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 La pittrice della vita moderna – Joni Mitchell

Joni Mitchell

 La pittrice della vita moderna

 di SERGIO STAFFIERI

 It’s a long way from Saskatoon

Ci sono pochi artisti la cui integrità può essere davvero messa in discussione. Alcuni, consci di operare in un ambito – quello dell’entertainment di matrice popular – che ha canoni e confini da rispettare se si vuole arrivare al pubblico, cercano di mantenersi in equilibrio fra dignità artistico-autoriale e appeal commerciale. Altri sembrano rifiutare bellamente ogni intrusione e imposizione del mercato, non per un rifiuto del ‘mercato’ in sé, quanto per le regole che gli vorrebbero imporre di volta in volta i rappresentanti e amministratori del mercato, in base ai gusti mutevoli del pubblico (o imposti al pubblico) che affliggono il momento. E a dispetto di ciò, questi artisti riescono anche a imporsi perché sanno quando sfruttare le convenzioni a loro favore e quando lasciarle da parte.

Joni Mitchell è, fra questo secondo gruppo di artisti, forse uno degli esempi più emblematici.

Di per sé è anche una delle più rappresentative di un periodo, quello di fine anni ’60, in cui anche le case discografiche erano disposte a lasciare gli artisti a briglia sciolta (ad esempio lei ottenne dalla Reprise amplissima autonomia creativa e decisionale), in cui era ancora possibile fare tentativi e sviluppare una propria poetica nel corso di più album, e in cui anche qualcuno di non catalogabile trovava posto in una categoria in quel momento alla moda e poteva far passare il proprio messaggio. Perché anche rispetto ai propri pari e consimili dell’epoca, Joni veniva da tutt’altra parte e da lì partì poi verso altre direzioni.

 

Il 2021 è stato un anno ricco, importante per Joni Mitchell e i suoi fan: Blue, uno dei suoi album di maggiore successo e sicuramente il più iconico del suo primo periodo, ha compiuto cinquant’anni; sono stati ripubblicati gli album incisi per la Reprise; è stato pubblicato il secondo volume degli Archives, incentrato su quel gruppo di album che termina con Blue stesso, dischi che ne consolidarono la posizione e la fama nel giro di appena un lustro; a dicembre, infine, le è stato conferito uno dei Kennedy Honors, nati sul modello del francese Ordre des Arts et des Lettres e del britannico Order of the British Empire. Joni ha commentato anche in questa occasione ricorrendo al suo leitmotiv (lo ascoltiamo anche in una delle chiacchiere col pubblico in Archives – Vol. 2): «It’s a long way from Saskatoon».

 

Joni Mitchell ha attraversato varie fasi: il periodo acustico di comunanza col folk revival e progressivamente tendente alla rarefazione e all’espressione rapsodica; l’avvicinamento al mondo del jazz rock, su basi tutte sue: cioè facendo ricorso a jazzisti che potessero seguirla nelle sue esplorazioni ritmiche e armoniche fuori dal seminato corrente, ma sempre per eseguire la suamusica, per arrivare all’album frutto della collaborazione con Mingus; il pop più elettronico; il recupero dello strumento acustico. Ma è sempre stata solo fedele a sé stessa.

Archives – Volume 1: The Early Years (1963-1967)

 «Sono stata una folk singer per circa due anni»

Quando pensiamo a Joni Mitchell pensiamo alla chitarra acustica, al folk revival, a musica ‘confessionale’ e a testi letterari e sofisticati. Eppure Joni, si è detto e si dirà di nuovo, veniva da un retroterra diverso, suonava la chitarra in maniera del tutto sua e sui dischi suonava canzoni sue; e perlomeno fino a un certo punto ha anche negato di avere legami col folk o folk revival che dir si voglia. Quanto ai testi, ha sempre ammesso di essere stata una pessima studentessa, che ha sempre letto poco. Di più, in realtà si è sempre sentita una pittrice ritrovatasi poi a fare la musicista, e da un certo punto in poi ha abbandonato la musica puramente acustica e si è circondata di jazzisti elettrici (Metheny, Pastorius…), fino a sperimentare con l’elettronica (e in questo potremmo accomunarla ad altri singer-songwriter di quegli anni: Cat Stevens, Leonard Cohen e non solo) e il guitar synth (il Roland VG8).

Non c’è dubbio però che l’immagine più comune di Joni Mitchell, nell’immaginario collettivo, sia quella della cantante-chitarrista acustica a fine anni ’60-primi anni ’70, ed è questa la fase che qui più ci interessa per ovvi motivi. Il primo volume degli Archives, pubblicato nel 2020, ha avuto il merito di riconciliare Joni col suo passato (o meglio, il primissimo fra i suoi passati). Tuttora lei insiste che il suo periodo più interessante, o di cui comunque va più fiera, è quello successivo a Blue, e il materiale più acustico dei primi tempi è secondo lei meno rappresentativo e più legato a uno stereotipo musicale del tempo (una volta ha definito le sue prime cose «il lavoro di un’ingenua»). In un’intervista con Cameron Crowe apparsa sul Guardian del 27 ottobre 2020 in occasione della pubblicazione del Volume 1, ha però ammesso: «Non dovrei essere così snob verso le prime cose. Molte di queste canzoni le ho perse per strada. Esistono solo in queste registrazioni. Per così tanto tempo mi sono ribellata contro questo termine [dicendo]: “Non sono mai stata una folk singer”. Mi arrabbiavo se mi appiccicavano quell’etichetta. Non penso che fosse una descrizione accurata di quello che ero. E poi ho ascoltato [le registrazioni] e… è stato stupendo. Mi ha fatto perdonare i miei inizi. E ho capito questa cosa… [ridendo] Oh Dio, ero una folk singer

Archives – Volume 1 copre quindi gli anni formativi, tra club, esibizioni radiofoniche e demo casalinghi. Tra brani ritrovati, altri raccolti nel tempo e catalogati da Joel Bernstein – e presentati in ordine cronologico su suggerimento di Neil Young – la raccolta ci offre una Joni dei primissimi tempi impegnata a pagare dazio, nella moneta corrente, alla scena del tempo. Le rese dei brani tradizionali non sono lontane, per stile vocale e di accompagnamento, dalle versioni in voga dei nomi più famosi del folk revival dell’epoca, ma possiamo – poiché i brani sono disposti cronologicamente – osservare come la sua personalità vocale e strumentale si faccia man mano più evidente. Sono gli anni dell’anglo-melodico, prima che Joni si dedicasse maggiormente all’esplorazione della musica più nera: «Nei locali i musicisti folk si dividevano in due gruppi: quelli che suonavano con la Gibson e quelli che suonavano con la Martin. I primi facevano blues e gli altri preferivano ballate più melodiche, inglesi e irlandesi. A dire la verità, il blues non mi era entrato dentro particolarmente. Anche se ebbi la fortuna di ascoltare gente come Mississippi John Hurt, quelle non erano le mie radici. Io ero per l’anglo-melodico». Così raccontò Joni a Bill Flanagan nell’intervista pubblicata in Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock (Arcana, 1987). Subito dopo chiarì che grazie a Mingus, che l’aveva ‘trascinata a forza’ nel blues (un blues comunque sofisticato), le sue radici erano cambiate.

I brani tradizionali, quindi: tra i migliori “House of the Rising Sun”, che si segnala per un trattamento armonico diverso da quello in voga per via delle versioni di Dylan e Animals; “John Hardy”, molto ritmica come “Nancy Whiskey”, “Anathea”, “Copper Kettle”; la bella “Fare Thee Well (Dink’s Song)”, cantata anche da Dylan, è molto più melodica e meno ritmica rispetto alla versione di quest’ultimo (faccio riferimento a The Bootleg Series, Vol 7: No Direction Home); valore documentario in senso minore ha “Molly Malone”, ma ben più importante è “Sail Away” (dove Joni invita il pubblico a cantare con lei: «Ha una melodia molto strana, quindi qualsiasi strana armonia che vi verrà fuori sarà ben accetta»; ottima, soprattutto per la parte di chitarra, è “Pastures of Plenty” di Woody Guthrie (Joni dice: «Una delle mie preferite»); “The Dowie Dens of Yarrow”, a cappella, ci porta in Scozia.

Nel secondo disco iniziano a comparire i brani suoi (molte composizioni presenti sono importanti perché non sono mai apparse su nessun album in studio), con alcune caratteristiche tipiche: “Urge for Going” con gli accenti distribuiti su 3+3+2 ottavi; “Born to Take the Highway”, convenzionale ma con le sue cadenze tipiche; “Here Today and Gone Tomorrow”, apprezzabile per la parte di chitarra; “Let It Be Me” che chiude su un accordo di sesta; “Sad Winds Blowin’”; “Just Like Me” dalla bella introduzione; “Night in the City”; “Brandy Eyes” con una ritmica sua tipica; “What’s the Story Mr. Blue” caratterizzata da un rock’n’roll beat; “Eastern Rain” con l’apertura sugli acuti; “Cactus Tree” presentata come “Cactus Flower”.

I brani sono presenti in più versioni, e ricompariranno nel Volume 2. E, per chi vuole, è possibile confrontare le varie versioni dei brani che finiranno nel debutto del 1968, Song to a Seagull(“Michael From Mountains”, “Night in the City”, “Marcie”, “I Had a King”, “Song to a Seagull”), in Clouds del 1969 (“Chelsea Morning”, “Tin Angel”, “I Don’t Know Where I Stand”, “Both Sides Now”, “Songs to Aging Children Come”), in Ladies of the Canyon del 1971 (“Morning Morgantown”, “Conversation”, “The Circle Game”) e infine in Blue del 1971 (“Little Green”). “Little Green” presenta già caratteristiche dello stile di Joni: è bello confrontarla con la versione definitiva e, nella cadenza, sembra già di sentire brani come “The Circle Game”. C’è anche una bella versione di “Sugar Mountain” di Neil Young, in risposta alla quale Joni scrisse proprio “The Circle Game”.

«Ero una folk singer quando mi chiamavo Joan Anderson. Non appena diventai Joni Mitchell, non ero più una folk singer. Quando iniziai a scrivere la mia musica, non era folk music»

Archives – Volume 2: The Reprise Years (1968-1971)

La pubblicazione di Archives – Volume 2 è stata pubblicizzata dall’inclusione nella raccolta di un concerto registrato da Jimi Hendrix: suo compagno di scuderia alla Reprise, si trovava anche lui a Ottawa e si presentò quella sera con un registratore; si fece annunciare e chiese di poter registrare l’esibizione. Il nastro fu poi rubato, scomparve e riapparve, e fu fatto avere all’entourage della Mitchell. Fa impressione pensare che quello che ascoltiamo sia a tutti gli effetti un bootlegautorizzato dall’artista e registrato da Hendrix: «Si inginocchiò a bordo palco, con un microfono ai miei piedi. Durante l’esibizione non faceva che girare le manopole […]. Non so che cosa stesse controllando. Forse il volume? Guardava i livelli o non so che, manovrando i controlli. Registrò questo disco splendidamente».

Archives – Vol.2: The Reprise Years (1968-1971) è composto di cinque album, che documentano e completano quindi l’ascesa di Joni da poco conosciuta performer ad autrice di brani portati al successo da altri (Judy Collins, Tom Rush, i Fairport Convention ecc.) e ad artista di successo in proprio: la traiettoria, si è detto, è quella che va da Song to a Seagull (prodotto da David Crosby) a Blue (i cui brani hanno ovviamente importanza preponderante). E un ascolto dei brani dal vivo (assieme al riascolto dei primi quattro album in ordine cronologico) ci permette di assistere all’evoluzione non solo creativa, frutto di tanto lavoro sulla chitarra, ma anche dell’esecutrice-performer da ancora timida nuova arrivata a padrona di una sicura presenza sulla scena: i momenti parlati, ricchi di aneddoti, in cui introduce le canzoni raccontando di queste e di sé, sono godibilissimi e colpiscono per l’apparente contrasto fra una voce narrante  timida e innocente – almeno all’inizio – e un canto forte e sicuro. E in più ci insegnano tanto sull’arte, tipicamente nordamericana, di intrattenere un rapporto col pubblico durante le pause (necessarie anche a riaccordare – specie nel suo caso – la chitarra).

La raccolta è un vero tesoro: si inizia con demo casalinghi risalenti al 1967-68, e fra questi c’è quello di “Midnight Cowboy”, che scrisse per il film omonimo di John Schlesinger (in Italia uscì come Un uomo da marciapiede): è strano pensare che poi questo demo sia stato rifiutato e che venne utilizzata invece, come noto, la versione di Harry Nilsson di un brano, “Everybody’s Talkin’”, scritto da un altro personaggio caratteristico del folk revival di quegli anni, Fred Neil. Pur nella sua ‘convenzionalità’ “Midnight Cowboy”, in minore, si segnala proprio alla fine (la cadenza su «go back home») per un uso del cromatismo tipico di Joni. Il pezzo è presente in due versioni, la seconda con un ritmo e un’armonia più tipici della Joni successiva. Più interessante è il demo casalingo di “The Dawntreader” (lanciata come ‘singolo’ nella versione registrata nel nastro di Jimi), che personalmente mi fa pensare molto – per l’accordatura, gli arpeggi e gli accenti negli arpeggi – a Nick Drake (si pensi a “Three Hours”), il quale conosceva e apprezzava la musica di Joni. Lo stesso vale soprattutto per “Song to a Seagull”, ipnotica, dove Joni sembra volare e volteggiare attorno all’accordo principale. Fra le particolarità dei demo presenti, in “Roses Blue” – dall’andamento cromatico e dal profilo discendente – è sovrainciso il taishōgoto, un’arpa giapponese. In “Jeremy” colpisce il contrasto tra la voce tenue che annuncia il titolo, e il canto forte e profondo. E in “Conversation”, stupenda, abbiamo già la Joni matura e definita di quegli anni: nello strumming, nel tenere il primo grado inserendo la quarta, e nel muovere poi solo il basso per cambiare di poco l’armonia, ma suggerire già un altro ambiente sonoro sotto al canto. Dopo “Both Sides Now” e “The Gift of the Magi” dalle sessioni per Song to a Seagull , il gioiellino presente qui è “Another Melody”, che sembra quasi aprire uno spiraglio nel processo creativo dell’artista: Joni arpeggia in maggiore ed esegue vocalizzi (e di nuovo, più ascolto certi brani e più mi viene da pensare a Nick Drake). Il primo disco si conclude con “Songs to Aging Children Come”, che come altri passi fa pensare a un’influenza su Kate Bush.

Il secondo disco presenta l’esibizione a Le Hibou Coffee House registrata da Hendrix: ottima “Night in the City”, una delle sue ‘false cantilene’, dove il tempo ternario le permette di salire e scendere attorno a una nota principale e di alternare modalità e tonalità (per grosse linee, andando verso il misolidio e poi facendo lo yodel all’ottava superiore, per arrivare sul suo tipico accordo sul secondo grado arricchito); ottima l’ipnotica “Come Together”, col bending sugli acuti e che fa pensare a Tim Buckley; ottima “Conversation”, ottima “The Dawntrader” così come “Marcie”, con quel gioco di armonie che si allontanano e riavvicinano al centro tonale grazie al cromatismo suo tipico, prima di un momento più melodico e tonale; ottima “Dr. Junk” con la ritmica alla Bo Diddley; ottime “I Don’t Know Where I Stand”, “Sisotowbell Lane” e “Ladies of the Canyon”; “Lambert, Hendricks & Ross” è un momento ironico in cui Joni si lancia in vocalizzi dal jazz phrasing e scopre le carte al riguardo.

Joni stava iniziando a farsi conoscere: ecco quindi l’apparizione alla BBC, a Top Gear, nell’autunno del 1968 con il John Cameron Group come backing band: segnaliamo qui che ne facevano parte Tony Carr alla batteria, Dave Cousins futuro Strawbs alla chitarra, e soprattutto il sassofonista e flautista Harold McNair, che suonò fra gli altri con Donovan sugli album per la Pye tra il 1965 e il 1969, registrò con Davy Graham e anche John Martyn nel 1968, e apparve nel 1970 su Bryter Layterdi Nick Drake. In questa occasione Joni eseguì “Chelsea Morning”, fantastica, “The Gallery” da sola (il brano comparirà su Clouds), “Night in the City” (da Song to a Seagull).

Joni Mitchell © Jim Marshall Photography LLC

La fama di Joni cresce ancora, ed ecco le esibizioni alla Carnegie Hall davanti a quasi tremila persone nel febbraio 1969. Bellissima è “Cactus Tree”, mentre “Spoony’s Wonderful Adventure” ci permette di ascoltarla mentre accorda la chitarra sotto il parlato. Joni suona quindi la prima parte di Song to a Seagull e alcune canzoni che finiranno su Clouds a maggio: “That Songs About the Midway”, “The Gallery”, “Chelsea Morning”, “Both Sides Now” (su cui scherza: «Subito prima di uscire di scena vorrei cantare il mio successo – mio e di Judy», riferendosi a Judy Collins), “Hunter”, scritta una settimana prima. Compare “Morning Morgantown”, altro brano tipico fra modale e tonale e vicino nelle cadenze a “The Circle Game”, e poi “Get Together” (cover dello storico brano di Chester Powers, alias Dino Valenti: Joni la presenta come una canzone che vorrebbe avere scritto), il medley “Little Green/The Circle Game”, “Michael from Mountains” e “Urge for Going”.

Dopo altri demo, segue l’esibizione al Dick Cavett Show nell’agosto 1969: suona “Chelsea Morning”, “Willy”, “For Free” al piano, “The Fiddle and the Drum” a cappella. E possiamo ascoltare il demo di “Woodstock”, scritta in una stanza d’albergo a Manhattan: fu il suo personale contributo al festival, a cui non partecipò perché il traffico rendeva impossibile arrivare (infatti CSN&Y decisero di prendere un elicottero) e David Geffen, suo manager, riteneva comunque più importante la sua partecipazione allo show di Cavett. Il brano uscirà su Ladies of the Canyon, su Déjà Vu di CSN&Y nella loro versione, e sempre in una loro versione apparirà durante i titoli di coda del film su Woodstock uscito nel 1970. È inoltre un brano che la stessa autrice ha continuato a suonare, modificandolo, negli anni.

Altri demo e versioni dal vivo: segnaliamo una “All I Want”, che lei presenta come una nuova canzone non ancora finita e, dalle sessioni di Blue, “A Case of you” e “California”. Per noi è credo di nuovo un passaggio alla BBC, registrato per la serie In Concert al Paris Theatre a Londra nel 1970, ad avere importanza particolare: prima di “Carey”, più leggera della versione su disco, Joni parla al pubblico del mountain dulcimer e offre le sue riflessioni sulla musica tradizionale: «Secondo alcuni gli Scots sugli Appalachi sentivano la mancanza delle bagpipes e costruirono il dulcimer». E soprattutto, per alcuni brani, compare qui accanto a lei James Taylor, con cui aveva una relazione al tempo: ed è singolare pensare che insieme eseguano “A Case of You”, che era stata scritta su Leonard Cohen, e “California” che parla di un altro flirt in Spagna. Colpisce l’intreccio di arte e vita perché, anche pensando a Taylor, Joni aveva scritto alcune delle canzoni di Blue. Difficile scegliere fra i brani presenti eseguiti insieme, tutti di pregio: “You Can Close Your Eyes” di Taylor è stupenda (e vista l’occasione invitiamo a riascoltare, su Youtube, anche una intima versione casalinga di Taylor con Carly Simon) e “The Circle Game” è da brividi. Le versioni alternative di alcuni brani, in chiusura, sono ugualmente importanti: perché pur quando se ne preferisce la versione definitiva, i tentativi di arrangiamento prefigurano quella che sarà la Joni futura. Su “River” (di cui Joni ha detto: «È assolutamente una canzone natalizia! È una canzone natalizia per le persone che sono sole a Natale») troviamo i corni francesi; su “Urge for Going” gli archi.

C’è un dato che sorprende, riascoltando tutti questi brani: la prolificità di Joni, che ancora prima di iniziare a registrare il primo album aveva già scritto una sessantina di canzoni. E la qualità dei brani è altissima: ricordiamo che i primi quattro album furono registrati e pubblicati nel giro di quattro anni. “Both Sides Now”, da Clouds del 1969, risale al 1966 ed era stata provata quindi per essere inclusa su Song to a Seagull!

***

«Da piccola amavo Debussy, Stravinsky, Chopin, Tchaikovsky, qualsiasi cosa che contenesse melodie romantiche, specialmente i Notturni»

Molto più che il folk, per Joni Mitchell ha avuto importanza la tradizione classica europea (perlomeno quella tardo-romantica e successiva), e paradossalmente anche questa in modo più ‘aurale’ che tradizionale: perché prese sì lezioni di pianoforte, ma come tanti prima e dopo di lei, preferiva suonare a modo suo e improvvisare invece di leggere lo spartito. E smise di prendere lezioni quando le imposizioni dell’insegnante e le gabbie della lettura al suo istinto creativo divennero troppo evidenti. Ma è comunque nelle miniature e forme della canzone d’arte – i Lieder, ad esempio – e nell’uso ‘coloristico’ dell’armonia (i poemi sinfonici, la modernità di Debussy), approcciata secondo un’ottica ‘pittorica’, che vanno ritrovate le sue influenze maggiori e più durature. Joni non si è mai fatta problemi a usare la parola arte e a riferirsi ai suoi brani come art songs. E non è mai stata parca di riferimenti all’arte pittorica di un certo tipo – Van Gogh, Picasso e il suo continuo reinventarsi, Pollock – nel descrivere quello che faceva e aspirava a fare: pensiamo all’uso della parola brush stroke, pennellata, riferita alle armonie suggerite, e anche al tipo di colpo – stroke – sulle corde della chitarra).

Questo è evidente già dagli inizi: Joni Mitchell ha inteso la chitarra come uno strumento da esplorare, ed è qui che ci si potrebbe perdere, nel tentativo di analizzare e ricondurre i brani a schemi prefissati. I suoi brani sono a volte modali e a volte polimodali, entrano ed escono dalla tonalità e utilizzano – e combinano – tutti i mezzi a disposizione: pedali, cromatismo, accordi sospesi, armonie per quarte, passaggio – e ‘confusione creativa’ – fra maggiore e minore. Le melodie vanno dalle più ‘semplici’ (ma anche in questo caso è l’armonia sottostante a fare la differenza) alle più irregolari: vale dal punto di vista metrico, del profilo melodico e della struttura e organizzazione in periodi e battute, delle formule a cui fa ricorso; anche se si compiace spesso di riutilizzare le stesse pure in contesti diversi e canzoni diverse. E certi motivi o fraseggi ricorrenti sembrano avere proprio la funzione di conferire coerenza stilistica al suo stile del tutto personale.

Lo stile chitarristico di Joni Mitchell è poi quanto di più elusivo e personale possibile: all’apparenza anch’esso canonico e nel tracciato della musica acustica dei singer-songwriter, in realtà unico e personalissimo, perché Joni non copiò mai effettivamente nessuno nel suo periodo formativo. Dopo aver suonato, nell’ordine, pianoforte e ukulele, passata alla chitarra – che la madre non aveva voluto comprarle perché strumento da hillbilly – si formò un po’ su un manuale di Pete Seeger, How to Play Folk-Style Guitar, e imparò il Cotten picking, modificandolo da subito: non riuscendo a suonare bene sesta e quinta corda alternate, iniziò a battere soprattutto sulla sesta, ma finendo per colpire anche la quinta e trovando qui la sua via. Apprese le prime open tunings da Eric Andersen, che vide suonare in un club e conobbe, e se ne servì da subito per comporre i propri brani (ma due dei primissimi sono in standard tuning: “Tin Angel” e “Urge for Going”). Da subito iniziò a modificare le accordature per le proprie esigenze, di carattere creativo (nuove accordature la costringevano a nuovi percorsi e combinazioni ispirative) e tecnico-fisico: a causa della poliomelite avuta da bambina, le mani erano molto deboli e le accordature alternative e aperte permettevano di usare solo l’indice della sinistra, quando volesse, o comunque l’indice e poco più. Oltre a open D e open G, una delle prime è stata quella che lei chiama modal D tuning, dove sesta e prima corda sono abbassate di un tono: risultando in DADGBD. I suoi accompagnamenti sono affidati a volte ad accordi composti premendo tutte e sei le corde, a volte a cluster, a volte a note di bordone o pedale, su cui svetta di contrasto il movimento armonico su e giù per il manico. In questi casi usa spesso e volentieri lo strumming in maniera potente e con molte dinamiche e chiaroscuri: la sesta corda nella sua visione è anche un rullante. E non è scorretto dire che su ogni strumento che ha preso in mano ha usato il proprio stile più che gli stili esecutivi ‘dettati’ dallo strumento. Si veda anche l’uso del dulcimer: Joni ne comprò uno a un festival, perché attratta dal fatto che si suonasse in accordatura aperta (Joellen Lapidus, la ragazza che l’aveva costruito, era andata al Big Sur Festival con l’idea di venderlo a lei o all’Incredible String Band), e se lo portò in Grecia dove cominciò a suonarlo, anche in questo caso in maniera personale, senza lezioni o indicazioni da strumentisti della tradizione. E anche questo cambiò – o meglio ampliò – poi il suo stile chitarristico: non avendo suonato altro che il dulcimer per lunghi mesi, quando riprese in mano la chitarra si ritrovò ad adoperare uno stile più ritmico. Del suo stile ritmico-percussivo ha parlato anche il batterista e percussionista Russ Kunkel, che suonò su Sweet Baby James, Tapestry e Blue nel giro di due anni, rimarcando la bravura di Joni Mitchell alla ritmica («Pensa come un batterista») e la sua comprensione acuta del ritmo inerente a una canzone, che resero facile il proprio lavoro nell’aggiungere percussioni di supporto a quello che Joni già suonava di suo.

In ogni caso chitarra e voce sono in simbiosi: sull’universo armonico originato dallo strumento, la voce – nei momenti migliori – è davvero un altro strumento che si aggiunge. Man mano le accordature si sono evolute, anche se quelle che a volte sembrano accordature diverse sono dovute all’utilizzo di un capotasto mobile. Partendo dalle open tunings più usate, Joni è approdata man mano alle ‘sue’ (in “Sisotowbell Lane”, ad esempio, CGDFCE) e agli accordi carichi di dissonanze («Non ha senso fare musica che non contenga dissonanze in un mondo dissonante»), che però – essendo distribuite su piani diversi della tessitura – acquisiscono un carattere del tutto particolare, trattandosi spesso di accordi per quarte, sospesi, e non per terze sovrapposte, e spesso anche di slash chords. E, di nuovo, Joni Mitchell non li considera accordi ‘jazzistici’, quanto piuttosto più vicini alle armonie di Debussy: «Ci sono regole per il movimento di accordi nel jazz, e [quello che faccio] è per la maggior parte al di fuori di queste regole». Va osservato che Joni è facilitata – nell’uso del tutto avventuroso di questi accordi e possibilità armonico-melodiche – da un’assoluta mancanza di soggezione nei confronti della ‘tradizione’: del tutto autodidatta, è da subito creativa con i mezzi a sua disposizione, scevra di cognizioni precedenti sullo strumento o sulla sua letteratura, e guidata da un’ottica ‘pittorica’ delle note, identificate come colori. In altri casi, si è lasciata guidare dall’ambiente circostante, come per “Magdalene Laundries” (BF#BEAE) dove si basò sul canto degli uccelli mentre era seduta su una roccia. Joni ha anche un modo tutto suo di identificare e raggruppare le accordature a partire dalla nota più bassa, indicando il numero del tasto da premere su una corda per ottenere la nota della corda a vuoto successiva: quindi l’accordatura standard sarà identificata, partendo dalla nota della corda a vuoto più grave, come E55545; e le sue accordature partono sempre da 7 e 7, o 7 e 5, sui bassi. Le diverse corde, o gruppi di corde, saranno poi utilizzate – volendo – come parti dell’orchestra: «Le tre corde acute sono la mia sezione fiati, quelle basse violoncello e viola, il basso è suggerito». Ecco quindi melodie sugli acuti, note di bordone, bassi in movimento. Le sue composizioni – soprattutto dal periodo di mezzo in poi – seguono proprio un’ottica pittorica: Joni ha affermato più volte, negli anni, di visualizzare la musica ‘graficamente’ nella propria testa; e di partire sempre dall’ispirazione, componendo poi in un insieme ordinato i vari momenti, e piegando quando necessario note, accordi e ritmo – i cambi armonici o dei plateau, il profilo ritmico e quello melodico – per esprimere con le parole quel che ha da dire.

Gli accordi sono quindi frutto di una sua particolare ‘sinestesia’, e hanno per lei forti qualità emotive. E le accordature aperte/alternative le hanno permesso di esplorarli, si potrebbe dire, in un rapporto di auto-apprendimento continuo, come quello – fatti i dovuti paragoni – di The Edge con gli effetti di modulazione e ritardo. Ogni nuova accordatura le insegnava qualcosa.

C’è altro, fra le informazioni a disposizione, che ci può dire delle influenze e dell’evoluzione della Joni strumentista-autrice. Da piccola per esempio ebbe una ghironda, strumento che si basa sull’effetto di bordone. E contrariamente a quanto si potrebbe pensare, stilisticamente Dylan non fu tra le sue prime influenze: iniziò ad ascoltarlo maggiormente dopo “Positively 4th Street”, e “Cactus Tree” è una canzone scritta per propria ammissione sotto l’influenza di Bob, per quanto riguarda la melodia). Mentre Cohen sì: Joni ha dichiarato che “Marcie” non sarebbe esistita se non avesse ascoltato “Suzanne”. Così come Judy Collins: «Il primo anno e mezzo della mia carriera memorizzai i suoi album». Joni ha poi affermato come la propria musica sia direttamente influenzata dalle prairies, le praterie canadesi: «Quando ero piccola, mia madre mi portava nei campi per insegnarmi i canti degli uccelli». E se si deve cercare un’influenza che non sia classica o jazz, è nel rock’n’roll, che ballava da ragazza: le radici di “Big Yellow Taxi”, parole sue, sono in Chuck Berry (e andrebbe ricordato anche Bo Diddley). Anche per quanto riguarda il jazz, Joni ha sempre inquadrato in maniera precisa il suo rapporto con questo genere: pur amante di Miles Davis, Charlie Parker e altri, e delle armonie degli standard (e sappiamo quanto queste armonie siano debitrici di Debussy e dei suoi contemporanei) tanto da registrare un disco con proprie versioni negli anni ’90, riconosce – come è stato detto – che le sue armonie sono assimilabili a quelle jazzistiche per la loro ampiezza, ma che il jazz ha le proprie regole armoniche e – parole sue – nella sua musica c’è anche qualcosa di Stravinsky (molto probabilmente anche a livello ritmico: si pensi a La sagra della primavera). Nel 1988, ritornando sull’argomento in un’intervista per Musik Express, una rivista tedesca, specificava anzi che le sue armonie non sono né jazz né folk né classiche: ma che, per via delle open tunings, i suoi accordi sono altamente personali, ‘individuali’. Nella stessa intervista raccontò che Prince le aveva proposto un progetto a cui lavorare insieme, dove unire le sue armonie con i ritmi funk. In un’intervista su Guitar World, nel 1996, riaffermava ancora i suoi gusti e i suoi brani preferiti, rispondendo alla domanda su quali brani avrebbe portato nello spazio, se avesse potuto scegliere solo sessanta minuti di musica. Ne riporto qui alcuni, tralasciando quelli per cui le osservazioni erano più attinenti ai testi (e in questo caso comparivano ovviamente Dylan e Cohen), perché offrono un’ennesima conferma degli interessi musicali di Joni e del tipo di elementi che informano – e descrivono, di riflesso – la sua musica: nella lista troviamo la “Rapsodia su un tema di Paganini” di Rachmaninov, ascoltata nel film The Story of Three Loves («Ad oggi, la melodia più bella che abbia mai sentito. Fu la prima cosa che mi disse che dovevo fare musica»), “Johnny B. Goode” di Chuck Berry, “Will You Love Me Tomorrow” delle Shirelles (singolarmente, lei comparirà ai cori nella versione che l’autrice del brano, Carole King, registrerà su Tapestry), “Answer My Love” di Nat King Cole («Amo qualsiasi cosa dove la linea vocale ha intervalli ampi come qui, dove sale ad una quarta o una quinta. Molte melodie sono tutte terze»), “Nefertiti” di Miles Davis (e qualsiasi cosa da In a Silent Way e Kind of Blue), dove Davis e Wayne Shorter «iniziano a suonare all’unisono per poi allontanarsi e ‘sfasarsi’ leggermente» (e questo aspetto – off-center e out of sync, nelle sue parole – si ritrova sempre più nelle sue registrazioni da un certo punto in poi, con il progressivo aumento delle tracce di chitarra aggiunte alla traccia base), “Norwegian Wood” dei Beatles, che ascoltava prima di iniziare a scrivere lei stessa, “Mexico” di James Taylor, “De Do Do Do, De Da Da Da” dei Police («Ai Caraibi ho ballato per ore su quella canzone. Sono una vecchia ballerina di rock and roll, sai. Gli stop, le pause in questo brano sono davvero divertenti. Mi sono piaciuti gli ibridi musicali, i vuoti nelle linee di basso, le figure ripetitive con spazi fra loro»), “Punk Jazz” dei Weather Report, “Deacon Blues” degli Steely Dan.

Quanto alla ‘forma’ variabile dei brani e al ruolo degli accordi, è emblematica una sua affermazione in un’intervista del 1996 su Down Beat: Joni racconta di come il brano “Moon at the Window” avesse indisposto Victor Feldman, autore di un libro sull’armonia jazz, e di averlo poi fatto sentire a Sarah Vaughan, che commentò: «La struttura è strana». Joni rispose: «No, non è una struttura strana, è una vecchia struttura standard. C’è un verse all’inizio che non compare più [come nei vecchi brani del teatro americano, dove i chorus AABA ecc. erano appunto preceduti dal verse, che – va osservato – fu poi tralasciato dai jazzisti – n.d.r.] e poi c’è una tripartizione A-B-C della melodia, come in molti standard. C’è un accordo che cambia l’intervallo e va nella sezione C che è un po’ un trauma […] Appare un po’ strano, ma lo è in senso buono. Non è più strano di qualsiasi cambiamento nella vita. È come un ‘ma’ […]. Ecco il modo in cui penso che funzioni quell’accordo. Offre un altro punto di vista».

***

Depression can be the sand that makes the pearl

 Credo siano due le lezioni principali che è possibile trarre da Joni Mitchell. Una, ed è ovvio, riguarda l’aspetto creativo, musicale e non solo. E, per quanto riguarda quello musicale, è possibile dire lo stesso per l’ambito chitarristico e quello compositivo: Joni ci ha insegnato con il suo lavoro che è possibile, se determinati e ‘visionari’, prendere uno strumento – tradizionale o no, non è importante – e crearsi da soli la propria storia e la propria tradizione, a partire dalle proprie basi. È stata in questo una geniale autodidatta, che non ha mai avuto paura di provare, osare, imparare e chiedere. Il primo marito, Chuck Mitchell, le faceva pesare il suo aver letto e leggere poco (e forse anche per questo, quando frequentò Leonard Cohen, Joni gli chiese una reading list), ma soprattutto di ‘personalizzare’. Le sue influenze nel corso del tempo sono sempre state fonte di ispirazione, ma non di riproduzione pedissequa/imitazione. Di più, sono state rielaborate secondo una prospettiva non strettamente idiomatica, ma adattate alla sua ispirazione e al suo bisogno, qualsiasi fosse lo strumento. Applicando allo strumento e alla composizione musicale canoni pittorici, si è definita «a painter derailed by circumstance». Joni Mitchell è stata capace di operare in un’area di equidistanza dai mondi del folk, della classica, del jazz e della musica nera, dell’elettronica e del pop. E la capacità di attrarre a sé esponenti di tutti questi mondi, e ricevere tributi da ognuno di questi, testimonia il suo valore.

La seconda lezione riguarda l’aspetto ‘personale’ legato a quello musicale: nel fare musica ‘confessionale’, nell’esporsi e nell’informare di sé, della propria vita, esperienze e sentimenti e pensieri, Joni è stata e continua ad essere un esempio grandissimo di artista nel mondo commerciale: capace di agire sempre seguendo le proprie idee, cambiando e crescendo sotto gli occhi di tutti (a pensarci, mi viene in mente il titolo di un vecchio album di Lou Reed, Growing up in Public) con le sue canzoni di innocenza e di esperienza, ma ritagliandosi i propri spazi e mantenendo separato il pubblico dal privato quando necessario; distillando ogni volta le proprie crisi e umanissime difficoltà in abbacinanti opere d’arte musicale.

Joni sembra quasi l’incarnazione del Pittore della vita moderna, sospeso tra l’effimero, il contingente e «l’eterno e immutabile» di cui scriveva Baudelaire nel 1863: una persona del mondo, delle folle, ma anche «bambino». Joni ha ribadito di recente a Camerown Crowe di essere tuttora, a dispetto di tutti gli stili e cose che ha cambiato, la teenager che era una volta. Eppure, ne ha fatta di strada da Saskatoon, provincia di Saskatchewan.

I am on a lonely road, and I am traveling, traveling, traveling

Uscito quando l’artista aveva solo ventisette anni, Blue ebbe un’accoglienza tiepida. Disco personalissimo – per quanto riguarda la musica, e per quanto di sé Joni parlò nei testi – e pieno di malinconia, musica confessionale per eccellenza (Kris Kristofferson disse dopo averlo ascoltato: «Joni, tieniti qualcosa per te»), fu per lei anche l’ultimo del suo primo periodo. Joni si ritirò nella British Columbia, in un cottage di pietra, a vivere come un’eremita. Circa un anno dopo, in autunno, si avvicinò all’acqua circostante e decise di fare un tuffo. E tutto cambiò: il giallo degli alberi, il loro riflesso sull’acqua scura, le apparvero come un nuovo mondo con cui era ora in contatto; e lei rise e pensò: «Sono guarita». Aveva messo così un punto a quel capitolo della sua vita, ed era pronta ad andare avanti («Onward and upward»). Da lì sarebbe venuto For the Roses, e sarebbero seguiti Court and Spark, The Hissing of Summer Lawns, Hejira, Don Juan’s Reckless Daughter, Mingus e tanti altri album personalissimi, pieni di esplorazione che varrebbe la pena riascoltare. Ma, al momento, si prenda la chitarra e ci si concentri su Clouds e su questi Archives, ne vale la pena.

L’ho riascoltato molto, quest’anno, e al momento di scrivere questo pezzo un’altra volta, dopo aver ascoltato le due raccolte degli archivi: è un capolavoro di onestà e bellezza, e non dimostra affatto la sua età.

«Truth and beauty. That’s what I hope to deliver»

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Per saperne di più

Sull’opera di Joni Mitchell sono stati scritti, come evidente, tantissimi articoli e tanti volumi. Sono stati consultati e si consigliano fra questi almeno due: LLoyd Whitesell, The Music of Joni Mitchell, Oxford University Press, 2008, rigorosissimo studio di carattere musicologico e letterario, e Susan Whitall (a cura di), Joni on Joni: Interviews and Encounters with Joni Mitchell, Chicago Review Press, 2018, raccolta di interviste.

Fra le biografie più recenti, è del 2017 quella di David Jaffe, Reckless Daughter: A Portrait of Joni Mitchell, Sarah Crichton Books.

Si consiglia infine, soprattutto, di visitare il suo sito ufficiale (jonimitchell.com): alla sezione “Music” si trovano, organizzatissimi, tutti i brani con i testi, audio samples, note e commenti (spesso sono trascritte per intero le introduzioni ai brani tratte dalle esibizioni), accordature utilizzate e trascrizioni ad opera di più persone, e una ricchissima raccolta di articoli (quasi cinquemila).

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