(di Reno Brandoni / foto di Paolo Pinello) – Se un amico ti invita a una serata di beneficenza, accetti l’invito ma ti presenti nel luogo dell’evento convinto di dover vivere una serata, una di quelle piene di buoni propositi, dove la musica è un pretesto per raccogliere fondi, dove tutti sono gentili e cortesi e ogni banalità accettata senza riserva. Mi ricorda le recite scolastiche, emozionanti e noiosissime ore di esibizioni stentate, dove l’applauso dei familiari copre il disagio degli ‘estranei’, che si scalmaneranno durante l’esibizione del proprio ‘protetto’. So che è un quadro mortificante, ma è profondamente sincero, determinato da una miriade di inviti e partecipazioni che ho accolto sempre volentieri, ma che spesso nascondevano tracce di protagonismo mal celate.
Se l’invito ti arriva da un amico che vive a più di trecento chilometri da casa tua e l’evento ti costringerà a passare anche una notte fuori casa, ecco che la perplessità ti assale: vorresti trovare una ragione o una scusa per non esserci, ma sempre prevale il sentimento, l’amicizia, il rispetto, il desiderio di una stretta di mano o di un abbraccio, che al di fuori dello spettacolo continuano ad avere primaria importanza. È l’occasione anche per salutare qualche amico di vecchia data, per cui vince l’istinto e la passione. La valigia, d’altra parte, è sempre pronta aspettando la sua prossima missione…
Così arriva sabato sera, è il 13 dicembre e sono le 21. La locandina recita: «Musica in movimento, concerto a sostegno del progetto ambulatorio Butembo, in Congo, organizzato dalla AGT (Associazione Giacomo Tavernese) con Beppe Gambetta, Giovanni Imparato, World Spirit Orchestra e Stefano Tavernese».
Tralascio volutamente il coinvolgimento emotivo e l’abbraccio nascosto nel mio cuore per Alessandra e Stefano Tavernese, che con il loro amore e la loro forza hanno realizzato questo evento; fa parte della sfera personale e non mi va di condividerlo.
Parliamo dello spettacolo.
Quella che si preannunciava una festa ‘tra amici’ appare subito un evento di portata diversa: non ci troviamo nel solito pub ‘accondiscendente’, alla ricerca di qualche cliente in più, ma siamo all’interno dell’Auditorium dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, struttura bellissima, che preannuncia qualcosa a cui sinceramente non ero preparato. La visione di ‘Lallo’ Costa dietro il banco di regia mi fa subito capire che il suono sarà all’altezza del luogo, e già la curiosità si fa spazio tra la perplessità e la stanchezza del viaggio. Mi si accende un baleno di entusiasmo.
Inizia la carrellata di amici: prima Stefano e Beppe, poi il nostro Carpi, Gabriele Longo, Giovanni Palombo, Luigi Grechi, tutti compiaciuti dal luogo a dalla incredibile affluenza di pubblico. Siamo abituati a eventi dove cinquanta persone rappresentano una ‘sentita’ partecipazione, vedere un teatro di questa portata esaurito, fa un certo effetto.
Si spengono le luci e inizia la musica. Ecco i due amici sul palco, Beppe e Stefano entrano in scena, silenziosi ed evidentemente emozionati.


L’esordio è strabiliante: Stefano al violino ti dà il suo benvenuto e lo strumento accompagna la sua emozione, la descrive, lo accarezza regalandoci un uomo, un amico che sta suonando come mai l’ho sentito fare. Conosco Stefano da più di quarant’anni e ho sempre avuto la visione – forse è stata solo una sensazione – di un uomo riservato, inespugnabile; ora invece questo distacco si colma: si accende una luce che lo circonda e lui toglie le mani dallo strumento e inizia a suonare col cuore. Ho cercato di immaginare i suoi pensieri e i suoi sentimenti in quel preciso istante, all’attacco della prima nota. Ma ho desistito per paura di perdermi. Le note di Beppe hanno riscaldato la preghiera e permesso a tutti noi di entrare nel silenzio di Stefano, accompagnarlo con lo stesso affetto che le sei corde di Gambetta avevano aggiunto al suo monologo.

Così sono iniziate le emozioni e non si sono più spente.
Il duetto è proseguito per qualche brano permettendo a Stefano di cambiare strumento, ora il mandolino e poi il dobro, quindi ancora l’ukulele e la steel guitar. Tutti suonati con magica, coinvolgente perizia.
E dopo qualche brano, quando ormai era tempo di una nuova emozione, ecco dal fondo del teatro, è proprio il caso di dirlo, un rullo di tamburi.

L’ingresso di Giovanni Imparato aggiunge ritmo a ogni nota, la sua simpatia riempe il palco di gioia e spensieratezza. Il concerto cresce in coinvolgimento e non posso fare a meno di notare che i piedi del pubblico non sono più fermi, ma danzano al ritmo della musica. Oltre le note ecco inaspettata la voce di Stefano, tribale, etnica: si muove modulando suoni orientaleggianti, gli risponde lo stesso Imparato che sfida vocalmente Tavernese regalando un duetto da brivido. Volete proprio farci commuovere? Si piange e si ride, e gli occhi luccicano vittime di un coinvolgimento da cui non possono difendersi.
Ritorna il silenzio, pensiamo sia finita, ma la musica e la voce di Stefano si riaccendono ancora più profonde. Non rimangono sole a lungo, qualche nota di piano arriva da lontano, un’altra pennellata di colore che stupisce e riempie ogni spazio bianco lasciato volontariamente vuoto. Mario Donatone canta e suona blues, qualunque cosa lui dica o pensi di fare può essere riassunta in una sola parola: blues, appunto. Stremato e bombardato da emozioni, il pubblico è frastornato: doveva essere un concerto ‘di chitarre’ e qui sta succedendo di tutto, proprio sotto i nostri occhi. E quando il tutto sembra consolidato, giunto al suo acme emozionale, arrivano Giò Bosco e il suo coro, quasi venti elementi che armonizzano melodie, potenti e compatti, un’unica voce ricca di infinite sfumature.
Breve pausa, solo per riprendersi dallo shock e comprare qualche bottiglia di vino che aiuterà il progetto benefico, e si riparte subito con due brani di De Andrè: cantano Beppe e Giò, ma tutti si uniscono poi al coro per dare il loro contributo…
Vorrei possedere milioni di aggettivi per continuare a raccontare, per darvi la sensazione della presenza e della partecipazione, per fare in modo che anche voi possiate godere di questa potente emozione. Ma purtroppo mi devo fermare, non so andare oltre, c’è un momento in cui il cronista deve tacere. Non può proseguire, deve accettare la sconfitta della indescrivibilità. È come parlare del ‘bianco’ o del ‘sapore’ dell’acqua. Concetti astratti e non identificabili. Per cui non vi narrerò cosa è accaduto al bis quando sul palco, oltre a tutti i personaggi fin qui descritti, si aggiunge al concerto la band del figlio di Stefano e Alessandra; e nel ricordo di Giacomo e di un ultimo brano composto da Stefano e suo figlio, prima del grande dolore, si conclude la serata.
Forse ‘si conclude’ non è la parola giusta. Diciamo che comincia un percorso che avrà in questa serata la sua data d’inizio. Io non ho nessun’altra parola da utilizzare per riassumere il mio coinvolgimento: torno in albergo stremato, con i brividi alla schiena, come quando vittime di una pioggia improvvisa si torna a casa con i vestiti bagnati e si cerca un po’ di calore, un bagno caldo, un abbraccio, un segno che dia conforto al nostro disagio. Così stringo mia moglie e cerco quel silenzio di cui ho bisogno. Mi sento strano e frastornato, cerco di mascherare questo mio stato come fosse una vergogna, poi ricordo Andrea: è in un angolo e ha gli occhi lucidi anche lui. Capisco di non essere stato il solo a provare queste sensazioni, e il suo sorriso mi fa compagnia. Vedi a cosa servono gli amici…
Grazie Stefano e Alessandra, grazie per la bella musica, grazie per l’amore e il coraggio, grazie per aver dimostrato che può esistere un mondo migliore. La raccolta benefica ha superato di gran lunga la cifra necessaria. Ora la nostra gioia potrà riempire il cuore di tanti altri.
Reno Brandoni
Chitarra Acustica, 01/2015, pp.10-12