(di Reno Brandoni / foto di Valerio Spada) – Cos’è un licantropo? Una figura mitologica, una leggenda paesana, l’esito folklorico di una malattia imbarazzante? In molti racconti la luna piena descrive la paura di quell’ululato, senza raccontarne l’anima, la dannazione o la disperazione. E, come nello strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, ricerchi il legame tra uomo e follia, lasciandoti conquistare un po’ dall’uno, un po’ dall’altro. Quindi, senza esprimere nessuna preferenza, ti lasci andare nella certezza che c’è un licantropo in ognuno di noi. «Siamo lupi dell’Irpinia» mi dice Vinicio, e mi guarda con lo sguardo fiero della sua ‘razza’. Il lupo che c’è in lui sorride a bassa voce e si compiace del suo nuovo corpo. Le parole le misura una per una, stando attento che nessuna cada fuori posto.
E non c’è compiacimento nel suo racconto, solo curiosità e fame. Così, tra una storia e l’altra, lo trovi seduto su una sedia, appoggiato alla credenza o distratto da un armadio ad aprire cassetti, con l’impazienza di chi non ha tempo, perché deve prepararsi a una nuova caccia nella prossima notte. Non puoi non restare che ammaliato da una simile energia e, catturato dal fuoco che gli divampa dentro, non hai più paura del suo ululato e della sorte della sua nuova preda. Allora ti domandi curioso: «Chi sarà la prossima vittima?» In un breve attimo di lucidità, ti viene il sospetto che possa essere tu. E ciò non ti dispiace. Lui però attacca subito: «Ma si vende ancora una rivista?»
No, infatti questa è solo follia. Una sorta di autoerotismo per chitarristi. Te ne ho portato qualche numero, in caso volessi unirti al nostro piacere.
Va bene. Ne parlo con piacere, perché questo è il primo disco che faccio completamente sulla chitarra.
In questo siamo stati abbastanza fortunati perché, alla notizia del tuo nuovo disco, volevamo farti un’intervista per il valore ‘etnomusicologico’ del tuo lavoro. Solo dopo averlo ascoltato, abbiamo scoperto che era anche un disco molto chitarristico…
Canzoni della Cupa è diviso in due fasi di registrazione. Quella che ha dato origine a tutto è stata una sessione di registrazione del 2003 e, in quella occasione, c’era una formazione piuttosto scarna dove io ho suonato soltanto la chitarra e non c’era un altro chitarrista. Quindi tutte le chitarre le ho fatte io, e del resto la chitarra è stata un po’ la chiave d’accesso a questo tipo di musica. Questo è il mio primo disco che posso in qualche modo definire ‘folk’. È iniziato come disco folk ed è finito come disco ‘folklorico’, nel senso che poi mi sono addentrato di più anche in questioni etnoantropologiche. Ma all’inizio ho voluto proprio provare a cimentarmi con la forma della ballata, con tutte forme di canzoni che sono appunto accompagnate dalla chitarra. Uno dei punti di partenza di questo percorso è stata l’opera di Matteo Salvatore, che era peraltro un sorprendente interprete dello strumento, perché aveva tutto un suo modo di arpeggiare. Quando l’ho incontrato era già vecchio e anche piuttosto malato, quindi c’era un chitarrista che svolgeva le sue veci. Però, sentendo le sue vecchie registrazioni, era molto interessante questo suo arpeggio un po’ mandolinato, di cui mi ha erudito un po’ di più un’altra straordinaria interprete dello strumento, Giovanna Marini, che ci aveva lavorato insieme. Giovanna Marini mi ha spiegato che non devo mai tagliarmi le unghie col tagliaunghie, ma soltanto limarle con la lima, perché altrimenti si indeboliscono e si spezzano. Poi, nel prosieguo della registrazione del disco, mi sono avvalso dell’aiuto di un altro chitarrista, ‘Asso’ Stefana, mio fidato collaboratore da anni, e con lui compaiono una serie di strumenti a corde, un po’ tutta la varietà. C’è anche un altro grande strumentista, che si chiama Victor Herrero: in Italia è meno conosciuto, però è uno straordinario musicista di Cadice, che conosce tutta quella varietà di strumenti a corde di cui la chitarra è lo strumento più conosciuto, come la vihuela, strumenti a quattro corde, a cinque corde… Nel disco c’è anche un altro strumento, la chitarra battente, che è uno strumento importante della nostra tradizione, suonata da un grande e interessantissimo interprete come Francesco Loccisano…
Di cui ci vantiamo di essere gli editori del suo manuale La chitarra battente…
Eh, sì, a me interessava proprio lo strumento, perché è uno dei pochi strumenti italiani autoctoni. Quando Dimitris Mystakidis, grande chitarrista greco, fece un viaggio in Europa cercando di documentare, per ogni paese, lo strumento a corde più rappresentativo, io gli suggerii la chitarra battente, proprio come strumento rappresentativo di una cultura autoctona. Nel Gargano, poi, ero stato a contatto anche con un gruppo molto interessante che usa la chitarra battente. In generale credo che la chitarra sia davvero lo strumento più adatto per accompagnare il canto, forse perché viene dalla lira, dalla cetra, viene dagli strumenti degli aedi. La chitarra ha qualcosa di aedico. Le corde, mi sembra che siano l’ideale per accompagnare la voce. Il pianoforte è uno strumento che si impone, mentre la chitarra può davvero sostenere e accompagnare la voce, soprattutto quando è intenta a cantare una storia e quindi nella forma della ballata. Questo per me è stato molto interessante e Canzoni della Cupa è il primo disco in cui ho scritto brani partendo dalla chitarra. Infatti in tournée non avrò il pianoforte, ma mi accompagnerò solo con delle chitarre. Tra l’altro ho usato una vecchia chitarra che ho comprato a Salonicco, una chitarra che ha il legno color pelle di mulo, costruita a inizio ’900 da un liutaio che si chiamava Mavroudis, un liutaio greco che viveva a Istanbul. I primi pezzi, invece, erano suonati con una chitarra classica con le corde di nylon. Poi mi sono appassionato di più a quelle di metallo, e questa è la mia breve storia chitarristica…
Quindi tu nasci come pianista e in seguito sei passato alla chitarra? Qual è stato il tuo primo strumento?
Sì, ho iniziato con i tasti. La chitarra non l’ho mai studiata, mi sono sempre fermato alla tonalità di Re, perché è quella che non prevede tanti barré…
Insomma, la tua passione per lo strumento a corde è nata in maniera spontanea e naturale…
È molto interessante provare a fare un brano con uno strumento che non si conosce bene, perché ogni accordo, ogni soluzione sembra nuova. Uno al pianoforte, se conosce un po’ l’armonia e lo strumento, sa dove sta andando. Invece con la chitarra ogni cosa sembra avventurosa. Quindi non ho mai veramente appreso lo strumento, però lo uso con soddisfazione.
Tuttavia il tuo approccio non è quello dello strumming banale. Nel disco della Polvere, il primo dei due CD che compongono Canzoni della Cupa, ci sono tre pezzi bellissimi di sola voce e chitarra, dove suoni degli arpeggi strutturalmente non convenzionali.
Quello che intendo dire è che ci sono arrivato da solo. Non ho avuto un maestro, non ho studiato. Però credo davvero che, istintivamente, la chitarra sia uno strumento molto, molto adatto a scrivere e accompagnare canzoni.
La chitarra è sempre stato lo strumento dei folksinger, il più facile da portarsi appresso…
Infatti volevo vivere questa stagione così, senza dover essere vincolato. Il pianoforte ha sempre bisogno di una casa, se non la propria, comunque devi avere un luogo. La chitarra è lo strumento del viandante.
Leggendo i crediti del disco, anche il ruolo di Alessandro ‘Asso’ Stefana, il tuo chitarrista, è diventato più presente, direi fondamentale, poiché appare tra i produttori.
Ma sì, ci confrontiamo sempre con ‘Asso’, e con Taketo Gohara. Non so spiegare bene quale sia il loro ruolo, in questo disco non c’è effettivamente un produttore. Però mi confronto con loro pure sulla natura delle mie nuove canzoni, anche perché le vecchie erano già state registrate. E c’è un confronto che va oltre il fatto di eseguire dei brani.
C’è un confronto di crescita…
Sì, ormai sono diversi anni che collaboro con ‘Asso’… anche se non mi ha ancora dato lezioni!
Se questo è il risultato, direi quasi che è meglio così: nei tre pezzi di cui parlavo prima, voce e chitarra, ho particolarmente apprezzato la spontaneità. D’altra parte, guardando un altro aspetto, ti hanno spesso paragonato a Tom Waits, anche se io non sempre sono stato d’accordo su questo accostamento. Eppure, in questo disco ti allontani parecchio da quelle atmosfere e da quello stile. Soprattutto ti distacchi da quei suoni che erano tipici di Marc Ribot. È un tuo nuovo percorso o parte di un tuo progetto?
Non ho mai avuto così chiara la strada da seguire, e tantomeno un univoco maestro. Quando ho iniziato, probabilmente avevo diverse figure mitiche, quasi mitologiche. E Waits è sempre interessante per me, perché anche lui ha affrontato la materia del folklore. È veramente un’enciclopedia della musica americana. Quando si accosta un suo disco come Mule Variations, o anche tutti gli ultimi, si sente il passaggio da una musica fatta tra quattro mura con il pianoforte, magari in un locale, e una musica invece che man mano ha sempre più rapporto con il cielo aperto, con la terra, con gli elementi. Quindi, ognuno a quel passaggio ci arriva con i suoi mezzi, e spesso è un passaggio che si porta dietro un confronto con altri che quella terra l’hanno già zappata. Per cui la sua musica è piena di riferimenti. Penso che sia il percorso di chi non intende replicare, per tutta la carriera, un disco che gli è andato bene. Nel mio caso ho veramente molti maestri, molti amanti, tanto che alla fine si finisce per non averne quasi nessuno, perché sono davvero molto mescolati e sparpagliati. Per esempio, in questo disco ci sono stati dei riferimenti a Matteo Salvatore, come ho già detto, ma anche ad Athaualpa Yupanqui, che era uno straordinario interprete argentino della chitarra e pure un cantore della terra. Infatti, nella prima versione dell’album, avevo anche inserito quasi una sua cover, diciamo un brano ispirato a una sua canzone, intitolato “Porto rancore al silenzio” [cfr. “Le tengo rabia al silencio” – ndr]. Poi il disco si è così ampliato che qualcosa ho dovuto togliere, ma questo era per dire che lo sentivo nella stessa modalità. Anche Johnny Cash mi piace molto, soprattutto negli ultimi dischi come American Recordings, per come ci figura il piano. Il pianoforte in questo caso non è lo strumento che sono abituato a sentire, ‘sottocanto’ della voce, ma è invece uno strumento che decreta dei bassi, che allarga, che dà delle profondità di suono diversamente da quando il pezzo è costruito sulla chitarra. E mi è piaciuto usare il piano in questo modo, invece che nel modo in cui lo avevo usato fino ad ora.
È vero anche che questo disco mostra una connotazione molto folk, molto ‘popolare’, soprattutto nel primo CD, mentre nel secondo inizi a far sentire delle contaminazioni, come se tu ti fossi lasciato andare non a un percorso rigoroso sul folklore, ma ad un insieme di esperienze: il pezzo “Scorza di mulo” è un vero e proprio blues, ne “La notte di San Giovanni” evochi l’aria di una ballata celtica, lo “Sposalizio di Maloservizio” presenta uno spirito balcanico, che ben ci stanno nella logica di un disco etnofolklorico.
A me più che ‘contaminazione’ piace la parola ‘interpretazione’. ‘Contaminazione’ mi sembra più un termine che si riferisce alle malattie, però ‘interpretazione’ direi di sì. Giovanna Marini mi diceva che gli piaceva questo mio modo assolutamente naturale di confrontarmi con questa materia, mentre loro – negli anni ’60 – si erano fatti moltissimi problemi riguardo a cosa bisognava rispettare, a come usare questo materiale. Per me è interessante interpretare con naturalezza e a proprio modo. Io cerco di fare quello, non pretendo di essere un autore filologico.
Mantenere lo stile originale vuol dire anche mantenere una visione dell’epoca. Secondo me, se i protagonisti della tradizione oggi fossero vivi, probabilmente avrebbero fatto evolvere la loro musica, seguendo il passo dei tempi. La tua musica è densa di modernità, anche se si aggancia al passato. La riproposta di Matteo Salvatore è sicuramente molto interessante, perché fa scoprire un personaggio sconosciuto al grande pubblico, un po’ come è avvenuto per Rosa Balistreri. Quando dicono che la musica folk italiana non esiste, invece, non è vero.
Lo dicevano in una stagione in cui era ricchissima, peraltro: era appunto la stagione di Matteo Salvatore, di Rosa Balistreri. È veramente molto miope il poco lavoro che si fa sul grande patrimonio italiano non solo folklorico, ma penso anche al canto sociale, al canto di lavoro, al canto anarchico. C’è un grandissimo patrimonio in Italia però, diciamo, non molto utilizzato. Basti pensare che Alan Lomax realizzò con Diego Carpitella delle registrazioni straordinarie per la BBC, che furono pubblicate in Italia solo dopo più di quindici anni.
Diciamo che risalta molto la differenza con gli Stati Uniti dove, pur avendo una breve storia, archiviano e conservano ogni aspetto delle loro tradizioni. In Italia sembra che ci sia timore ad attingere a certe radici, quasi vergogna.
Anche se poi non è del tutto vero. Io personalmente, così come altri musicisti che frequento e conosco, conoscono il repertorio di Balistreri e lo reinterpretano. Insomma, non è esattamente che non esista un interesse per questa musica, l’interesse esiste, ma è un peccato che non sia vissuto come patrimonio comune.
Certamente, anche se è vero che quando poi proponi di fare qualcosa, ecco che iniziano le gelosie; come è accaduto a Carmen Consoli che, dopo aver creato un bellissimo evento a Catania su Rosa Balistreri, ha subìto le critiche del paese di Lentini, che reclamava la paternità ‘geografica’ dell’evento…
È una mentalità che esiste soprattutto al Sud, mi dispiace constatarlo. A Calitri, il paese di mio padre, mi raccontavano una vecchia storiella: una volta un angelo apparve a un uomo che era in gravi difficoltà e gli disse che, visto che aveva tanti problemi, poteva chiedergli qualunque cosa e l’avrebbe avuta, ma il suo vicino ne avrebbe ricevuto il doppio. Prontamente l’uomo in difficoltà rispose: «Allora accecami un occhio!» Questo per dire che è una mentalità così. E spesso è vero, perché questo patrimonio è sempre un po’ pericoloso da maneggiare: giace silente, nessuno se ne fa niente, poi appena qualcuno fa qualcosa lo accusano di averlo ‘rubato’.
Il musicologo Franco Fabbri ha scritto una nota sul disco; hai collaborato con lui durante la realizzazione del lavoro?
No, non abbiamo collaborato per il disco. Semplicemente, quando il disco è finito, ho cercato di farglielo avere, come a un maestro. E lui ci ha scritto una nota di accompagnamento. Non abbiamo in realtà condiviso il cammino del disco, però mi interessava molto cercare un contatto, non solo formale, con quanti questo patrimonio l’hanno studiato, l’hanno praticato. Per questo, nel disco, figurano Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino. Franco Fabbri non figura ma, immediatamente dopo la realizzazione del disco, ho cercato un contatto, anche per imparare qualcosa. Per quanto questo non sia un disco di recupero filologico del materiale tradizionale, penso veramente che riguardi un patrimonio che ha a che fare con gli elementi, con la terra, con gli elementi folklorici, quindi è un patrimonio che non si esaurisce in sé stesso. Non ci sono canzoni in questo disco dove ci sia la voce dell’io: è sempre una voce che appartiene al noi, perciò viene più naturale anche studiare, confrontarsi, prendere, scambiare.
Con quale metodologia hai portato avanti il disco? Hai preso le canzoni, le hai suonate, le hai elaborate…
Qui, in realtà, di canzoni belle che fatte ce ne sono pochissime. Ci sono le canzoni di Matteo Salvatore: quelle ho cercato di cantarle e, non conoscendo il dialetto di Apricena, il paese natale di Matteo, le ho un po’ ‘transumate’ all’italiano. Però, per la gran parte delle canzoni ho tratto la storia, la materia narrativa, dal patrimonio dei ‘canti a sonetto’, come li chiamano a Calitri, dove ancora adesso i più anziani si incontrano per questi ‘ritrovi’ che chiamano cumversazioni, dove ‘conversano’ ma anche… ‘versano’: una specie di simposio dove mangiano, bevono e poi cantano insieme. Ne ho fatte decine di queste cumversazioni, e quello che si canta insieme è un repertorio abbastanza fisso, le cui modalità musicali sono sempre più o meno simili. Però il patrimonio delle storie cantate, che hanno sempre più o meno la stessa metrica, è molto ampio; e queste storie finiscono tutte dentro quel contenitore musicale, come un giacimento di storie sedimentate, che però non sono vere e proprie canzoni. In questo contesto c’è un personaggio particolare, che si chiama Canio Vallario, un signore anziano che oltre ad essersi occupato dei sonetti cantandoli, li ha anche scritti, messi in metrica e spesso interpretati a suo modo. Io sono partito un po’ da questi suoi fogli per prendere alcune storie, poi ho cercato di mettergli la musica che mi sembrava più adatta. Naturalmente era tutta roba in dialetto e ho dovuto farne una cosa in italiano. Per esempio nel disco c’è “Franceschina la calitrana”, che è appunto un sonetto da tavolo di cumversazione e che aveva già una sua cadenza, una sua metrica; la canzone era già quella. Poi, per le altre storie, ho scritto canzoni prendendo come spunto qualcosa che le riguardava. Nella fattispecie, “La bestia nel grano” oppure “Scorza di mulo” sono canzoni che ho scritto da capo, però dopo un lungo contatto con quel genere di cultura. Riguardo “Scorza di mulo”, mio nonno era mulattiere e ci sono un sacco di modi di dire che appartengono a questa specie di sapienza, di cultura sapienziale, orale, perché si tramanda per mezzo dei cosiddetti proverbi. Allora nella canzone mi sono immaginato che uno, quando va di notte con un carico di legna rubata, senza farsi vedere, senza poter accendere luce, deve avere dei pensieri. E questo brano è una specie di flusso di coscienza del mulattiere notturno. Ne “La notte di San Giovanni”, poi, c’è tutta una serie di ritualità che sono collegate a certe ricorrenze, a certe date…
Anche la legenda del lupo mannaro ha molte origini paesane…
Esatto, come nella canzone “Il Pumminale”…
Io sono nato con quella paura lì: in tutti paesi del Sud c’è almeno una legenda del lupo mannaro, che la notte di luna piena si fa sentire. In quel brano gli hai dato una bella collocazione.
Assolutamente personale. Quello è il pezzo più autobiografico del disco.
A questo lavoro sul folklore hai associato anche il mondo Tex-Mex di Flaco Jimenez, dei Los Lobos, dei Calexico fino ai messicani Mariachi Mezcal, perché lo vedevi integrato a questa atmosfera o perché era una tua passione?
A me queste terre dell’Irpinia hanno sempre evocato la frontiera, forse perché anche Sergio Leone veniva da una famiglia originaria di lì vicino. Così come all’interno della Sicilia, se uno va nella valle del Dittaino con quei suoi cieli ampi, ci può ambientare un bel western con le diligenze. E nel prolungamento dell’immaginazione, in quelle terre ci ho sempre sentito lo spirito della frontiera. Sì, è vero, il Tex-Mex è la musica della frontiera tra Texas e Messico, ed è un po’ come la nostra musica da ballo, anche lì c’è una specie di fisarmonica che ha quel sapore. Perciò ero interessato a sperimentare il fatto che, secondo me, proprio nel cromosoma di quelle musiche ci fosse la stessa origine. Infatti è stato assolutamente immediato e semplice registrare un pezzo calitrano come “Franceschina la calitrana” con Flaco Jimenez, che l’ha presa da subito proprio come un pezzo del suo repertorio e mi ha detto che l’avrebbe suonata anche più spesso. E come i Los Lobos, il cui nome peraltro significa appunto ‘i lupi’, noi proveniamo dalle terre dei lupi irpini. Come i Calexico, che provengono dalla frontiera dell’Arizona, tre tipi di frontiere che sentivo in modo particolare. E la frontiera cos’è? Un bordo? Noi l’abbiamo spinta un po’ più in là, in maniera però naturale.
Qualche anno fa hai anche registrato una cover di un brano di Dylan.
Sì, “When the Ship Comes In” da La nave sta arrivando [EP allegato a XL di La Repubblica, aprile 2011 – ndr].
Infatti, volevo capire le difficoltà che hai incontrato nella traduzione. Francesco De Gregori ha lavorato parecchio sulle traduzione di Dylan e ha fatto fatica a adattare quel linguaggio in italiano; ero curioso di comprendere la tua modalità di adattamento del testo.
Insomma, cantare un brano che è nato in un’altra lingua è sempre come cambiargli pelle. Il processo non è tanto diverso anche rispetto al dialetto: ‘transumare’ da un dialetto stretto all’italiano, anche questo è un procedimento avventuroso, perché richiede secondo me uno sforzo di fantasia: è difficile, infatti, immaginarsi un brano diverso da come è nel suo elemento testuale. Io l’ho fatto in passato soprattutto per brani dallo spagnolo, perché c’era un repertorio di canzoni di tango che mi piaceva. Prima o poi farò un disco che si chiamerà Parole d’altrove, per raccogliere tutte queste canzoni che ho ‘transumato’ in italiano. Anche perché, se a me piace una canzone, la devo cantare in Italiano.
Bellissima per esempio è “Pena del alma” da Ovunque proteggi del 2006, una tua traduzione di una canzone tradizionale messicana.
È più forte di me, mi sento ridicolo a cantare in un’altra lingua che non padroneggio. Quanto al metodo di traduzione… io vado più ad orecchio che non a significato: è bello anche cercare di rispettare l’evocazione che il suono delle parole può dare in un’altra lingua. Naturalmente l’inglese è una lingua completamente lontana e distante. Ma la cosa che mi interessava del pezzo di Dylan era il suo tono biblico, e su questo tono ho fatto altre cose sia in Ovunque proteggi che in Marinai, profeti e balene [2011 – ndr]. La vera difficoltà non è tanto tradurre il pezzo di Dylan, quanto cercare di cantare il linguaggio biblico, che è un linguaggio molto forte. Tutto il mondo della cultura anglosassone è permeato di Bibbia, sia nel blues che nel soul e nel rock. Noi siamo molto meno abituati a far questo, è un linguaggio forte che non si usa nel linguaggio comune. Ma per questo mi piace, perché questa del linguaggio biblico è una potenza. Una delle cose che mi hanno sempre affascinato di più nella cultura musicale anglosassone, è la forma degli inni: Johnny Cash, per esempio, ha inciso un disco come My Mother’s Hymn Book [pubblicato postumo nel 2003-2004 – ndr] proprio perché è viva questa tradizione di trasporre in musica, nella musica folk, nella musica rock, la potenza del linguaggio biblico, quelle metafore potenti di colpe che ricadono sui figli. Tutto il patrimonio delle leggende e il patrimonio biblico sono le cose che mi affascinano di più nella musica folklorica di quei paesi. Così mi è piaciuto rendere in italiano quel brano di Dylan, perché aveva quel tono profetico che mi interessava.
Per concludere, cosa pensi dell’attuale panorama musicale e delle modalità di registrazione dei dischi anche in termini di ‘compressione’ radiofonica? Taketo Gohara qui ha fatto un ottimo lavoro.
Io penso soprattutto che il pregio migliore, quello che apprezzo di più in questa epoca della contemporaneità, è quello di poter essere contemporanei alle epoche che più amiamo, nel senso che abbiamo una grande disponibilità di accesso a tutto il materiale già registrato. In Rete, ognuno può andare a fondo; se gli interessa una cosa e vuole andare a fondo di quella cosa, tutto sommato lo può fare. La superficie della Rete, invece, quello che circola per la maggiore, non lo distinguo bene perché ha un brusio di fondo che è sempre molto simile. Credo però di essere fortunato nell’avere la possibilità di accedere, forse con più facilità che in altri periodi storici, alle cose che poi voglio andarmi a studiare. Questa è un’ottima epoca per indagare fantasmi. Questo mio, infatti, è un disco di passato prossimo, cioè un passato che non esiste, ma che continua a irradiare fermenti sul presente. Questo è il mio compito.
Il disco naturalmente è legato al tuo ultimo romanzo, Il paese dei coppoloni…
Sì, affronta lo stesso patrimonio, con due linguaggi differenti. Ma diciamo che la materia è la stessa… Ora, però, dobbiamo fermarci, perché devo prepararmi per una cosa che richiede una ‘vestizione’…
Reno Brandoni