La chitarra, si sa, è una strana malattia. Che spesso prescinde dalla musica vera e propria, fino a sfiorare il – o sfociare nel – feticismo vero e proprio dell’oggetto in sé. Essendo tutt’altro che esente anche da questa devianza, anzi rientrando diritto tra le forme più gravi di GAS (Guitar Acquisition Syndrome, sindrome da acquisto compulsivo di chitarre) in circolazione, sono un accanito frequentatore di piazze virtuali, ove si possono compiere indisturbati questi misfatti.
Inutile negarlo, il punto di incontro per eccellenza per tutti noi affetti da questa malattia è mercatinomusicale.it. Sì, ci sono i siti delle aste, quelli dei negozi e delle grosse catene, ma l’acquisto dell’usato ha quel brivido in più, dato anche dal rischio di prendere una ‘sòla’, che non ha prezzo. Ora, dato che ho esaurito tutti gli angoli di casa (e dell’ufficio e quelli prestati da alcuni amici) in cui posso stipare strumenti, ormai la salvezza del mio matrimonio è legata all’equazione ‘una entra, una esce’. Mi trovo quindi sempre nella duplice veste di venditore e di acquirente. E ci vuole davvero ‘un fisico bestiale’ per uscire indenni – soprattutto a livello di equilibrio mentale – da questa selva oscura.
Se scrivo nel mio annuncio «valuto permute solo con chitarre acustiche» inevitabilmente mi arrivano, nell’ordine, proposte per: testata Marshall valvolare, multieffetto digitale che fa anche il caffè, chitarre elettriche autocostruite e – una volta, giuro – dell’abbigliamento vintage. Cioè vecchio e usato.
Se indico una cifra trattabile, inevitabilmente mi offrono meno della metà, con spese di spedizione a mio carico. Così non è trattare sull’acquisto, è maltrattare le persone.
Un signore molto gentile, per una chitarra da 30 euro (trenta!), mi ha chiesto 6 euro di sconto perché mancava la custodia. L’avrebbe presa solo se gliela portavo direttamente a casa, a 70 km di distanza. Ho risposto che se la veniva a prendere lui, gliela regalavo, mi sarebbe costato meno. Non è mica venuto.
Ma la cosa che mi fa più imbestialire sono quelli che ti fissano l’appuntamento per venire a prendere la chitarra, spesso con una certa urgenza – perché hanno in programma la registrazione del disco della loro vita e lo strumento gli serve assolutamente – e poi non si presentano, spengono il cellulare e spariscono. Se mi fossero arrivati metà dei bonifici promessi per l’acquisto delle mie chitarre, ora sarei ricco. Spariscono e basta!
Dall’altro lato, ovvero se si vuole acquistare, non è che vada tanto meglio.
Ci sono quelli del «se stai leggendo sai di cosa di tratta» e non aggiungono una riga di descrizione. Giusto una foto, se va bene. Quindi se sono ignorante, sono destinato a rimanere tale. Senza possibilità di elevarmi. Oh, non ci ho dormito notti intere.
Quelli che: «è una di quelle di una volta, non come quelle che fanno oggi, neanche paragonabili». E te la vendono a un prezzo maggiore del nuovo. Però è un vero affare. Sì, per loro.
I creativi: «chitarra classica primi ’900 da bottleneck», ovvero ha il manico così imbarcato che o ci fai slide oppure del tiro con l’arco.
Quelli molto creativi: «chitarra fatta a mano da maestri liutai cinesi/koreani ecc., pezzo unico». E magari pescano anche un nome di un dipendente dell’azienda. O se lo inventano.
Quelli troppo creativi: «archtop manouche da jazz ideale per il blues». Non hai idea di cosa stai parlando, ammettilo.
Quelli che negli anni ’80 sbavavano sulle chitarre degli anni ’60 e hanno gelosamente conservato le loro, appena comprate, ancora con la plastichina sul battipenna. Così oggi possono orgogliasamente scrivere: «vintage, costruita nel 1980». E sparare dei prezzi improponibili. Mi spiace molto: le sixties continuano ad essere vintage, quelle degli anni ’80 sono solo vecchie. E spesso neanche tanto ben fatte.
Per quelli che hanno le Eko degli anni ’60 c’è quasi da aprire un capitolo a parte. Le cosiddette ‘chitarre da barbiere’ in laminato, con il ponte sospeso e senza catenatura. Ne hanno prodotte una quantità inimmaginabile. Ed erano strumenti ‘popolari’ nel prezzo e nella qualità già allora. Senza alcun margine di miglioramento. Sono degli anni ’60, va bene, ma non sono né rare né capolavori di liuteria… anche qui prezzi da cinema. Dell’orrore.
Quelli che sono cresciuti a pane e fumetti e non possono resistere senza inserire un’onomatopea in tutto quello che scrivono: la chitarra ha molto «sustainnnn», ha un «ding» sulla cassa, non fa «sdleng», e neanche «buzz», ma ha subito un «crack». Mi viene sempre da rispondergli con «Gulp!» e «Stratacoinc!»
Quelli del «ribasso»: lo scrivono, ma non lo fanno. La chitarra costa sempre uguale. Poi si passa a un «ulteriore ribasso», per terminare con il «a meno di così me la tengo». E costa sempre uguale. Troppo. E infatti se la tengono.
Quelli che vendono «per errato acquisto»: ora, vorrei capire come fa uno a comprare una chitarra per sbaglio. E questa? Ah, sì, devo averla presa oggi nel pomeriggio. Ero convinto di essere entrato dal tabaccaio per le sigarette, e invece… Ma che brutto colore, non fa per niente pendant con l’ampli. Che sbaglio! A quanto la rivendono? Al prezzo del nuovo, ovviamente. Si sono sbagliati, ma dovranno mica rimetterci. Ci mancherebbe.
I laconici: «vendo chitarra». Punto. Senza foto. Al massimo «vendo chitarra nera». Ma in questo caso si tratta sicuramente di una donna.
E poi, ovviamente, ci sono quelli come me: che si lamentano sempre e vorrebbero pagare tutto un decimo dell’effetivo valore. Oh yeah.
Chitarra Acustica, 10/2012, p. 5