(di Sergio Staffieri) – Cantò una volta Cohen: «It’s like our visit to the moon or to that other star / I guess you go for nothing if you really want to go that far». È questa forse la chiave di lettura del formidabile percorso di Cohen, maestro del perdersi e del girare apparentemente a vuoto, ma secondo un disegno preciso; introducendo “Chelsea Hotel No. 2” in concerto, negli anni ’80, disse «non ho un piano quinquennale», suscitando le risate e l’applauso del pubblico, per poi aggiungere: «…ma non significa che voi non dovreste averne uno».
Cohen apparteneva all’aristocrazia della musica popular, e c’è un modo di chiamare questa musica in francese che credo sia ancora più calzante per lui, ed è musiques actuelles. Ecco, la sua è davvero ‘musica attuale’ e presente: con una sua validità sempre vera per l’ascoltatore, sempre del momento e nel momento, che è quello a cui aspira ogni vero autore. Ricordò una volta Cohen di aver letto un’antologia di poeti cinesi «le cui canzoni venivano originariamente cantate dalle donne che lavavano i loro panni lungo il fiume», e quello era un modello che avrebbe voluto imitare – ci è riuscito senz’altro.
Impostosi giovane sulla scena letteraria con tre raccolte di poesie e due romanzi, espatriato in Inghilterra prima e nella ben più mite e accogliente Grecia poi, e da lì, con l’incoscienza e la naïveté sua propria, a New York con l’idea di diventare musicista, perché con la letteratura era difficile mettere insieme pranzo e cena, Cohen è stato l’emblema della ‘anti-star’ di successo malgré lui: sembrava già anziano negli anni ’60, eppure riuscì a conquistare tutti e mise a tacere il pubblico all’isola di Wight, raccolto in sua adorazione come non era stato per Jimi Hendrix e altri.
Cohen apparve sulla scena dalle parti del folk revival, fu accomunato a Dylan e Paul Simon e Joni Mitchell – e fu debitore come questi della splendida Judy Collins e del suo splendido vizio di registrare canzoni di nuovi e promettenti autori, e di imporli all’attenzione del pubblico – e usava la chitarra con corde in nylon, vicino in questo a Willie Nelson, ma allo stesso tempo aveva con tutti, in fondo, poco in comune: e non va tralasciata, direi, un’influenza, peraltro dichiarata: quella della chanson française (Piaf, Brel e gli altri) che – vale la pena ricordarlo – fu a suo tempo il frutto più bello, e non credo sia un caso, dell’opera di un altro ebreo errante per il Vecchio Mondo, quel Jacques Canetti fratello del grande Elias.
Cohen riuscì a convogliare, nella sua opera di una semplicità sempre ingannevole, più influenze e riferimenti musicali e culturali: la poesia di lingua inglese, il modernismo dei nordamericani, i libri dei Padri – quei libri sapienziali a cui sempre ci dice di tornare Harold Bloom – e i canti delle sinagoghe riemersi nell’ultimo album, ma non solo: quando il 21 ottobre 2011 ricevette il premio Príncipe de Asturias, ricordò nel suo discorso (“How I Got My Song”) quanto grande fosse il suo debito verso la terra di Spagna – usò proprio la parola soil – e quanto questa avesse nutrito la sua arte, rintracciando lì due fonti principali per la sua invenzione verbale e musicale: la poesia di Lorca – che, non dimentichiamo, fu il poeta ‘popolare’ per eccellenza, attivissimo nella riscoperta dei canti tradizionali spagnoli – e le poche lezioni di chitarra prese nella Montreal della sua giovinezza da un chitarrista spagnolo.
Ironizzava Cohen sull’esser sempre descritto come una persona capace di fare solo tre accordi, ma in realtà – ribatteva – ne conosceva «almeno cinque». Basta riascoltare la sua produzione per rendersi conto di quanto – sia nei primi album, forse più ‘canonici’ nell’ottica del folk revival, sia in quelli successivi dominati dalle tastiere – sotto un’apparente semplicità e ‘monotonia’ si nasconda una scelta di soluzioni armoniche mai scontate e sempre funzionali al supporto del testo cantato (ricordiamo di passaggio come la sua prima produzione abbia influenzato Joe Boyd: quando questi produsse Nick Drake, voleva ottenere il suono dei dischi di Cohen). Ha scritto Bob Johnston che la sua chitarra «suonava come una vedova nera», e se riascoltiamo i suoi brani sorretti dal tremolo è effettivamente così. Non è un caso che in passato, fra le tante reinterpretazioni della sua musica, ne sia stata offerta una prettamente flamenca da Enrique Morente e Nick Lagartija nell’album Omega (1996), dove Cohen era fianco a fianco con Lorca. Ma anche quando mise da parte la chitarra (queste le principali nell’arco di una vita: Conde, Ovation Classical 1613, Cordoba 55RCE, Godin Multiac ACS Nylon) in favore di tastiere e programmazioni, mantenne viva l’influenza di ‘altra musica’ grazie a melodie e armonie riconducibili all’Est ‘popolare’ europeo e non solo, e introducendo in studio e dal vivo ‘corde’ via via diverse come oud, laúd, bandurria. Nel 2011 suonava come un’ironica sintesi “Darkness” (in Old Ideas), dove il tremolo era calato in un contesto blues.
Oggi Cohen è conosciuto soprattutto per “Halleluja”, che ha trovato una sua forma definitiva nella versione di Jeff Buckley modellata su quella di John Cale, ed è utile, per capire la sua influenza, riascoltare le versioni dei suoi brani fatte da artisti di ogni estrazione (e lingua, come De André). Ma andiamo anche a riascoltare i suoi primi tre album e le registrazioni dal vivo, e troveremo altri capolavori a confermare quella sua dichiarazione, «tutte le mie canzoni hanno una chitarra alle spalle», e ci renderemo conto di come non sia affatto facile riprodurre all’inizio certi brani: ci si metta alla prova col tremolo di “The Stranger Song” e “Teachers” (Songs of Leonard Cohen, 1967), “The Partisan” e “Tonight Will Be Fine” (Songs from a Room, 1969), e poi “Avalanche”, “Love Calls You By Your Name” (Songs of Love and Hate, 1971).
Sono certo le tonalità minori e il tre quarti a caratterizzare questi album, ma la mano sicura di Cohen – si guardi l’impostazione della destra – sapeva cucire sempre, sulle sue canzoni, vesti pertinenti, mai semplicemente arpeggiate, e con particolarità armoniche: si riascolti la splendida “Suzanne”, o “Sisters of Mercy”, o “Hey That’s No Way to Say Goodbye” (che ha segnato i ricordi anche di Sting, come ricordava in Broken Music – e Sting fu interprete di una magnifica versione di “Sisters of Mercy” coi Chieftains), proseguendo poi con “Bird on a Wire” e “You Know Who I Am”, per arrivare a “Take This Longing”, “Who By Fire” e altre fra cui “Chelsea Hotel” nelle sue varie versioni, per riscoprire infine brani come “Ballad of the Absent Mare”, da quel capolavoro di equilibrio che è Recent Songs, 1979.
Aveva detto una volta, ai suoi inizi, «ci sono momenti in cui riesco ad assaporare la dolcezza della morte», e negli ultimi album l’afflato biblico s’era fatto diverso e i suoi testi sembravano usciti dal settimo capitolo del libro di Giobbe; nella sua ultima intervista aveva dichiarato di essere pronto a morire. Mai Cohen, nei limiti – fisici, temporali e spirituali – della vita terrena che ci è data, ha smesso di farsi forza di questi limiti fino a beffarsene, e mai ha smesso di cercare, ovunque, le sue figures of beauty.
Ci ha lasciato un maestro prezioso.
Sergio Staffieri