiana’ apprezzata a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti, dove sono spesso chiamati a esibirsi e hanno l’opportunità di incontrare e suonare con grandi nomi del panorama musicale e chitarristico. In questa intervista, oltre alla storia dei loro due album dedicati espressamente a quel repertorio, Quei motivetti che ci piaccion tanto del 2002 e La famiglia canterina del 2013, ci raccontano i tanti altri aspetti della loro attività musicale: dalla preziosa collaborazione con lo storico chitarrista di Renato Carosone, Raf Montrasio, con il quale sono state realizzate registrazioni e trascrizioni chitarristiche che rappresentano un lascito importantissimo per la conoscenza della canzone italiana; a Juley del 2004, un disco personale di Davide dedicato a composizioni originali per chitarra sola; da Acoustic del 2015, album di cover che coprono generi ed epoche molto diverse, bagaglio musicale costruito lungo quindici anni di carriera, all’ultimo Our House del 2019, che mette in luce Anita come brillante autrice di canzoni; fino al loro costante impegno nell’attività didattica e nella autoproduzione indipendente.
L’intervista
Insieme avete cominciato a collaborare nel 2000, provenendo curiosamente da due percorsi di formazione musicale assai diversi tra loro. Anita, puoi raccontarci dei tuoi studi di canto, rivolti in particolare al periodo rinascimentale, e delle tue partecipazioni a incisioni di gruppi di musica antica?
Anita Camarella: Sono sempre stata attratta da vari generi musicali, perciò nei miei anni di studio ho voluto approfondire varie tipologie di tecniche vocali, dal canto medievale a quello barocco, fino – e soprattutto – a quello prettamente moderno. Questo mi ha permesso di essere sempre molto malleabile a livello vocale, rimanendo sempre aperta mentalmente a tante culture e tipologie musicali molto differenti fra loro.
Per sei anni ho collaborato, sia a livello vocale che strumentale, con un gruppo specializzato nella musica profana e popolare del XV secolo e con il quale ho inciso musica tratta da quel repertorio, in particolar modo dalla musica del manoscritto Montecassino 871.
Nel Florilegio Ensemble hai anche suonato due strumenti antichi come la viella e il micanon, rifacendoti in qualche modo ai tuoi studi precoci di violino e alla tua licenza di pianoforte complementare.
(A.C.) Ho studiato violino classico per nove anni. In questo modo mi son potuta avvicinare inizialmente alla viella, strumento medievale progenitore del violino, ma di dimensioni maggiori e con 5 corde. Successivamente ho iniziato a suonare anche il micanon, strumento simile a un ‘mezzo salterio’, con 26 corde suonate con le dita o con una penna d’oca. Probabilmente è proprio partendo dal micanon che mi sono poi appassionata anche all’autoharp, strumento con 36 corde, ma che viene utilizzato in maniera assai diversa e che suono tuttora con Davide nel nostro repertorio dedicato a miei brani originali, ma anche alla musica tradizionale americana e irlandese.
Successivamente ti sei avvicinata alla vocalità jazz e hai conseguito un diploma di canto moderno: cosa ha rappresentato per te l’accostamento tra la vocalità antica e quella moderna e contemporanea?
(A.C.) Essendo sempre stata interessata a così tante culture e tipologie musicali molto differenti fra loro, mi è difficile immaginare che vi sia un solo modo ‘bello’ o ‘corretto’ di cantare, perciò in realtà non ho mai sentito alcuna dicotomia fra la vocalità moderna e quella antica. In entrambi i casi è richiesta molta elasticità vocale e una grande apertura mentale. Forse anche da tutto questo melting pot di esperienze, studi, collaborazioni musicali, nascono questa mia voce e vocalità che sono sicuramente poco ‘convenzionali’.
Davide, a livello accademico tu hai ricevuto invece una formazione da ‘musicologo’, piuttosto che da ‘strumentista’ come ci si sarebbe aspettato: ti sei laureato al DAMS, con una tesi su “Aspetti e motivazioni pedagogiche dell’utilizzo della popular music nella scuola”, e hai seguito corsi di specializzazione in musicoterapia e consulenza musicale. Come chitarrista, ti sei formato da autodidatta?
Davide Facchini: Sono prima di tutto un grande appassionato di musica e un ascoltatore curioso e instancabile. La chitarra è stato un mezzo per avvicinarmi in maniera più approfondita al mondo della musica. Sono autodidatta: i miei maestri sono stati gli infiniti dischi, libri e riviste musicali che ho ascoltato, studiato e letto, ma anche – assolutamente! – i tanti e tanti musicisti che ho avuto il piacere di incontrare nell’arco di tutti questi anni.
A questo proposito, in una recensione del vostro ultimo disco Our House su Mescalina.it, Aldo Pedron racconta che Davide «ha imparato a suonare la chitarra ascoltando un album di Roy Orbison che gli aveva regalato suo padre quando lui aveva 15 anni e si era innamorato soprattutto di “Oh, Pretty Woman” (scritta da Roy Orbison e Bill Dees nel 1964) senza mai sapere di chi fosse il riff di chitarra nel disco originale di allora, ossia di Wayne Moss, il proprietario (titolare e musicista) degli studi Cinderella Sound di Nashville dove Davide ed Anita si sono ritrovati ad incidere questo disco!» È così?
(D.F.) “Oh, Pretty Woman” è stata una delle prime canzoni che ho imparato e sicuramente il primo riff! Le chitarre di quel brano mi intrigavano tantissimo e nel vinile che avevo in casa non c’erano i crediti. È stata davvero una bellissima sorpresa a Nashville aver potuto conoscere personalmente Wayne Moss, che mi ha raccontato la storia di quella session e di molte altre, e con il quale è poi nata davvero una bella amicizia. Siamo andati a trovarlo a casa sua e abbiamo suonato per un intero pomeriggio.
L’idea del nostro album Our House è nata dopo alcune jam casalinghe con due amici musicisti, il bassista Bill Ferri e Stephan Dudash, che suona la viola a 5 corde. Bill e Stephan sono rimasti affascinati dai brani scritti da Anita e – trascinati dal loro entusiasmo – abbiamo deciso di prenotare lo studio di Wayne, lo storico Cinderella Sound. In studio si è creata un’atmosfera straordinaria che ci ha permesso di registrare i sei brani tutti dal vivo in un paio di giorni, con una incredibile console Flickinger, tutto in analogico senza computer.
Nell’album io suono anche due brani con il mandolino, strumento che volevo suonare da tanti anni e al quale mi sono finalmente dedicato.
Detto questo, la vostra collaborazione sfocia già nel 2002 nell’album Quei motivetti che ci piaccion tanto, un omaggio allo swing italiano degli anni ’30-’40: com’è nato il vostro interesse verso questo repertorio e in particolare il connubio con gli arrangiamenti chitarristici di stile prettamente atkinsiano, con tratti jazzistici e rockabilly?
(D.F.) Tutto è nato dopo l’incontro con Tommy Emmanuel, Thom Bresh e Buster B. Jones nel 2000. Abbiamo trascorso tre giorni e notti a suonare quasi ininterrottamente con loro e mi sono appassionato al fingerpicking. Soprattutto mi sono reso conto che questo stile si adattava perfettamente al nostro mondo musicale che allora era all’inizio.
Nel giugno 2001 poi siamo stati invitati a suonare a un festival a New York, e lo swing italiano sembrava una musica perfetta da proporre. Dopo ogni esibizione la curiosità del pubblico verso questo repertorio aumentava, e quando siamo tornati ci siamo messi subito al lavoro per registrare Quei motivetti che ci piaccion tanto.
In “Camminando sotto la pioggia” Anita suona anche un’introduzione strumentale con il micanon, quasi a ricordare come queste melodie e armonie arrangiate in stile moderno restino sempre imparentate con una tradizione antica.
(A.C.) Si può sentire il micanon anche nell’introduzione di “Tornerai”. E noi siamo ciò che siamo da ciò che abbiamo imparato strada facendo, perciò ci viene spontaneo inserire le nostre esperienze, competenze e gusti musicali in tutto quello che facciamo, indipendentemente dai generi o dagli stili: ci piace l’idea di poter abbattere le barriere mentali che tendono a voler separare la musica in scompartimenti stagni.
E c’è anche Raf Montrasio, il chitarrista storico di Renato Carosone, che suona la chitarra solista in “Baciami piccina” e il mandolino in “Non dimenticar le mie parole”: com’è nata la collaborazione con questo straordinario musicista?
(D.F.) Conosco Raf praticamente da quando ho iniziato a suonare. Ho comprato la mia prima chitarra nel suo negozio di strumenti musicali, che per me è sempre stato un punto di riferimento, a Busto Arsizio dove vivo. In negozio giravano sempre tanti musicisti della generazione di Raf, che ci hanno aiutato molto nella ricerca dei brani, alcune volte trascrivendoci la melodia e gli accordi o suonandoci direttamente i brani stessi, perché a quell’epoca lo swing italiano non era affatto diffuso come adesso ed era estremamente difficile trovare materiale su cui lavorare.
In realtà Raf aveva deciso di smettere di suonare in pubblico e in studio, ma sono davvero felice di essere riuscito a coinvolgerlo! Il CD Quei motivetti che ci piaccion tanto è stato registrato con Stefano Mariani, bravissimo fonico, in uno studio a picco sotto il sole, senza aria condizionata, durante uno dei weekend più caldi degli ultimi decenni. Raf è arrivato in giacca e cravatta, si è seduto, ha accordato la chitarra e gli ho fatto sentire il chorus di “Baciami piccina”, in cui avrebbe dovuto suonare il solo. Mentre lo ascoltava ci ha suonato sopra, e il solo era fatto!
Negli anni seguenti, Davide ha portato avanti un grande lavoro insieme e intorno a Raf Montrasio: nel 2007 con il CD condiviso Spaghetti alla chitarra, omaggio strumentale alla canzone italiana con una carrellata di autori da Carosone a Kramer, Martino, Endrigo, Modugno, Trovaioli, Tenco, Bindi, Morricone, Paoli; e con gli album di spartiti e tablature Italian Fingerstyle Collection del 2009 e A Portrait of Raf Montrasio – Italian Songs on Guitardel 2010, che riprendono il repertorio del disco più qualche innesto. Un lascito preziosissimo per tutti noi: quali sono i vostri personali ricordi al riguardo?
(D.F.) Raf è stato un grande amico e un musicista con una musicalità infinita. Chiunque lo abbia conosciuto lo ricorda seduto nel suo negozio a intrattenere i clienti e gli amici suonando i suoi arrangiamenti in chord melody. Spesso gli suonavo i miei e ci confrontavamo scambiandoci idee e impressioni. Si registrava a casa e spesso si filmava, e quando gli ho proposto di realizzare un album mi ha risposto: «Ma sei matto? La gente si addormenta con queste cose…» Dopo vari tentativi, si è convinto dicendomi che lo avrebbe registrato solo con me. Non volevo però modificare i suoi arrangiamenti suonando in duo, e così abbiamo pensato di alternarci tranne in “Roma nun fa’ la stupida stasera”, dove suoniamo insieme.
Abbiamo tanti ricordi dei momenti passati insieme, e sono molto felice di averlo riportato sul palco dopo tanti anni. Abbiamo suonato e partecipato a diversi festival, esibendoci anche con musicisti del calibro di Tommy Emmanuel, Stephen Bennett, Frank Vignola… Eravamo quasi riusciti anche a riportare insieme sul palco Franco Cerri e Raf, un piccolo sogno che avevo.
Davide, nel 2004 avevi realizzato Juley, un album personale dedicato quasi interamente a tue composizioni originali per chitarra sola, che rivelano una forma più ampia e varia di fingerstyle e una piacevole e brillante vena compositiva. Qual è la storia di questo CD?
(D.F.) Ho iniziato ad appassionarmi alla chitarra acustica con James Taylor, i Beatles, Neil Young e infiniti altri, come Michael Hedges passando dal bluegrass con Doc Watson, Norman Blake, Tony Rice, fino a Django… La lista è davvero lunghissima! Mi piace suonare fingerpicking ma anche flatpicking, mi piace lo swing, il jazz… Insomma mi piace mettermi musicalmente nei guai!
Dopo aver suonato tanti anni l’elettrica in molte band, volevo realizzare qualcosa da solo: una bella sfida! Inizialmente l’idea dell’album voleva essere un grande miscuglio delle mie passioni e influenze strumentali, che poi ho ridimensionato. Ho registrato quasi tutto nel casale di un amico a Pennabilli, e i tre brani con Raf – pressoché improvvisati – qui a Busto Arsizio in studio.
Il primo brano, “Buster”, è dedicato a Buster B. Jones, che posso dire essere stato il mio primo maestro di fingerpicking e di cui conservo ricordi bellissimi. Ogni volta che ci si incontrava negli Stati Uniti, non appena mi vedeva mi diceva sempre: «Hey buddy, play “Buster” for me!”
“Hotel Tunisi” ha a che vedere con la vostra tournée nelle maggiori università della Tunisia, invitati dall’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi a testimonianza del patrimonio storico-culturale italiano?
(D.F.) Il tour in Tunisia è stata un’esperienza e un viaggio indimenticabili. Abbiamo suonato in molte università raccontando e suonando lo swing italiano e non solo. I professori e gli studenti ci hanno accolto davvero in maniera straordinaria, dimostrando grande interesse per la musica e i racconti storici ad essa strettamente correlati. “Hotel Tunisi” è un piccolo brano che ho scritto il nostro primo giorno a Tunisi, in hotel. Volevamo visitare la città ma pioveva, perciò – affacciato alla finestra con chitarra alla mano – è venuta fuori questa melodia.
Oltre ai brani originali, spiccano anche uno standard come “How High the Moon” e un paio di duetti con Raf Montrasio al mandolino, “Marcetta di papà” e “Tarantella napoletana”, due interessanti riattualizzazioni della tradizione popolare italiana.
(D.F.) Ci tenevo ad avere Raf nell’album. Mi piaceva molto ascoltare “How High the Moon” suonata da Raf con il suo tocco e il suo modo elegante di improvvisare, perciò ho pensato che sarebbe stato bello averne una versione suonata assieme.
I due brani con il mandolino sono stati quasi improvvisati in studio. “Marcetta di papà” è una melodia che ha titoli diversi a seconda delle varie regioni d’Italia. Raf la suonava sempre perché a sua volta la suonava suo papà, e per questo motivo l’abbiamo chiamata “Marcetta di papà”… una sorta di bluegrass tune all’Italiana! Ci siamo sempre divertiti tantissimo a suonarla, perché alla fine del brano Raf m’incitava a farla sempre più veloce: era un ‘treno’ con il mandolino!
Nel 2013 arriva il vostro nuovo omaggio allo swing italiano, La famiglia canterina, che vi ha valso negli Stati Uniti il ‘LadyLake Music Indie Awards’ come miglior album dell’anno. Qual è il significato di questo premio?
(A.C.) Il ‘LadyLake Music Indie Awards’ è stato un riconoscimento importante da molti punti di vista, perché La famiglia canterina è un album ricco di significati per noi. Sia il pubblico che gli stessi musicisti con cui abbiamo avuto il piacere di collaborare negli Stati Uniti hanno sempre accolto la nostra musica con entusiasmo, apprezzando e riconoscendo il grande lavoro che essa racchiude. A differenza di Quei motivetti che ci piaccion tanto, che è quasi un album dal vivo, ne La famiglia canterina ci siamo presi più tempo per le incisioni, utilizzando molti più strumenti, sovraincisioni strumentali e vocali, chitarre elettriche e acustiche.
Questo premio è il segno della considerazione che avete acquisito negli anni negli Stati Uniti, dove siete regolarmente coinvolti in festival e rassegne, e avete l’occasione di incontrare grandi nomi del panorama musicale e chitarristico. Potete raccontarci di questi incontri?
(D.F.) Sin dalla nostra prima esibizione a New York nel 2001, gli Stati Uniti sono sempre stati fonte di grande soddisfazione e crescita dal punto di vista musicale. Abbiamo girato tanto per il Paese, e a volte stentiamo a credere a quante cose sono accadute in questi vent’anni.
Dal 2008 frequentiamo regolarmente Nashville, che è diventata quasi una seconda casa per noi. Proprio a Nashville ci siamo esibiti al Ryman Auditorium in occasione della All Star Guitar Night di Muriel Anderson, condividendo il palco con musicisti del calibro di Larry Carlton, James Burton, Victor Wooten, Lee Ritenour, Rick Vito, Brent Mason, Kenny Vaughan, Carl Verheyen e molti altri.
Vince Gill e Paul Franklin ci hanno invitato a suonare con la loro band di western swing, i Time Jumpers, dopo aver sentito la nostra versione di “Nel blu dipinto di blu” con Franklin alla pedal steel. Potremmo citare infiniti incontri e momenti davvero magici, come quelli con Jack Pearson, Phil Keaggy, John Knowles, Bruce Bouton, o con tutti gli amici e grandi fingerpicker che ogni anno si ritrovano alla Chet Atkins Appreciation Society”, o al Summer NAMM, oppure i concerti organizzati dal costruttore degli amplificatori Little Walter, ai quali siamo stati invitati a suonare diverse volte, fino ai video girati presso il negozio Carter Vintage Guitars…
In tutti questi anni è nata anche una bella collaborazione con la Gretsch e la Fishman, che ci hanno sempre supportato e accolto nelle loro grandi ‘famiglie’.
Nell’album troviamo anche Anita al violino in “Voglio vivere così”, la presenza ancora di Raf Montrasio in due brani e un intervento di Franco Cerri: potete raccontarci di questo ultimo contributo ed esprimere un ricordo per questo grande chitarrista recentemente scomparso?
(A.C.) Durante la fase d’incisione dell’album abbiamo pensato d’introdurre vari strumenti, perciò ci è sembrato naturale ‘rispolverare’ il mio vecchio violino. In “Voglio vivere così” io e Raf ci siamo suddivisi una piccola parte al violino per divertimento. Raf ha iniziato la sua carriera musicale proprio come violinista e contrabbassista, ed è stato proprio Franco Cerri a spingerlo a suonare la chitarra all’inizio degli anni ’50.
(D.F.) Franco è stato un caro amico da tanti anni. Ricordo ancora la sua telefonata dopo aver ascoltato Quei motivetti che ci piaccion tanto, per complimentarsi con noi e invitarci a Milano per conoscerci meglio. Dal quel momento ci ha sempre supportato.
È stato bellissimo registrare il suo intervento ne “La classe degli asini” e ascoltare i suoi racconti su quel periodo magico della musica italiana, sui musicisti dell’epoca e del suo incontro con Django Reinhardt. Alla fine della registrazione ho detto: «Franco, queste storie sono bellissime! Sarebbero perfette da inserire alla fine dell’album come testimonianza». La sua risposta è stata immediata: «Assolutamente sì! DEVI metterle!»
Con Franco, e soprattutto con Raf, abbiamo trascorso tantissimo tempo assieme e condiviso musica, racconti, emozioni. Di loro potremmo parlare per ore: sono davvero due leggende della musica italiana e due personaggi davvero straordinari.
Nel 2015 avete pubblicato ‘Acoustic’, un album essenzialmente di cover dedicato alle musiche, alle persone e ai luoghi che vi hanno ispirato in quindici anni di carriera musicale. E si va da Joni Mitchell a Paul McCartney, Tom Jobim, Jimi Hendrix, Keb’ Mo’, Carole King e James Taylor, fino alla tradizione irlandese e alla musica antica. La presenza di Paolo Ercoli al dobro, violoncello e pedal steel suggella in qualche misura una sintonia con il country bluegrass e la Americana music…
(A.C.) Le persone spesso ci riconoscono per lo swing italiano, ma in realtà la nostra formazione è molto variegata e ci piace suonare di tutto. Avevamo diverso materiale registrato in precedenza che volevamo utilizzare, al quale abbiamo aggiunto nuove incisioni, per creare un album di brani estratti da generi ed epoche musicali molto diverse fra loro, come una testimonianza di tutto ciò che ci ha strutturato e ispirato nell’arco degli anni.
E infine nel 2019 arriva il vostro ultimo Our House – The Nashville Session at Cinderella Sound Studio, registrato nello studio completamente analogico del già citato Wayne Moss, in quartetto con Bill Ferri e Stephan Dudash. Qui emerge Anita alla composizione di cinque brillanti canzoni con testi in inglese, accanto all’unica cover “All the Diamonds” di Bruce Cockburn. Come si è sviluppato questo processo compositivo, sempre a cavallo tra il genere Americana e la tradizione irlandese e antica?
(A.C.) La mia ispirazione compositiva nasce ovviamente dalle variegate esperienze e gusti musicali che mi hanno segnato e accompagnato fin da piccolissima. Sicuramente guardo molto alla ricerca compositiva di Joni Mitchell, che ritengo essere ‘completa’ da un punto di vista sia armonico e melodico che testuale. Cerco di non sedermi mai su cliché musicali che non mi appassionano o non mi spronano ad analizzare sempre più in profondità alcuni pensieri o concetti melodico-armonici. Mi piace che la composizione possa arricchirmi ma anche divertirmi, un po’ com’è successo con “Organized” – il primo brano dell’album – che vuol essere un’ironica esposizione delle molteplici critiche che spesso vengono rivolte a noi musicisti e al nostro stile di vita.
(D.F.) Anita si è rivelata in questi anni un’ottima songwriter: ho sempre cercato di spronarla verso questa direzione. Quando mi propone le sue melodie sento tutte le sue influenze ma anche la sua personalità, ed è sempre una bella sfida cercare di arrangiarle.
A conferma dell’amore di Anita per la musica antica, il testo di “A Summer’s Day” è tratto da un sonetto di Shakespeare…
(A.C.) Shakespeare è uno degli autori letterari che da sempre più mi hanno appassionato. Mi è venuto spontaneo pensare di omaggiarlo musicando uno dei suoi testi, e per farlo ho attinto a piene mani alla mia esperienza nell’ambito della musica antica.
Parallelamente alla vostra attività musicale dal vivo e in studio, avete sempre portato avanti un’attività didattica: come si articola questa attività?
(D.F.) Abbiamo sempre portato avanti l’attività didattica in molti ambiti, dalla singola lezione di strumento fino alle lezioni-concerto, con una fruizione che va dai bambini delle scuole materne fino a persone adulte.
Ho scritto diversi libri e numerose trascrizioni e arrangiamenti per chitarra, tutto materiale disponibile nello “Store” del nostro sito. Durante il lockdown ho pubblicato anche Fingerstyle Roads, un libro per chi volesse esplorare il fingerstyle, disponibile in PDF e del quale vi sono video correlati visibili sul nostro canale YouTube. Ho molto materiale scritto, che pian piano sto organizzando, e ho in cantiere anche un libro dedicato al flatpicking.
Da diversi anni collaboriamo anche con TrueFire, una delle più grandi piattaforme dedicate alla didattica.
(A.C.) Personalmente amo molto l’insegnamento, che professo ormai da più di venticinque anni. Mi piace avvicinare le persone al canto e alla musica in generale, vedendo crescere in loro l’interesse e la passione per quest’arte che può dare, soprattutto ai giovani, la possibilità concreta di avvicinarsi e confrontarsi anche da un punto di vista umano, oltre che musicale.
Siete da sempre legati a una dimensione di musica indipendente e di autoproduzione: potete parlarci delle vostre idee in proposito?
(A.C.) Non siamo mai stati legati a nessuna etichetta, agenzia o altro, e con il passare degli anni non abbiamo mai sentito l’esigenza di legarci a qualcuno. Ci consideriamo un po’ degli artigiani, una sorta d’impresa famigliare, anche se è sempre più difficile fare e vivere di musica in Italia.
Per concludere, vorrei chiedervi un pensiero sul difficile periodo che stiamo attraversando: come lo avete affrontato e quali sono i vostri progetti attuali?
(D.F.) Questo periodo è stato davvero difficile per tutti. Abbiamo perso molti lavori e opportunità, e ci manca davvero tanto viaggiare con la musica. Abbiamo nuovi brani inediti che ci piacerebbe registrare ancora a Nashville con Bill Ferri e Stephan Dudash, anche se non sappiamo quando sarà possibile tornarci in totale sicurezza.
Nel frattempo, però, abbiamo lavorato su un nuovo spettacolo chiamato Acoustic World nel quale, oltre a suonare la nostra musica originale, ci divertiamo a suonare musica tradizionale irlandese e americana, il tutto sempre accompagnato dalle storie che nascono intorno ai brani. In questo progetto Anita suona anche l’autoharp e io suono anche il mandolino, mentre con la chitarra suono sia fingerpicking che flatpicking.
(A.C.) Il mondo è cambiato tanto in poco tempo e le persone sono ora distratte da mille cose. La nostra speranza è di tornare al più presto a suonare regolarmente dal vivo e di regalare, con i nostri concerti, un viaggio nel tempo e nei ricordi, distante dalla vita frenetica di oggi. Nei nostri spettacoli ci piace avere il pubblico vicino e creare un’atmosfera molto intima e coinvolgente. Per questo ci auguriamo che la musica e la cultura tornino a far parte del quotidiano, perché è ciò che ci permette di mantenere una mente aperta, di conoscere e comprendere meglio il mondo e gli altri!