(di Roberto De Luca / foto di Maurizio Lollo) – Vogliamo dire la verità? Quante volte ci siamo chiesti se dietro a trovate originali e persino bizzarre non si celassero strategie di marketing musicale, tese a colpire l’immaginazione prima ancora che l’orecchio dell’ascoltatore? È un rischio che si corre, soprattutto tenendo conto che il messaggio musicale viaggia ormai da tempo a braccetto con altre modalità di comunicazione, in primo luogo quella delle immagini, condivise e rilanciate nel grande pollaio virtuale in cui razzoliamo. Il trionfo della filosofia del ‘famolo strano’, che porta il trio femminile delle Adams a simulare un amplesso nel bel mezzo di un cantato e persino una gloria inattaccabile come Neil Young a chiudersi con la sua Martin dentro una cabina telefonica per registrare un album rigorosamente Lo-Fi. Ce n’è a sufficienza per restare disorientati. Aggiungiamo dunque l’immagine di uno strumento tradizionale africano montato sul top di una chitarra e la misura è colma. Ma noi siamo musicisti e la curiosità alla fine ha sempre la meglio. Scopriamo così che dietro a questo giovane chitarrista con la faccia da matematico si nasconde un pedigree artistico da far impallidire ben più consumati volponi della sei corde acustica.
Trevor Gordon Hall è un nome nobile quanto basta. Ventinovenne di Philadelphia, cinque album all’attivo, due dei quali prodotti da un mostro del music business internazionale come Joe Nicolo (dicesi nove Grammy all’attivo), una discografia che, partendo dall’etichetta Revel del sopracitato guru e transitando per la CandyRat, approda alla corte di un certo Will Ackerman. In questo breve lasso di tempo, il nostro eroe si concede prestigiose collaborazioni (Pat Martino, Phil Keaggy, Don Ross, Andy McKee, il California Guitar Trio, Billy Cobham…), si conquista una menzione d’onore da parte della rivista Acoustic Guitar (fra i 30 migliori chitarristi under 30 al mondo) e incassa l’apprezzamento di gente come Crosby, Stills & Nash e di Steve Hackett. Così, tanto per dire.
Ce n’è abbastanza per attivare i nostri sensori, complice una vera e propria minitournée lungo la penisola, che ha toccato anche la capitale. Menzione d’onore al piccolo e accogliente club romano L’Archivio 14, che ancora una volta si rivela una piazza d’eccellenza nel panorama italiano della sei corde acustica. È qui che abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con un cordialissimo Trevor Gordon Hall, poco prima della sua esibizione. All’amico Stefano Barone va il consueto ringraziamento per l’imprescindibile consulenza musicale e, soprattutto, per la traduzione.
Ciao Trevor e benvenuto. La tua prima volta a Roma?
La seconda. Questa volta non da semplice turista ma come musicista!
Prima domanda obbligata: ci dici qualcosa della tua formazione musicale?
Certo. Sono praticamente cresciuto ascoltando i dischi della Windham Hill, di cui mia madre era grande estimatrice. Quelle sonorità echeggiavano nella mia testa, così è stato abbastanza naturale scegliere la chitarra acustica. All’età di 14 anni ho cominciato a prendere lezioni con un maestro che mi ha dato un’impronta prettamente classica e jazz.
Sei giovanissimo e hai già all’attivo cinque dischi. Hai conosciuto Joe Nicolo ad appena 23 anni. Che impressione hai avuto lavorando con un personaggio così autorevole?
L’ho incontrato casualmente in studio. Joe aveva appena venduto la sua etichetta discografica alla Sony e ne stava creando un’altra. È stato lui a chiedere di produrre la mia musica. Puoi soltanto immaginare la mia sorpresa. Quando cominciammo le registrazioni, vedevo dietro il vetro un tizio che mi diceva «Ok, take one!» e tra me e me pensavo: «Va bene, in fondo è lo stesso tipo che ha lavorato con James Taylor, Billy Joel, Bob Dylan…» [ride] Dire che ero un po’ teso è poco. È stata una delle esperienze più forti che io abbia vissuto ed è stata anche un’enorme responsabilità. La fiducia che Joe mi ha concesso mi ha aiutato a crescere moltissimo e a credere in ogni mia singola nota.
Sono andato ad ascoltare qualcosa dai tuoi primi CD e ho trovato una musica davvero evocativa, persino nei titoli. Ho avuto l’impressione che tu provassi a descrivere qualcosa. Il titolo di uno di questi lavori è Finding My Way [2008]. Stavi forse trovando la tua strada?
Hai colto. Il mio primo lavoro si intitolava Portraits of Imagination [2005] perché le composizioni musicali partivano dalla focalizzazione di singole immagini e su quelle immagini costruivo i miei brani. Poi, come sempre accade, ogni artista modifica col tempo il proprio approccio alla composizione. Così, oggi seguo piuttosto il procedimento inverso, lasciando che il suono fluisca liberamente; solo in un secondo momento cerco di capire da dove siano arrivate quelle note, quale sia il soggetto che mi ha ispirato e che probabilmente era presente in me a livello inconscio.
Trovo che questo sia uno spunto molto interessante. Nei tuoi brani si respira un’intensa spiritualità e del resto il titolo del tuo lavoro con la CandyRat, Entelechy [2011], va a scomodare nientemeno che Aristotele. Era un po’ quello che volevi esprimere in quel disco? Potenza e atto? Qualcosa che contiene al suo interno il suo fine e che si realizza pienamente?
Esatto. L’entelechìa è appunto il processo che conduce qualcosa dalla potenza all’atto. È un meccanismo che sicuramente ha a che fare con i miei studi di filosofia e teologia, e che influenza il mio approccio compositivo, ma non solo. Se, ad esempio, considero l’uso della kalimba nella mia musica, mi accorgo che non è stata semplicemente la trovata di un ‘pezzo’ da collocare sulla mia chitarra. L’idea è nata da un percorso molto più profondo, un pensiero che era presente in me e che solo dopo parecchio tempo si è tradotto in un’applicazione concreta.
Dalla CandyRat a Will Ackerman, che ha prodotto il tuo ultimo lavoro. Stai bruciando le tappe, Trevor.
Ti ringrazio. Sarò sincero. L’esperienza con la CandyRat è stata fondamentale a livello di visibilità mediatica, ma è stata soprattutto una grande esperienza di vita. Ho imparato che non basta semplicemente trovare il canale giusto e ‘delegare’ a qualcuno la tua carriera. Anche in questo caso, funziona esattamente all’inverso ed è proprio quello il momento in cui devi lavorare sodo, curare le tue cose, migliorarti costantemente, impegnarti al massimo. È quella la tua grande opportunità e non puoi perderla. Quanto a Will Ackerman, l’ho conosciuto soltanto un paio di anni fa e gli ho lasciato del mio materiale. È stato davvero un sogno quando mi ha richiamato dicendosi interessato alle mie cose. In realtà, avevo timore che trovasse il materiale di Mind Heart Fingers, come dire, un po’ distante dalla produzione new age di cui lui si occupa e comunque troppo malinconico. Il risultato finale è stato invece molto gratificante per entrambi.
Passiamo alla kalimbatar. Ma come ti è saltata in mente quest’idea?
C’è parecchio lavoro dietro. Quella che vedi è la settima kalimba e nasce da un mio lavoro progettuale, affidato poi alle mani sapienti di un liutaio. Sicuramente non sarà quella definitiva. Ho sempre amato sonorità metalliche tipo carillon a vento, hang bells e altro. La prima volta in cui ascoltai qualcuno suonare una kalimba ebbi una specie di illuminazione. La mia prima kalimba era molto più piccola, ma con quella ho cominciato a fare i primi esperimenti, nel tentativo di unire quel suono a quello della mia chitarra.

Immagino tu abbia dovuto risolvere parecchi problemi legati tanto alla combinazione materiale tra i due strumenti quanto all’impostazione compositiva ed esecutiva dei brani.
Dal punto di vista interpretativo, la difficoltà maggiore nasce dalla necessità di fondere le due parti in un’unica esecuzione in modo che l’ascoltatore non percepisca l’impressione di due strumenti separati, di due suoni distanti e distinti. In fase di composizione e di studio, curo molto l’esecuzione di ogni parte in modo molto, molto lento, concentrandomi sull’aspetto melodico, che è sicuramente il più importante. C’è inoltre un lavoro molto attento per ottenere al meglio le note in tapping con la mano sinistra. È un allenamento quotidiano davvero duro.
Per quanto riguarda l’hardware, gli inizi sono stati sperimentali. Ho iniziato a far battere la kalimba direttamente sulla tavola della chitarra e i due strumenti in pratica vibravano assieme. Col tempo ho perfezionato la cosa e adesso la kalimba, molto più grande, è saldamente ancorata a un’intelaiatura e dunque sospesa sul top dello strumento. Ovviamente anche le sorgenti di amplificazione sono separate e mixate.
Ho letto che la tua chitarra è stata completamente riprogettata per il tuo ultimo lavoro. Anche il suono è decisamente diverso.
È vero. In Entelechy ho usato una Martin. Come sai quelli della Martin sono dei fenomeni, ma si tratta pur sempre di una grande casa e come tale legata a una certa rigidità progettuale. Mi sono imbattuto poi nella Sheldon Schwartz e in un visionario un po’ folle come me. Ho trovato una persona capace di guardare oltre l’endorsement, disponibile a sperimentare e a lavorare assieme.
Accenniamo brevemente al tuo sistema di amplificazione?
Sì, io uso come base un K&K classico in combinazione con due microfoni MiniFlex dotati di controllo antifeedback. Come effettistica, impiego classici loop, overdrive e altro. Ho iniziato usando molti effetti, per poi concentrarmi su un sound più naturale. Ultimamente sto ritornando all’effettistica, più che altro per offrire all’ascoltatore una maggiore varietà timbrica e vincere l’appiattimento di un unico suono per tutta la durata del set.
Utilizzi open tunings?
Di solito non impiego molto le accordature aperte. Trovo che usare le open tuning sia un po’ come dipingere un quadro partendo dalle linee esterne e dalla cornice. In qualche modo, tracciano già la strada finendo per condizionare la composizione. Provenendo da studi classici e jazz, in genere riesco a ottenere sonorità ampie e ariose senza dover necessariamente ricorrere alle accordature aperte.
Hai dimostrato che la chitarra fingerstyle può uscire dal suo angolino di nicchia e arrivare all’attenzione dei più grandi. Che effetto fa ricevere complimenti da personaggi come Steve Hackett?
Oh, è stata semplicemente la settimana più bella della mia vita! [ride]
Il web è una prateria sterminata. Come si fa ad acquistare visibilità in mezzo a tutta quella folla? Alla fine della nostra chiacchierata, hai un consiglio da dare?
Il consiglio in fondo è sempre lo stesso: «be yourself». Se le persone si emozionano guardando un tuo video non serve altro. Sai, oggi è facile conquistare una visibilità, che però può rivelarsi effimera. Se cominci a porti il problema di come farti vedere, di come essere competitivo, se ti fai condizionare dal lavoro di altri, è lì che commetti lo sbaglio più grosso. Lavora duramente, cerca di essere sincero, sii te stesso. Le persone hanno bisogno di riconoscere te stesso e la tua musica anche senza guardare un video. In questo, lo ammetto, una kalimba può aiutare… [risate]
Roberto De Luca
Chitarra Acustica, 01/2015, pp.38-41