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L’albero più remoto di Clive Carroll

Da John Renbourn a Tommy Emmanuel e John Williams
(di Andrea Carpi) – Clive Carroll è venuto alla ribalta come pupillo di John Renbourn, che lo ha instradato verso il suo primo disco solista Sixth Sense del 2000 e lo ha portato con sé in tournée. Negli anni successivi Clive è partito anche per un lungo tour con Tommy Emmanuel. Tra l’altro è pure tra i musicisti preferiti da Madonna per allietare le sue feste private. E oggi esce con il suo quarto album The Furthest Tree, ‘L’albero più remoto’, dal bellissimo titolo tratto da un verso di una poesia di Emily Dickinson. In questo disco c’è un gioiello di inestimabile valore, una lunga suite rinascimentale di otto minuti in cinque parti, composta dallo stesso Carroll, che era destinata a essere suonata in duo con Renbourn. Dopo la scomparsa del grande maestro del folk baroque, la suite è stata infine riproposta in coppia con uno dei chitarristi più importanti della scena classica, John Williams, con un degno passaggio del testimone ai più alti livelli.

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Foto di Steve Parke

Ma anche le dieci composizioni originali per chitarra sola che completano il disco confermano, oltre alle sue doti eccellenti di strumentista, lo spessore e l’efficacia del Carroll compositore. In lui la chitarra acustica diventa lo strumento perfetto per coniugare a un livello superiore la sua profonda conoscenza della tradizione ‘colta’, già consolidata attraverso il suo diploma con il massimo dei voti in composizione e chitarra al Trinity College of Music di Londra, con l’altro suo lato per così dire più ‘leggero’, legato alle prime esperienze musicali folk in famiglia, alla sua predisposizione verso uno spirito contemporaneo, alla parte più gioiosa e scanzonata della sua personalità. Del resto le sue collaborazioni con Renbourn, Emmanuel e Williams portano con sé un destino ineludibile, che guarda lontano, oltre il più remoto orizzonte.

L’ultima volta che ti ho visto in concerto, è stata a Madame Guitar nel 2013, dove hai suonato una delle due parti di chitarra di “A Renaissance Suite” sopra la registrazione della seconda parte suonata da John Renbourn. Renbourn avrebbe dovuto essere presente anche nella registrazione finale per il tuo nuovo album The Furthest Tree, ma non è tristemente più con noi. Potresti darci il tuo ricordo di John, della tua collaborazione e della tua amicizia con lui? E qual è stata, a tuo parere, l’eredità che ha lasciato a te e a tutti noi?
Carroll_The-Furthest-Tree_coverJohn è stato un innovatore nel campo della musica e uno dei chitarristi più influenti della storia. L’ho incontrato per la prima volta nel 1998 in un folk club non lontano da Londra, dove ho aperto il suo concerto con alcune mie composizioni e alcuni pezzi di Joe Pass. Quello che avevo fatto gli piacque e, poco dopo, già facevamo dei concerti insieme. Tra l’altro, alcuni dei nostri primi concerti sono stati proprio in Italia. Siamo diventati amici e ho imparato tantissimo da lui. Qualche anno fa avevamo avuto l’idea di incidere un album in duo, che avrebbe dovuto contenere qualche pezzo di musica da salotto, alcune musiche che lui stava scrivendo e forse la mia “Renaissance Suite”. Abbiamo fatto qualche prova, ma purtroppo non siamo mai riusciti ad arrivare in sala d’incisione. Le prove partivano sempre con tutte le migliori intenzioni, ma ci lasciavamo fuorviare dalle nostre stesse chiacchiere dedicate a musicisti come Reverend Gary Davis o Merle Haggard, poi la comparsa del formaggio di qualità e del buon vino faceva il resto. Lo stile musicale di John è veramente unico e continua a ispirare musicisti, non solo chitarristi, in tutto il mondo. Credo che la sua musica, come ad esempio la musica di John Dowland o Django Reinhardt, resisterà a sua volta all’usura del tempo. Nei miei concerti da solo, suono una delle parti di chitarra, mentre l’altra è preregistrata. Uso due chitarre diverse, in modo che ci sia un contrasto di sonorità.

Nella prima intervista che hai rilasciato a me e Riccardo Cappelli, apparsa sulla rivista Chitarre nell’agosto 2006, ci hai detto: «Al college scrivevo musica per orchestra sinfonica, lunghe composizioni orchestrali di un quarto d’ora e, come siparietti, componevo dei brani di un paio di minuti per sola chitarra, giusto per divertimento. Così ora ho a casa enormi pile di musica orchestrale nel cassetto, mentre sono stati questi brani acustici ad avermi portato in giro per il mondo!» In effetti, “A Renaissance Suite” è una composizione complessa con tanto di preludio, giga, canzone, inno e danza in tondo: come l’hai costruita?
“A Rennaisance Suite” è stata creata subito dopo il Capodanno del 2011. Non pensavo mai che avrei scritto un’intera suite! Avevo cominciato a lavorare per divertimento su un preludio, poi un pezzo ha tirato l’altro. E dopo due giorni avevo finito l’intera composizione. È proprio vero che le idee migliori vengono in ‘modalità vacanza’. Anche le vacanze estive sono ottime per questo, perché la tua mente ha finalmente l’opportunità di pensare in modo creativo e non in base alle consuete responsabilità quotidiane.

La versione di “A Renaissance Suite” presente nel disco, alla fine è stata realizzata con John Williams… Forse soltanto un numero uno della chitarra classica come Williams poteva sostituire un numero uno del ‘folk baroque’ come Renbourn. Come l’hai conosciuto e come hai ottenuto la sua collaborazione? Come è stato lavorare con lui?
Nel 2000 a John Williams è stata data una copia del mio primo album Sixth Sense e, poco dopo, lui mi ha scritto. Non potevo crederci! Lui era molto incoraggiante e qualche mese dopo ci siamo incontrati. Poi in diverse occasioni abbiamo suonato negli stessi festival nel corso degli anni. Ora, io sapevo che nella versione definitiva di “A Renaissance Suite” per The Furthest Tree volevo suonare in coppia con un chitarrista classico e, naturalmente, quello che avrei preferito era lui. Quando l’ho contattato, mi ha risposto che era molto felice di registrare quel brano: è stato un altro di quei momenti da non credere! In studio lui è stato fantastico e, dopo la seduta di registrazione, mi ha suonato alcune sue composizioni. Ero seduto di fronte a lui – eravamo noi due soli nello studio – e mentre stava suonando, pensavo che quello era il suono di chitarra classica più incredibile che avessi mai ascoltato!

Comunque, in “A Renaissance Suite”, un’ispirazione che discende dalla musica dei Pentangle e dal Renbourn di Sir John Alot e The Lady and the Unicorn appare con chiarezza, specialmente in quella modalità ‘folk baroque’ di miscelare la musica antica con i fraseggi blues (e blues rock), per esempio nelle sezioni intitolate Sir Gawain e The Green Knight, così come nell’uso di accordature come il drop D e il drop G.
Esattamente! Questa è l’influenza di John. Infatti, a metà del mio assolo in Sir Gawain, che è la prima sezione della suite, cito di proposito un riff di Renbourn come segno di saluto al grande maestro. Le accordature di drop D e drop G poi sono eccellenti, perché ti permettono di creare un clima sonoro ‘aperto’ e un sottofondo di bordone, mentre puoi improvvisare sulle corde alte.

Foto di Corrado Pusceddu
Foto di Corrado Pusceddu

Come diciamo in Italia, “A Renaissance Suite” vale già il prezzo del biglietto! Ma parliamo anche del resto dell’album, che contiene altre dieci composizioni originali per chitarra sola. Prima di tutto, qual è l’idea generale di The Furthest Tree e il senso di questo titolo, preso da un verso del poema di Emily Dickinson “A Light Exists in Spring”?
Sì, tutte le tracce del disco sono brani originali e i miei riferimenti provengono da molte fonti. Volevo che il titolo dell’album catturasse proprio questa idea di un’ispirazione legata a musiche che stanno oltre l’orizzonte immediato. Come chitarrista acustico, continuo a esplorare le potenzialità dello strumento e sono influenzato da molta musica della sua tradizione. Ma sono affascinato anche da altri generi musicali. Per esempio, i riferimenti presenti nell’album comprendono la musica medievale, la musica caraibica, il compositore inglese Gustav Holst, la musica della tradizione popolare romena e il blues del Texas. La ‘luce’ del poema rappresenta tutte le diverse influenze che hanno ispirato ogni brano, e tutti questi fili sono riuniti da una chitarra acustica.

Anche in questi pezzi solistici, la tradizione britannica con un carattere celtico è ampiamente rappresentata, dalla traccia di apertura “The Abbot’s Hymn” – che è dedicata a John Renbourn e al tempo che hai passato con lui – fino a “Lady of the Valley” e “Thaxted Town”.
Queste sono le mie radici che si evidenziano! John Renbourn amava le armonie degli inni tradizionali, così ho utilizzato quei tipi di intervalli in “The Abbot”. “Lady of the Valley” è stata scritta dopo aver trascorso molto tempo nella contea di Limerick in Irlanda. Anche se mi piace ascoltare molte musiche di diverso genere, credo che il mio approccio, o angolo visuale, deriverà sempre dalle mie radici celtiche, in ogni caso trasparenti. “Thaxted Town” fa riferimento a un paese vicino casa mia nell’Essex. È un luogo molto interessante per la musica tradizionale inglese, dove la domenica pomeriggio si possono vedere tanti uomini ballare la Morris dance.

Foto di Steve Parke
Foto di Steve Parke

La seconda traccia “In the Deep” è per te uno dei temi principali dell’album. Con la sesta corda abbassata in Si sotto un riff ripetitivo, mostra influenze che vanno dal solismo blues di Lightnin’ Hopkins alle diteggiature slide di Derek Trucks e alle atmosfere ipnotiche di Talking Timbuktu di Ali Farka Touré e Ry Cooder.
Dietro le quinte, in occasione di miei concerti, ho preso l’abitudine di suonare un pattern regolare di basso e di cantarci sopra delle melodie. Questo pattern inizialmente era solo un’idea per il riscaldamento ma, a un dato momento, è comparsa una melodia che continuava a tornarmi in mente, così ho pensato di lavorarla sulla chitarra e di suonarla insieme al riff di basso. Il risultato si è rivelato molto divertente da suonare e ora è diventato l’apertura di “In the Deep”. Poi, come hai ricordato, le parti soliste mostrano dei dei riflessi di Lightnin’ e Trucks. Amo lo stile slide di Trucks e forse, un giorno, potrei comprare uno slide e provare a mia volta.

Ho notato che un procedimento simile compare anche in “Twelfth Moon”, con la sesta corda abbassata in Do, mi sembra.
Sì, mi piace molto questo basso dal suono ‘grosso’ e caldo. In registrazione ho ripreso il segnale della chitarra sia dai microfoni che dal piezo: ho tolto tutti gli acuti dal piezo e l’ho usato soltanto per dare maggior peso al basso. Per scrivere “Twelfth Moon” c’è voluto un po’ di tempo, e la struttura della sezione centrale è stata influenzata da un bellissimo Adagietto di Gustav Mahler.

“The Adventures of Wilfred”, un brano ‘pazzerellone’ che mi ricorda il tuo arrangiamento della “Czardas” di Vittorio Monti, mostra un lato caratteristico delle tue performance dal vivo: il virtuosismo associato all’ironia.
Mi sono divertito molto a scrivere questo pezzo. Sono state necessarie solo poche ore per buttarlo giù su carta, ma ho dovuto esercitarmi centinaia di ore per essere pronto a eseguirlo sul palco. Credo che ora potrei mandare “Czardas” in pensione e suonarlo al suo posto. Wilfred è un personaggio speciale, anche se un po’ sfacciato, che parte per un viaggio con una spider rossa e incontra tanti amici. Spero di essere riuscito a rendere in musica le sue avventure.

In “The Prince’s Waltz”, suonato su una chitarra baritona, i riferimenti risalgono al “Valzer n. 2” di Dmitri Shostakovich dalla Suite per orchestra jazz n. 2, e all’ensemble rumeno Taraf de Haïdouks.
Circa un anno fa, ho ricevuto una bellissima chitarra baritona dalla leggenda britannica Gordon Giltrap. Le prime idee che mi sono venute improvvisando su questa chitarra, che ha un suono ‘gipsy’ molto caratteristico, erano in tempo di valzer. Penso che questa sia stata una delle rare occasioni in cui la chitarra ha influenzato l’atmosfera del brano che stavo scrivendo. Casualmente, nello stesso periodo, andavo ascoltando il valzer di Shostakovich e alcuni pezzi del Taraf de Haïdouks. Ne è venuto fuori questo valzer un po’ sinistro, il cui titolo fa riferimento al principe Dracula.

In “A Winter Carol” sovrapponi due voci diverse, che rappresentano rispettivamente il punto di vista più allegro di un giovane sulle corde alte, e sulle corde basse il punto di vista più lento di una persona anziana, con la chitarra accordata C#G#C#GBE.
Ricordo di aver composto questo brano mentre ero in tournée negli Stati Uniti. Stavo cercando di suonare contemporaneamente due pezzi in una tonalità diversa e con un tempo metronomico diverso l’uno dall’altro. Alla fine ho dovuto scrivere tutto su carta ed esercitarmi come se si trattasse di una serie di movimenti puramente tecnici, senza concentrarmi ad ascoltare una parte o l’altra. Qualcuno ancora mi chiede ridendo: «Ma perché?!» Io però ero ben determinato e adesso il brano lo so suonare bene, ma c’è voluto un po’ per metterlo in ordine nella mia testa. L’ho provato tante volte durante i soundcheck in quel tour americano, e con me c’era – tra gli altri – il fantastico Pino Forastiere: credo di averlo fatto letteralmente impazzire con quei miei ostinati tentativi!

Foto di Corrado Pusceddu
Foto di Corrado Pusceddu

Una tecnica simile compare anche verso la fine di “Thaxted Town”, dove sovrapponi al tema folk principale l’inno “Vow to Thee, My Country” di Gustav Holst.
Sì, ma è stato molto più facile suonare quest’inno sopra quella musica di carattere popolare tradizionale. L’inno di Holst è talmente bello che sono stato felicissimo di riuscire a inserirlo in quel contesto.

In fin dei conti, anche se questi pezzi per chitarra sola non sono in linea di massima particolarmente lunghi, mostrano comunque un approccio in qualche modo simile a quello di tipo classico di “A Renaissance Suite”: non si limitano a una struttura strofa-ritornello e presentano una melodia che varia e sembra sempre raccontare una vera e propria storia, accompagnata da altre voci ben distinte e da linee di basso. In un’altra intervista pubblicata da Chitarre nel dicembre 2007, dicevi: «Una cosa importante è che, quando scrivo musica, la scrivo prima su carta, non sulla chitarra. Scrivo il pezzo sullo spartito e questa è la parte principale, quella che ho in testa e che voglio sentire realizzata. Poi, successivamente, cerco di trovare un’accordatura o un arrangiamento per chitarra.» Quindi cosa puoi dirci del tuo modo di comporre: non ti piace anche ‘pasticciare’ sulla chitarra prima di scrivere sullo spartito?
Sì, assolutamente. Mi piace provare a caso sulla chitarra, dove non sai mai quando viene fuori qualcosa di interessante. A volte può essere una forma di accordo, oppure una sequenza che può essere trasposta, o ancora un voicing di accordo veramente invitante in un’accordatura diversa dalla standard. Qualcosa di interessante viene sempre fuori anche dall’improvvisazione libera. Mi diverto pure a esplorare dei ritmi con la mano destra e, molte volte, mi ritrovo a scivolare in un groove ipnotico. Mi piace prenderne uno, o una delle idee di cui sopra, ed eplorarle, girarle e rigirarle, farne un pezzo strutturalmente sicuro e infine creare una ‘versione definitiva’. Poi magari, sei mesi dopo, scopro che quel pezzo può essere ulteriormente sviluppato e, con ogni probabilità, verrà modificato poco o molto rispetto alla ‘versione scritta’.

L’album suona molto bene. Che strumenti avete usato tu e John Williams, e come sono stati registrati?
Io ho usato quella che è la mia chitarra principale in tour, vale a dire una Ralph Bown modello OM del 2003, poi un’altra Ralph Bown più grande modello OMX, una Fylde costruita da Roger Bucknall e una Rob Armstrong baritona. John Williams ha suonato la sua Greg Smallman classica. Per la registrazione ho utilizzato soprattutto due microfoni AKG 414 e un Neumann KM 184. In alcuni brani ho usato anche il pickup piezo della chitarra per incrementare la profondità dei bassi.

In particolare, il tuo tocco della mano destra è molto chiaro e presente. Nel tuo sito hai scritto che, per registrare The Furthest Tree, hai dovuto consumare innumerevoli lime per unghie e sei pacchi di palline da ping-pong! In che modo ti prendi cura della tua mano destra? Anche tu usi le palline da ping-pong per ottenere unghie artificiali come faceva John Renbourn?
Sì, sono un altro utilizzatore di palline da ping-pong! Certo, amo il suono del tocco naturale combinato tra polpastrello e unghia, ma in realtà le mie unghie naturali non durerebbero più di cinque minuti su una chitarra con corde metalliche. E in effetti ho preso l’idea di usare le palline da ping-pong dalla chitarrista classica Nicola Hall, che era uno dei miei insegnanti di chitarra al Trinity College; così come di usare delle buone lime per unghie per ottenere un bel suono caldo. Per la finitura utilizzo poi della carta abrasiva finissima di gradazione 2000, di cui compro un sacco di fogli dal carrozziere.

Saranno disponibili degli spartiti e delle tablature per questo album?
Sì, ho in programma di pubblicare un libro con tutti i brani. Questo comporterà un gran lavoro e immagino che ci vorranno circa tre o quattro mesi per copiare tutti i pezzi sul computer. Quando sarà pronto, potrà essere richiesto sul mio sito www.clivecarroll.co.uk. Anche con “A Winter Carol”!

Grazie Clive, credo che attraverso le tue spiegazioni e i tuoi racconti potremo apprezzare ancora meglio l’ascolto del tuo bellissimo disco, con un’attenzione più consapevole e profonda. E spero che tu possa tornare a visitarci in Italia quanto prima. Sai già quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro?
Spero di tornare in Italia entro il prossimo anno. Se torno indietro con il pensiero a quando ero bambino e mi esercitavo sulla chitarra nella casa dei miei genitori, non avrei mai pensato che la musica mi avrebbe portato in paesi così belli come l’Italia, e di trovarvi così tanta gente che ama suonare la chitarra e parlare di questo nostro meraviglioso strumento. Non vedo l’ora di ritrovare i miei amici italiani e di incontrarne di nuovi lungo la strada!

 Andrea Carpi

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