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Per chi resta alla finestra

(Francesco Brusco) – Alessandro è un mio caro amico. Molti interessi ci uniscono, ma sulla musica abbiamo un enorme pomo della discordia: Alessandro ama la tammorra… Ci sentiamo pochi giorni dopo l’inizio della quarantena: mi dice che avrebbe appunto voglia di fare una tammurriata dal suo balcone, nel centro di Benevento. «Alessa’, non ne basta uno, di problema?» osservo. Fortunatamente anche stavolta è in disaccordo.

La performance, cui si aggiunge l’intero rione, fa il proverbiale giro del mondo in molto meno di ottanta giorni. A tamburo battente, è il caso di dire. Parte implacabile la catena di flash mob, voci e strumenti si affacciano dalle finestre del Paese. C’è spazio anche per qualche chitarra, benché la potenza sonora delle corde sia insufficiente per la nuova tipologia catastale di palcoscenico. Alcuni, dotati di prolunghe, ricorrono ai watt supplementari degli amplificatori. Le forze dell’ordine, ne sono sicuri, hanno ben altro da fare in questo momento: alle onde acustiche non è richiesta autocertificazione.

Ma l’eco si spegne presto. Fa troppo freddo, meglio richiudere le finestre. Ne riparlo con Alessandro, mi dice: «È stato bello vedere mezza Italia concertare dalle terrazze, pensando di aver ‘dato il La’ alla più grande jam session della storia. Ma l’idea di ridurre questo fermento a un flash mob è infantile e banalizzante». Per una volta siamo d’accordo.

Narrazione. È una delle parole chiave degli ultimi tempi. La ‘narrazione’ dei balconi ci racconta di una musica che ritrova vigore, capacità di unire, proprietà terapeutica. “Always Look on the Bright Side of Life”… Il cielo però non è granché luminoso, da queste finestre.

La romantizzazione della quarantena è un privilegio di classe, recita uno slogan attuale. Se la musica, in astratto, non può essere fermata dal morbo, non altrettanto si può dire dei musicisti.

Se ne accorge La Stampa, che in un articolo del 21 marzo enumera gli effetti del virus sul mercato musicale italiano: perdite di oltre il 60% per le vendite di supporti fisici e di oltre il 70% per i diritti connessi, soprattutto a causa degli eventi annullati. Le sale di registrazione restano chiuse, le pubblicazioni discografiche rinviate a data da destinarsi.

Poco male, c’è sempre la rete: di tutto questo ‘tempo ritrovato’ ce ne sarà abbastanza anche per l’ascolto. Ma anche in questo caso i dati – quelli ufficiali della IFPI, l’International Federation of the Phonographic Industry — frenano i facili entusiasmi. Si scopre che allo streaming manca la forza trainante delle nuove uscite. E si scopre anche un’altra realtà: non siamo più abituati all’ascolto domestico. In Italia il 76% di chi ascolta musica lo fa in auto, e il 43% nel tragitto casa-lavoro.

Cosa dire poi dei œ? È vero che piattaforme come YouNow rendono sempre meno distopica l’idea di una realtà fatta di concerti online a pagamento. Ma i consumatori, come scrive Cherie Hu su Pitchfork, «non sono abituati a pagare per i concerti visti attraverso uno schermo. I musicisti non possono vivere solo di donazioni».

Se anche per i grandi nomi sarà impossibile recuperare le perdite di queste settimane, è ancor più drammatica la situazione del corposo precariato musicale. Al momento in cui scrivo, l’unico salvagente in vista è il bonus di 600 euro per i lavoratori dello spettacolo, previsto dal Decreto Legge n. 18 del 17 marzo – l’ormai celebre “Cura Italia” – e non cumulabile con il reddito di cittadinanza. Un primo passo, ma non abbastanza. Le organizzazioni di settore avanzano nuove e vecchie proposte: allargamento del Bonus Cultura, estensione del tax credit per le produzioni discografiche, riduzione dell’IVA al 4%.

Nell’emergenza di questi giorni le priorità sono altre, si sa. Ma la speranza è che al momento di leggere queste righe si possa affrontare anche questa crisi. I lavoratori, di ogni settore, aspettano anch’essi una cura: se le istituzioni restano alla finestra, la musica è destinata a restare sul balcone.

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