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L’Orchestra Popolare Italiana – Intervista ad Ambrogio Sparagna e Cristiano Califano

LA MUSICA POPOLARE È TORNATA AD ESSERE… POPOLARE

(di Fabio Marchei e Andrea Carpi) – Chiunque voglia conoscere la musica popolare italiana nell’accezione di tradizionale, folklorica, non può non trovare tra dischi, registrazioni, filmati, scritti o testimonianze, il nome di Ambrogio Sparagna. Contemporaneamente musicista e ricercatore, Ambrogio Sparagna nasce organettista ed è etnomusicologo, pluristrumentista, scrittore, produttore, arrangiatore, direttore di orchestra e – soprattutto – promotore di questo genere musicale che sempre di più appassiona un vasto pubblico, anche all’estero. Tra gli appuntamenti imprescindibili di Ambrogio Sparagna ci sono quelli che si svolgono quattro volte l’anno nel tempio della musica della capitale, l’Auditorium ‘Parco della Musica’, dove da una sua idea nasce l’Orchestra Popolare Italiana, che abbiamo ascoltato in occasione della decima edizione de La ChiaraStella, il concertone di Natale che da dieci anni si svolge nella Sala Sinopoli dell’Auditorium.

Orchestra Popolare Italiana

L’OPI, cosi è brevemente chiamata l’orchestra, è un organico sempre suscettibile di variazioni che comprende – oltre lo stesso Sparagna nella veste di strumentista, cantante e direttore – musicisti provenienti da varie regioni d’Italia, che si avvicendano sul palco secondo le esigenze e che possono raggiungere un organico di trenta o più elementi, compresi gli ospiti italiani e stranieri che partecipano e completano l’organico in base ai progetti proposti. Gli strumenti utilizzati, oltre alle voci, sono ciaramelle, zampogne, launeddas, marranzano, ghironda, percussioni, violino e violino a tromba, contrabbasso, mandolini e mandole, chitarra battente e chitarra classica, organetti. A fianco, o meglio, dietro l’orchestra popolare, canta il Coro popolare diretto da Annarita Colaianni, anch’esso variabile per numero. Visti gli interessi della nostra rivista, abbiamo intervistato, oltre ad Ambrogio Sparagna, anche il chitarrista partenopeo Cristiano Califano.

Ambrogio Sparagna - Orchestra Popolare Italiana

AMBROGIO SPARAGNA
Quali sono state le tappe, partendo dalle tue prime esperienze personali, che hanno portato alla creazione di questa importante realtà che è l’Orchestra Popolare Italiana?
Ho sempre pensato il ‘fare musica’, soprattutto quella popolare, come un fatto collettivo. Non è una musica che si possa fare da soli, non è un esercizio esclusivamente ‘retorico’, c’è bisogno di viverla come in una sorta di paese immaginario in cui suonare e cantare insieme. Non a caso il mio primo disco s’intitola Il paese con le ali [1986] e rappresenta proprio questa idea di un paese che simbolicamente accoglie, ti fa volare. È pur vero che il paese sembra una forma chiusa, come la musica popolare, che sembrerebbe una forma bloccata da regole, cerimonie, rituali. Ma non è così, se ci stai veramente dentro, c’è la possibilità di metterci le ali anche con quell’incoscienza tipica di quando sei giovane. Fin da ragazzo, fin dall’inizio, ho pensato a questa attività come a un’attività comune. E da qui è nata l’idea di formare l’orchestra di organetti, la Bosio Big Band, cento organetti che suonano insieme, cose folli! Poi via via l’orchestra di Giofà il servo del Re [1993], quella de La via dei Romei [1997], l’Orchestra Sparagnina, il Coro Popolare, i laboratori…

I laboratori come li hai impostati?
I laboratori sono sempre stati legati a un’attività di produzione di spettacoli, attraverso esperienze di musica d’insieme finalizzate a un obiettivo concreto. Ne ho realizzati tantissimi con i bambini, ne ho realizzati con persone disabili, per esempio con i sordi lavorando sui segni e i gesti, sempre con questa idea di ‘inclusione’, che nasce dal presupposto che l’esperienza della musica popolare è esclusivamente un’esperienza comunitaria. Tutto questo mi ha portato a impostare produzioni molto significative dal punto di vista qualitativo, ma anche quantitativo, com’è stata l’esperienza della grande orchestra de La Notte della Taranta [2005-2006], in cui si avvicendavano ottanta-novanta musicisti sul palco. Prima di allora quel festival era abbastanza confuso, io ne ho cambiato l’indirizzo attraverso la creazione di un repertorio che partisse dalle fonti originali, principalmente tratte dalle raccolte di Alan Lomax e Diego Carpitella, il mio maestro di etnomusicologia, o anche dalle raccolte di Leo Levi, con qualcosa dalle ricerche di Giovanna Marini e anche dalle mie ricerche. Partendo da quell’esperienza ho poi messo in piedi questo progetto formativo che è l’Orchestra Popolare Italiana. Fin dall’inizio l’ho impostata come si fa con le orchestre classiche, a sezioni specifiche, lavorando per esempio prima soltanto con gli organetti, poi solo con i tamburelli, quindi solo con gli strumenti a corda, e infine mettendo tutto quanto insieme, preparando in questo modo il terreno anche per gli ospiti solisti che negli anni si sono avvicendati, da Francesco De Gregori a Lucio Dalla o Franco Battiato, i quali trovavano tutto già pronto; una prova e tutto era a posto.

In che modo l’OPI si è legata all’Auditorium ‘Parco della Musica’ di Roma?
L’OPI è nata a marzo 2007 all’Auditorium, anche se in qualche modo era già nata alla Notte della Taranta, alla quale non ho più partecipato per varie questioni politiche, perché dicevano che c’era bisogno di dare discontinuità al mio progetto. Così parlai con Carlo Fuortes [amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma che gestisce l’Auditorium ‘Parco della Musica’] e ci accordammo per un concerto da tenersi il 6 luglio del 2007. Da quel concerto in poi abbiamo continuato sempre con lo stesso meccanismo, che è una caratteristica fondamentale di questa orchestra, ovvero un’orchestra che lavora ‘nella residenza’, ma con una variabilità dei protagonisti che vi collaborano.

Come sono stati gestiti tutti questi spettacoli, si è trattato di produzioni autonome o cos’altro?
Si è trattato sempre di commissioni. Per quanto riguarda in particolare l’OPI, il fatto fondamentale è che si tratta di un’orchestra che si ‘autoalimenta’. Mi spiego, non abbiamo fondi dal Ministero come hanno le orchestre lirico-sinfoniche, nessuno ci dà un euro. I nostri fondi sono il nostro pubblico, che ci vuole bene e ci sostiene con la partecipazione. L’Auditorium sostiene una parte delle spese, che sono quelle per l’organizzazione, per le prove, tutta la gestione strettamente logistica. Però, banalmente, i soldi per pagare i musicisti li recuperiamo dal botteghino, quindi tanti voli pindarici non si possono fare. All’inizio era diverso, Fuortes ha incentivato molto l’idea dell’orchestra, per cui abbiamo potuto chiamare molti compagni di viaggio, i già citati De Gregori, Battiato, Dalla e anche Ron, in tanti son venuti a trovarci per collaborare con noi. Però adesso il rapporto è determinato dalla possibilità che il progetto ha di stare economicamente in piedi, quindi che possa estere sostenuto direttamente dagli incassi. E siamo orgogliosi di essere, in assoluto, quelli che in dieci anni hanno venduto il maggior numero di biglietti: chi s’immaginava che avremmo superato i sessantamila biglietti? Per la musica popolare questa è una cosa importante.

Ambrogio Sparagna - Orchestra Popolare ItalianaPrima hai parlato di spettacoli con i bambini: erano progetti legati al mondo della scuola?
È stata la scuola a entrare nei progetti che abbiamo realizzato. La nostra è sempre stata un’attività ad adiuvandum, di sostegno. Non ho mai organizzato ‘saggi scolastici’, sono lontani dai miei princìpi. Invece ho sempre avuto l’ambizione che, attraverso l’esercizio e la pratica della musica collettiva, si potesse anche raggiungere un livello creativo importante; perché il saggio è una cosa, lo spettacolo e l’arte un’altra. Così ho realizzato spettacoli legati alla conoscenza del territorio, alle storie locali e all’agricoltura locale, per esempio sui cosiddetti ‘frutti dimenticati’, oppure lavorando sulle filastrocche. Mentre le maestre pensavano a un progetto didattico, con cartelloni o altro, io preparavo uno spettacolo, che fosse a Matera o a Ferentino o altrove, prendendo brani musicali dalle raccolte degli anni ’50 di Lomax, Carpitella e De Martino, e con un attento lavoro di mediazione le adattavamo alla vocalità dei bambini.

Hai lavorato molto sul territorio?
Abbiamo avuto un radicamento totale sul territorio, dappertutto, dal Nord al Sud. Ho lavorato in tante manifestazioni come il Ravenna Festival, Ravenna Jazz, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in tutto il Lazio. In Campania per esempio abbiamo realizzato con un gruppo di bambini di una difficile area portuale un progetto di attività corale, incentrato sulla tradizione del canto popolare natalizio, e lo abbiamo portato all’Auditorium di Roma. Aggiungo, per quanto riguarda le attività rivolte al mondo scolastico, che questi interventi sono sempre stati condivisi con gli insegnanti, rappresentando un supporto didattico utile anche a loro stessi per capire come lavorare sui temi della musica popolare. I programmi scolastici lo prevedono.

Degli interventi di aggiornamento insomma?
Sì, di aggiornamento, sempre con l’idea di prendere il materiale della tradizione locale e reinterpretarlo. Ho attuato in questo senso esperienze importanti con le orchestre giovanili, una per esempio a Orvieto con un’orchestra di ragazzi giovanissimi, grazie a un piccolo contributo da parte di quello che allora era chiamato Ministero della Gioventù. Per realizzare queste operazioni ho sempre organizzato delle audizioni, e a Orvieto tutti quelli che vi hanno partecipato mi hanno cantato “Il cielo d’Irlanda”, come se quella canzone fosse un paradigma della tradizione popolare italiana. Questo per evidenziare la scarsa conoscenza che spesso abbiamo riguardo alla nostra grande tradizione. Ecco, le attività dei laboratori sono sempre state per me fondamentali. E nell’Orchestra Popolare ho riversato tutte queste esperienze di tanti anni. Ciò che mi sembrava fondamentale era riconquistare quella dimensione della musica che avevamo tanto ambito negli anni ’70, cioè una musica che potesse veramente cambiare il mondo, una musica che avesse le ali…

Come funziona il reclutamento dei musicisti che entrano a far parte dell’orchestra?
Funziona ‘a progetto’: cioè, se devo realizzare un progetto dedicato al Natale, ho bisogno di aggiungere o potenziare un certo tipo di strumenti. Se si tratta invece di un progetto dedicato al repertorio di danza, occorre privilegiare altri strumenti. In questo modo riusciamo anche a fidelizzare le persone a seguire i nostri progetti, che sono progetti sempre originali. Per esempio, ora stiamo preparando per il primo maggio uno spettacolo il cui tema è legato ai canti d’acqua, di fiume e di mare, con una parte dedicata al Po e alla sua tradizione. In questo modo anche il coro canta repertori sempre nuovi. E anche il lavoro che porto avanti col coro è un lavoro fortemente ‘laboratoriale’: propongo ogni volta il mio racconto sul tema che stiamo affrontando, spiego le parti, e su quello si lavora.

Nelle tue diverse iniziative ti sei sempre avvalso della collaborazione di Erasmo Treglia, a sua volta musicista, etnomusicologo e componente dell’OPI, il quale ha sempre curato la dimensione manageriale e l’attività di produzione discografica, prima con la Sudnord Records, poi con Finisterre.
Sì, è un’etichetta che ancora esiste, lavora e porta avanti tante produzioni. E questo mi riporta alla questione della gestione delle nostre attività. Quando sono venuto a proporre l’OPI a Fuortes, all’Auditorium c’era già la Parco della Musica Jazz Orchestra, che aveva una ripartizione economica simile a quella di un’orchestra di tipo lirico-sinfonico: i musicisti erano tutti stipendiati per dodici o tredici mesi, e per l’Auditorium era una spesa di centinaia di milioni, una spesa improponibile per noi. Così ho detto: «Non è questo che voglio, voi mi dovete soltanto aiutare a finanziare il progetto: potete comprare il concerto a costo basso e tutto l’incasso è dell’Auditorium». Ora è diverso: mentre prima l’Auditorium comprava l’orchestra attraverso Finisterre, che figurava come produzione esecutiva dei progetti, e tratteneva tutto l’incasso, adesso – pur restando a Finisterre la produzione – l’Auditorium trattiene una quota dei biglietti e un’altra la gira a noi, altrimenti non sapremmo come stare in piedi. Quando andiamo in trasferta o all’estero, invece, formuliamo varie ipotesi di formazione, da quella più ampia a quella più ridotta.

Per esempio adesso siete stati in Turchia: le trasferte sono finanziate in anticipo?
In linea di massima no. Però, certamente, nel caso della Turchia non si poteva contare sul botteghino, era impossibile. In Italia invece è successo. Per esempio nella tournée con Francesco De Gregori, quella di Vola vola vola [2012], abbiamo realizzato grandi numeri: al Teatro Regio di Torino così come al Teatro degli Arcimboldi di Milano abbiamo avuto il tutto esaurito; parliamo di diverse migliaia di spettatori. Se c’è una cosa che possiamo dire è che, comunque, abbiamo creato un certo interesse da parte degli organizzatori. Per esempio gli organizzatori di Ravenna Festival, dove facciamo periodicamente attività, con noi non ci hanno mai rimesso.

In questi casi sono gli organizzatori a gestire?
Sì, loro gestiscono il botteghino, e alla fine vediamo. In alcuni casi entriamo in una sorta di compartecipazione: con Ravenna Festival collaboriamo da tempo e c’è un rapporto particolare. Comunque, noi tentiamo sempre la carta dell’autofinanziamento, un po’ come succede nella musica pop. Il funzionamento è simile a quello dei gruppi pop, con la differenza che costiamo meno e abbiamo meno esigenze dal punto di vista organizzativo: ci attrezziamo in maniera più semplice, se non c’è la singola va bene anche la doppia… sotto questo profilo abbiamo tagliato tutta una serie di costi.

Però siete numerosi.
Ma facciamo anche tante esibizioni, tra i sessanta e gli ottanta concerti l’anno.

Dicevi che l’orchestra a volte si presenta in formazioni ridotte.
Sì, andiamo anche in sei, otto o dodici. Per esempio in Turchia siamo partiti in otto, ma mentre ad Ankara eravamo in formazione completa, a Istanbul eravamo solo in due. In questo dobbiamo essere un po’ elastici, in relazione alle esigenze. In Turchia, poi, come già in altri paesi oltre che in Italia, abbiamo notato una grandissima attenzione verso questa musica, verso queste tematiche, soprattutto da parte delle nuove generazioni. Ci sono tantissimi giovani che suonano. In Italia oggi ci sono più suonatori di zampogna che di viola, e parliamo di decine di migliaia di suonatori…

Di questo si parla pochissimo.
Se ne parla poco, però in questo caso il mondo dei social ha modificato il modo di comunicare e questo ci ha favorito. Per esempio, all’ultimo spettacolo che abbiamo fatto qui all’Auditorium il 5 febbraio, La tarantella del Carnevale, erano tutti allibiti per il numero dei presenti. C’era tantissima gente, grazie anche alla rete. Sono i social ad aver prodotto tutto questo effetto che si è creato intorno, tutta questa curiosità: l’idea di venire a ballare la tarantella per Carnevale ha prodotto un corto circuito, e questo è un esempio di ciò che sta succedendo in tutta Italia. Sono tutti ragazzi quelli che si interessano a queste cose. Al Carnevale di Montemarano, negli anni ’70, i gruppi che suonavano in piazza, le famose paranze, erano tre o quattro; adesso ce ne sono almeno sessanta. Mi sono occupato per tanti anni anche del “Miserere” di Sessa Aurunca: la prima volta che ho documentato l’avvenimento c’erano solo tre cantori, adesso ci sono almeno trenta trii accreditati, e Sessa Aurunca è un piccolo paese. Questo indica il livello di attenzione intorno a questo tipo di fenomeni. Si è venuta anche a creare una varietà di interpreti che, ovviamente, devono pure essere ‘sorvegliati’: in questo caso il nostro ruolo è quello di mettere dei paletti dal punto di vista stilistico, altrimenti si crea confusione.
Nell’affrontare o rielaborare questi repertori, in particolare nell’orchestra, una questione essenziale è il rapporto con la modalità o con le scale naturali; perché il temperamento dell’organetto non è lo stesso delle zampogne o delle ciaramelle, che utilizzano normalmente intervalli di scale naturali, per esempio la terza che non è né maggiore né minore. Quindi devi trovare una mediazione: non puoi mettere dentro di tutto senza conoscere le regole. Bisogna mantenere certi parametri relativi alle scale degli strumenti: una zampogna, una chitarra battente, una lira, devono avere la loro collocazione. Poi posso anche inventarmi qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, ma devo ‘attrezzare’ gli strumenti. Per esempio abbiamo svolto un lavoro sulle zampogne secondo me importantissimo: con noi le zampogne lavorano in polimodalità, attraverso l’uso di variare il bordone in relazione alle canne melodiche. In questo modo la sezione delle zampogne è in grado di realizzare tre linee polifoniche in simultanea. E così quello che era in passato il limite di una costante alternanza di tonica e dominante può essere superato, ma senza per questo commettere errori riguardo ai sistemi musicali.
Un altro esempio: sono stato rigoroso nel modificare l’organetto mantenendo quella che è la regola del diatonismo. Non mi sono inventato organetti a tre file, a otto file, dove ciascuno possiede un prototipo ma nessuno può suonare con gli altri. Su questo sono stato e continuo a essere rigorosissimo: l’organetto deve essere a due file. Pur essendo stato il primo in Italia ad usare l’organetto a tre file, però – nel momento in cui fai didattica o eserciti un’attività dove questa musica va trasmessa correttamente – devi essere in grado di lavorare con quelle che sono le caratteristiche dello strumento. Nell’ambito del nostro organico, l’organetto è come il pianoforte, su cui si regge un po’ tutto. Però l’ho ‘destabilizzato’. L’organetto funziona in modo che, aprendo o chiudendo il mantice, si ottengono due suoni diversi. Sulla tastiera dei bassi per la mano sinistra, si trovano coppie di bottoni: il primo dà il basso fondamentale e l’altro l’accordo, normalmente la triade maggiore. Se da quest’ultimo bottone tolgo il terzo grado dell’accordo, ottengo un bicordo di quinta; questo bicordo lo puoi completare aggiungendo note con la mano destra, per ottenere accordi maggiori e minori. Tutti i miei organetti hanno questa caratteristica, è stato un esperimento realizzato con i costruttori. E in questa maniera ottieni una buona varietà d’accordi, però lavorando sempre in una dimensione diatonica. Non ha senso trasformare l’organetto in una fisarmonica. L’organetto ha le sue diteggiature, le sue tecniche.

Questa trasformazione facilita il rapporto con la modalità?
Così posso lavorare su dei modi, posso lavorare in polimodalità, però mantenendo quello che è l’impianto di base. Tranne casi molto particolari, con l’organetto non posso ‘risolvere’, ovvero modulare da una tonalità a un’altra, per esempio con gli accordi di settima o altri passaggi modulanti che si usano in altri contesti; e come spesso succede anche nella forma canzone, per cui – se necessario – nell’orchestra mi devo ‘appoggiare’ agli altri strumenti. I miei punti di riferimento, nei fraseggi strumentali, sono il ’700, la musica barocca.

A metà strada tra il modale e il tonale…
Esatto. Poi adesso abbiamo creato anche un organetto che ha due tonalità in uno, semplicemente per ridurre la strumentazione nel corso degli spostamenti in aereo o altro. Questo strumento ha un registro, che se lo alzi suona in Sol, altrimenti suona in Re, come fossero due organetti separati. Volendo puoi suonare alcuni accordi in una tonalità e altri nell’altra, però sempre mantenendo il discorso della diatonia.

Hai parlato di rielaborazione: come dobbiamo intenderla tra materiale originale della tradizione, arrangiamento e composizione?
È tutto l’insieme, non c’è una separazione netta tra i vari aspetti. Innanzitutto ai testi non apporto alcuna variante, resto dentro un sistema che è sempre stato molto rigoroso, perché i testi sono organizzati secondo regole metriche. Occorre privilegiare la parola cantata all’accompagnamento, perché quello che comanda nella musica popolare è la parola. Non mi sono mai piaciuti quelli che, dopo di me, sono andati alla Notte della Taranta proponendo un’elaborazione dei canti popolari che prescindeva totalmente da ciò che si cantava. Su questo rivendico un lavoro di assoluta attenzione, attraverso lo studio delle grandi raccolte di poesie e canti popolari che si sono sviluppate in Italia a partire dall’800, grazie all’opera di studiosi e filologi come Costantino Nigra, Ermolao Rubieri, Alessandro D’Ancona. Una caratteristica molto importante rilevata da questi studiosi è l’esistenza in Italia, dal Nord fino al Sud, di straordinari patrimoni condivisi, che quindi permettono di parlare di una poesia e di una musica popolare italiana. E questo patrimonio condiviso altro non è che una trasposizione della grande poesia d’arte, da San Francesco a Cielo d’Alcamo, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, San Filippo Neri, Torquato Tasso, che si è addensata nella forma e nella tradizione popolare. Io mi limito a prendere gli spunti da quei mondi, da quelle linee melodiche, e attraverso il metro e il ritmo della parola costruisco delle elaborazioni, inventando o riprendendo dei temi popolari che conosco, o che ‘stanno’ su quelle parole. Che i canti popolari possano essere considerati solo come un generico suono, questo in realtà lo può decidere la poesia contemporanea, la musica astratta o – come si dice – la musica a programma, ma certamente non chi si occupa dell’elaborazione dei canti popolari.
Un altro aspetto fondamentale è l’uso del dialetto. Con l’orchestra noi lavoriamo su tutti i dialetti: se lavori sul siciliano, che è pieno di vocali, devi lavorare in una maniera; se lavori su una lingua del Nord è diverso. Tuttavia ci sono dei modelli poetici letterari che sono comuni a tutte le tradizioni italiane, dal Nord al Sud. Per esempio la ballata settentrionale “Donna lombarda”, nella versione di Spongano in provincia di Lecce, è diventata “Donna lubarda”, però il motivo poetico è lo stesso. Si tratta di motivi letterari che nacquero con la poesia cortese ed ebbero grande diffusione attraverso il fenomeno dei fogli volanti, grazie alla nascita della stampa. Così, se vai a Palermo, trovi la storia del Guerin meschino pure se legata all’area dell’Appennino marchigiano. Anche i temi de “La fontanella” o de “La bevanda sonnifera”, presenti nelle grandi ballate piemontesi, li trovi un po’ dappertutto. Certamente il Nigra ne restituisce la classificazione di riferimento, ma se io pensassi al Nigra come fatto esclusivo, sarei un pessimo studioso. Se vado a vedere le raccolte di Eugenio e Alberto Mario Cirese sui canti del Reatino, e le confronto con quelle di D’Ancona o di Luigi Molinari del Chiaro su Napoli, trovo dei prototipi comuni. Per esempio l’immagine “Apro la finestra e vedo…” è un prototipo: che la si racconti in siculo o in salentino o in genovese, dove c’è un tema di mare questa immagine è presente.

Dal punto di vista musicale, qual è il tuo approccio all’arrangiamento?
Dal momento si arrangia con determinati strumenti, sono loro che comandano. Io per esempio mi do come parametro un brano di Ravel per voce e pianoforte: è chiaro che lui dava una dimensione e una specificità tipica del pianoforte. Ora, se il mio pianoforte è l’organetto, è ovvio che l’arrangiamento nasce da lì. Così come il pianoforte nella musica classica, l’organetto lo leggo come strumento guida di tutto il nostro lavoro: in tutte le culture dove questo strumento è arrivato, è diventato lo strumento guida per questo tipo di musica, mettendo d’accordo la tradizione con la contemporaneità.

Ascoltando la struttura delle canzoni nei tuoi concerti, si nota che – un po’ come nel genere swing, per esempio – la parte strumentale ricalca esattamente la struttura, ovvero l’armonia e il numero delle battute, della strofa e del ritornello.
È una bellissima osservazione. E la spiegazione risiede nel fatto che la parola, come dicevo prima, è l’elemento determinante. In queste operazioni cerco sempre di mantenere il fattore melodico della parola come guida. Anche le poche variazioni che si possono eseguire negli interventi strumentali, non vanno mai a stravolgere la durata della parte letteraria. Nella tradizione popolare è sempre stato così, non mi sono inventato nulla. Se prendi anche il repertorio liturgico, l’interludio strumentale era necessario, per esempio nel “Benedictus”. Nei rituali di qualsiasi evento non puoi limitarti alla parola, perché il coro deve avere il suo respiro, e in quel caso l’organo ripete in maniera quasi speculare – con le dovute variazioni, respiri e tensione – la parte cantata. Anch’io, nelle mie elaborazioni, resto dentro un contesto organizzato. Se in questo tipo di musica, come si faceva nel progressive rock, aggiungi un assolo, non funziona. Invece le zampogne o le ciaramelle possono dare un carattere di movimento, possono eseguire piccole variazioni come si fa nell’orchestra d’archi con i tappeti, oppure possono realizzare un’esplosione di suoni: se lavori con quattro zampogne e quattro ciaramelle, hai dodici canne melodiche che suonano, non è poco, è come fosse un organo portativo. Per questo non serve l’assolo, perché anche lo strumento solista deve rientrare nell’idea che è tutto il paese che canta, che è tutto dentro una tavolozza colorata. Io elaboro canti popolari, e scrivo anche melodie nuove, ma resto sempre dentro una regola. Non è che faccio quattro misure di canto e otto misure di linea melodica nuova. In questo ho trovato un equilibrio, una mia linea che rivendico come filologicamente legata alla tradizione. E non sono elaborazioni fatte a tavolino, è tutto dentro un meccanismo determinato in maniera chiara ed esplicita.

Sparagna - StoriesRecentemente hai pubblicato Stories (1986-2016), la tua prima antologia musicale, che celebra i tuoi primi quarant’anni di musica.
Sì, si parte dall’86, e vi sono raccontate tutte le collaborazioni che ho portato avanti negli anni, i vari tipi di orchestra, i cori, le registrazioni storiche. Sono trentuno brani raccolti in due CD, dove si trovano anche pezzi inediti. A conferma di quello che dicevamo prima, vi è in particolare un’elaborazione di “Stelutis alpinis” realizzata insieme a Francesco De Gregori: a parte le elborazioni della parte strumentale e della parte corale, il testo è stato tradotto dal friulano all’italiano. Però rimane un canto popolare a tutti gli effetti, perché non è stata cambiata la natura formale del brano. Del resto non puoi prendere un pezzo e ripeterlo pedissequamente, questa cosa non ha mai funzionato. Ogni brano necessita di essere elaborato, perché l’elaborazione è intrinseca alla pratica musicale, altrimenti tutto muore. Tanto per fare un esempio, non è che possiamo pensare di cantare come cantavano i minatori, che vivevano in una condizione esistenziale molto particolare. Non abbiamo quella vocalità…

Si tratta insomma di creare musica all’interno dello ‘stampo fonico-ritmico’ della tradizione…
Esatto, e io non sono uscito da quella fonosfera. Se possibile cerco di arricchirla, magari con le pietre sonore, i campanacci, le zampogne melodiche, le lire, ma non ho assolutamente alterato la grammatica, lo stampo di quel materiale. E per concludere, pur riconoscendo il fatto che certamente mi vengono meglio le cose più vicine alla mia regione, cioè il basso Lazio e l’area centro-meridionale, vorrei aggiungere che credo di essere uno che cerca di tramandare la tradizione popolare italiana, lo stile del canto popolare italiano nel suo complesso. È lo strumento che suono che mi obbliga a far questo, è il mio ruolo, la mia storia, non esclusivamente ristretta in ambito regionale, ma estesa a tutta l’Italia.

CRISTIANO CALIFANO
Cristiano, qual è stato il tuo percorso personale di formazione musicale?
La primissima chitarra me l’hanno regalata i miei genitori, ma era in pratica un giocattolo. In seguito una vicina di casa di mia zia me ne ha regalata una ‘vera’, e ho iniziato a studiare su quei corsi in fascicoli con audiocassetta che si vendevano al tempo.

Cristiano Califano - Orchestra Popolare Italiana

All’epoca quali erano i tuoi gusti musicali?
Francesco De Gregori, Edoardo Bennato, i cantautori… Quando ho cominciato a suonare da autodidatta, credevo che la chitarra avesse solo un ruolo di semplice accompagnamento, come l’ascoltavo nelle canzoni dei cantautori. Sono andato avanti così per circa tre anni, prima di scoprire che esisteva anche un repertorio classico cui mi sono appassionato così tanto, che ho deciso di prendere lezioni. Il mio primo e pressoché unico maestro è stato Eduardo Caliendo.

Quanti anni avevi?
La prima lezione risale al 30 ottobre 1986: ho iniziato il giorno del mio tredicesimo compleanno! Caliendo, intorno agli anni ’70, è stato un punto di riferimento per la chitarra a Napoli, e forse in tutta Italia. È stato il chitarrista di Roberto Murolo, con cui ha registrato la famosa antologia della canzone napoletana [Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea, 12 voll., Durium, 1963-1965]. Inoltre è stato il maestro di Eugenio e Edoardo Bennato, Patrizio Trampetti, Corrado Sfogli, ed era anche amico di Roberto De Simone. In quegli anni, se qualcuno doveva fare ricerche sulla canzone napoletana, andava da Caliendo. Mi ha introdotto lui in questo mondo musicale di Napoli, che oltretutto è la mia città e rappresenta la mia cultura. Grazie al mio maestro, ho conosciuto tante persone che sono state, anch’esse, fondamentali per il mio percorso di crescita musicale e professionale.

Quindi hai studiato da privatista?
Sì, ma ho sostenuto regolarmente gli esami al conservatorio. Purtroppo nel ’93, quando è mancato il maestro, avevo solo il diploma del quinto anno e stavo preparando il diploma dell’ottavo. Quindi, avendo perso la mia guida, ho deciso di chiudere in due anni il conservatorio e mi sono diplomato nel ’95. Dopo il diploma facevo ogni tanto dei concerti di musica classica. In quell’ambito ho conosciuto un altro chitarrista classico, Aniello Desiderio, un chitarrista di fama internazionale, con cui ho proseguito gli studi per altri tre anni. Desiderio mi ha invogliato a fare concerti classici, ma quellla carriera, a livello di studio, è estremamente difficile e rigorosa. Inoltre stavo già muovendomi anche in altri ambiti musicali, dove le occasioni per suonare erano più numerose, così ho iniziato ad ampliare i miei orizzonti. Ho avuto anche una band di musica West Coast, con cui suonavo Eagles, America e James Taylor. A quei tempi ero un ragazzo, giravamo per locali, facevamo parecchie serate e avevamo anche un discreto seguito. Così ho iniziato a prendere confidenza col palco. Suonando anche in altri contesti, un amico batterista che stava lavorando con Carlo Faiello, un musicista della Nuova Compagnia di Canto Popolare, mi disse che cercavano qualcuno che suonasse la tammorra. Ho voluto provarci, ma al provino Faiello mi ha chiesto quale fosse il mio vero strumento: presa in mano la chitarra… sono stato ‘assunto’ come chitarrista. In quell’ambito è stato pubblicato anche un disco di Faiello che s’intitola Le danze di Dioniso [2001]. E questi sono stati i primi passi nell’ambito della musica folk.
Un altro contatto importante è stato Mauro Di Domenico, chitarrista di Massimo Ranieri per vent’anni e – guarda caso – allievo di Caliendo. Ha suonato anche con Eugenio Bennato e Musicanova, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare e con gli Inti-Illimani. Lui mi ha introdotto nel mondo della musica sudamericana, soprattutto quella cilena, rendendomi partecipe dei suoi progetti; uno in particolare, Nati in riva al mondo [CD+DVD, 2004], incentrato sul periodo della dittatura di Pinochet. È stato grazie alla collaborazione con Di Domenico che ho fatto i primi concerti importanti e conosciuto anche ospiti di rilievo come Mauro Pagani, Angel Parra il figlio di Violeta, Horacio Duran degli Inti-Illimani e Luis Sepúlveda.
Alla fine di quel periodo sono iniziate ad arrivare sempre più proposte lavorative. Ma il contatto che ha sancito la mia permanenza nella musica popolare – sempre fortuito e sempre grazie a Caliendo, anche dopo che se n’era andato – è stato quello con Eugenio Bennato, che mi ha chiamato un giorno per sostituire il suo chitarrista, in vista di alcuni concerti in Australia. Bennato mi prestò per l’occasione la sua chitarra, una chitarra battente che fino ad allora non avevo mai praticato, e mi ci trovai bene. Così, a seguito di questa esperienza ne comprai una e – pian piano – sono entrato sempre più in questo universo della musica popolare.
Tutte le occasioni di lavoro che ho avuto sono nate, oltre che grazie alla conoscenza di qualcuno, in maniera del tutto casuale, così come casuale è stata la scelta degli strumenti che ho comprato e suono tuttora, come la chitarra battente che ho suonato con Bennato, o il bouzouki che ho comprato per andare in tour con Massimo Ranieri. Sempre grazie a Mauro Di Domenico, infatti, nel 2003 ho fatto con Ranieri le due tournée teatrali del Pulcinella con la regia di Maurizio Scaparro e dell’album Nun è acqua con Massimo Ranieri. Per quest’occasione ho dovuto comprare e suonare il bouzouki, per sostituire Mauro Pagani che lo aveva registrato nei relativi dischi.
Dal 1999 al 2003 circa ho suonato con un gruppo di Napoli che si chiamava Pietra Arsa, facevamo musica popolare rivisitata in stile world music; con loro ho suonato chitarra classica, chitarra battente e bouzouki.

Veniamo ai giorni nostri, come sei arrivato ad Ambrogio Sparagna?
Il nostro è un mondo di contatti, nessuno ti chiama per chiara fama, e per un altro caso fortuito ho conosciuto Raffaello Simeoni, con cui ho iniziato a suonare. Raffaello spesso era ospite negli spettacoli di Ambrogio e, ogni qual volta se ne presentava l’occasione, gli ricordavo di sondare il terreno circa una mia auspicata collaborazione con Sparagna in qualità di chitarrista. Ambrogio ai tempi stava organizzando qui all’Auditorium uno spettacolo per la rassegna Contemporanea, più precisamente si trattava di allestire alcune composizioni di Marco Betta, Riccardo Vaglini e Fabrizio de Rossi Re, scritte per un ensemble popolare ma con partiture classiche, e aveva bisogno di un chitarrista battente che però sapesse leggere anche la musica. Raffello mi ha proposto, andò tutto bene, così dopo quell’occasione Ambrogio mi ha chiesto se volevo entrare a far parte del gruppo in pianta stabile. Da lì è partita la nostra collaborazione che tutt’ora va avanti, era il 2008.

Quindi più o meno contemporaneamente alla nascita dell’Orchestra Popolare Italiana?
Circa uno-due anni più tardi.

Cristiano Califano - Orchestra Popolare Italiana

Che lavoro ti sei trovato a svolgere per inserire la chitarra in un contesto come l’OPI, che è complesso sia per la sua dimensione orchestrale, sia per il suo riferimento alla tradizione italiana, in cui la chitarra non ha in fin dei conti una collocazione particolarmente definita, né ha conosciuto sviluppi particolarmente interessanti nell’ambito del folk revival?
Rispetto agli anni ’60-’70, quindi all’epoca della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con l’OPI ci troviamo in un ambito un po’ diverso. Riguardo al lavoro che mi sono trovato a svolgere, il percorso è stato abbastanza naturale: venendo da esperienze differenti, non ho fatto altro che prendere la mia tecnica e le mie conoscenze e inserirle nel contesto della musica popolare. Peraltro la gran parte delle musiche scelte da Ambrogio sono originali, mentre i testi sono tratti dalla tradizione popolare, e anche nel caso di brani tradizionali non faccio altro che mettere del mio negli arrangiamenti. In sostanza, non ho fatto particolari ricerche. Certamente, ci sono delle cose che ho trascritto, tarantelle o altro, ma fondamentalmente ho ascoltato molta musica popolare, anche partecipando a concerti. E ho cercato di capire in che modo suonare determinate cose, come la tammurriata, che generalmente non ha un accompagnamento armonico della chitarra, cercando nella fattispecie di riportare nell’accompagnamento della chitarra il ritmo della tammorra con la medesima figurazione ritmica; insomma, uno studio che ho fatto di volta in volta secondo i brani da affrontare. La chitarra classica effettivamente è uno strumento lontano da questo mondo, ma ho cercato sempre la chiave per inserirla nel contesto. Ben diverso è l’utilizzo della chitarra battente che tradizionalmente è molto legato alla musica popolare, per esempio quella di Carpino, della Calabria, dell’area cilentana della Campania. Ho capito alcune cose osservando gli anziani suonare la chitarra battente in ambito popolare, e ho cercato di imitarli, ma mai rinunciando all’utilizzo dello strumento in maniera diversa, per esempio arpeggiando. Queste sono tecniche sviluppate già da altri: uno di questi è Marcello Vitale, che lo fa da anni. Per suonare musica popolare si possono utilizzare gli strumenti anche in maniera diversa e non necessariamente nel modo in cui quella musica era stata concepita. Non è necessario riprodurre fedelmente gli arrangiamenti originali, ma si possono proporre i brani in maniera diversa, con varie forme di contaminazione. Nel mio caso, ripeto, è stato un processo naturale, anche perché il mio background è tutt’altro: non venendo direttamente dal mondo della musica popolare, mi viene istintivo cambiare delle cose, adattarle a me.

Ambrogio Sparagna ti lascia un po’ libero negli arrangiamenti di chitarra?
Tendenzialmente sì, a volte qualche suggerimento, battute di scambio su come arrangiare i brani.

Ricordo la tua introduzione sul brano “Tinte”, tratto dalla poesia di Trilussa che parlava della fuga del topo dai gatti, e che hai suonata all’Ottobrata romana del 2015: ricordava lo stile di “Asturias” di Albéniz e rendeva esattamente l’idea della fuga.
Esatto. In verità negli anni ho messo insieme un modo di suonare la chitarra che viene molto dalla chitarra classica, con l’uso dei bassi, degli arpeggi, anche con le posizioni aperte. In sostanza ho portato la chitarra classica in un ambito dove invece ha un ruolo prevalentemente ritmico.

Oltre l’Orchestra Popolare, come occupi le tue giornate lavorative?
Insegno chitarra classica in una scuola media a indirizzo musicale a Roma. Da un po’ di tempo lavoro con un coro di Rimini, con cui abbiamo portato in scena un’opera per chitarra classica e coro, il “Romancero gitano” di Mario Castelnuovo-Tedesco con liriche di Federico Garcia Lorca. Castelnuovo-Tedesco è un compositore italiano della prima metà del ’900, emigrato in America, che è stato anche maestro di Henry Mancini e autore di colonne sonore di numerosi film; un compositore di riferimento molto importante per la chitarra classica. Questa operazione è diventata una sorta di ‘concerto spettacolo’ su García Lorca, in cui oltre alla musica si trovano testi recitati. Suono anche con Raffaello Simeoni, con cui lavoro da dodici anni spesso anche in trio con Arnaldo Vacca alle percussioni. Suoniamo canzoni di Raffaello scritte in dialetto reatino; non si tratta di musica popolare, ma di cantautorato vero e proprio, con un occhio rivolto alla tradizione popolare anche di altre etnie. Collaboro anche con la cantante Eleonora Bordonaro [un’ospite fissa dell’OPI] e con Yasemin Sannino, una cantante turca con cui interpretiamo un repertorio tradizionale turco.
Il resto del tempo, più che allo studio della tecnica chitarristica, delle scale e quant’altro, lo dedico alla parte compositiva e alla ricerca di nuovi arrangiamenti, da cui sono estremamente affascinato. In sostanza la musica occupa la mia vita ventiquattr’ore al giorno, se non altro col pensiero. Ho un progetto a lungo termine con un mio amico chitarrista acustico e jazzista di Napoli, che si chiama Alberto Falco. Ogni qual volta ci vediamo, iniziamo a improvvisare liberamente: negli anni abbiamo raccolto diversi brani, scritti a quattro mani ma anche singolarmente, alcuni suoi e altri miei; un lavoro a metà tra la musica classica e il jazz, che speriamo vedrà la luce prima o poi.

Usi accordature aperte?
Non ne utilizzo molte. Qualche volta abbasso la sesta corda a Re per avere un basso più profondo; essendo un chitarrista che accompagna soprattutto le voci, lavoro molto sull’accompagnamento e sulla parte armonica, quindi sull’utilizzo dei bassi. Con il bouzouki adopero l’accordatura La Re La Re, che poi è quella che ho utilizzato anche negli spettacoli con Ranieri, a sua volta utilizzata da Mauro Pagani; in questo caso ho dovuto ovviamente imparare una diteggiatura nuova. Adopero raramente il capotasto, solo in caso di bisogno di un effetto più squillante, oppure nel caso in cui occorrano alcune corde a vuoto che l’accordatura standard non mi permette. Non mi piace utilizzarlo, perché sono abituato a pensare la tonalità in cui sto suonando; il capotasto di conseguenza me la falsa.

Il tuo suono?
Sono ancora alla ricerca della mia chitarra classica elettrificata ideale. Tra le varie che ho provato non ne ho ancora trovata una che mi soddisfi appieno, ovvero che sia funzionale al palco, quindi ai problemi di Larsen, e nel contempo abbia un suono più simile possibile a quello naturale. Sembra che tutte abbiano un po’ quel suono ‘plasticoso’ del piezo.

Dopo quest’intervista avrai una coda di liutai… Nel frattempo ti lascio con una curiosità finale: hai rapporti con la steel guitar o l’elettrica?
L’acustica la suono spesso, ma l’elettrica l’ho suonata quasi esclusivamente con Ranieri. Non mi ritengo un chitarrista elettrico, questo strumento prevede una ricerca di suoni con effetti, amplificatori… Tra gli strumenti particolari, ho suonato anche il cuatro e l’oud. In verità, ho avuto un periodo in cui collezionavo strumenti, sempre a corda, perché avevo in mente un progetto di musica erroneamente detta ‘etnica’, che è durato quattro o cinque anni: ho scritto dei brani sul tema dell’immigrazione, quindi sulla differenza tra le varie etnie, ma che aveva come sfondo Napoli come città che accoglie e dove confluiscono moltissime culture. Erano brani in cui suonavo di tutto, e volevo farne disco che era praticamente quasi finito. Ma il problema era che quel progetto richiedeva la presenza di molti, troppi musicisti per essere rappresentato dal vivo. E, soprattutto, è rimasto nel computer troppi anni e credo che quindi resterà lì…

Fabio Marchei
Andrea Carpi

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