venerdì, 22 Settembre , 2023
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Tra l’armonia e il Brasile

Intervista a Paolo Mari di Gabriele Longo

Certamente lo conosciamo come titolare della rubrica dedicata alla chitarra brasiliana presente da diverso tempo sulla nostra rivista. Ma Paolo Mari è un didatta che fa anche il chitarrista o è un chitarrista prestato all’arte dell’insegnamento? Lo scopriremo insieme nella chiacchierata che segue. Fin d’ora ci sentiamo certamente di dire che la passione e il rispetto per la chitarra, la voglia di sperimentare, aggregare, inventare, regalare bellezza, non sono mai venuti meno in tutta la vita artistica e umana di Paolo Mari. E che da quel lontano 1974 in cui la imbracciò per la prima volta, la chitarra continua ancora a sorprenderlo.

Paolo, vuoi iniziare a farti conoscere più compiutamente parlandoci della tua attività intorno al mondo della chitarra?

Sono un perfetto autodidatta, nel senso che ho iniziato a suonare nei primi anni ’70, in un periodo in cui non esisteva una didattica della chitarra moderna; e non ero interessato alla chitarra classica. Col senno di poi dico anche: «Peccato!» Perché sarebbe stato molto utile studiarla, ma in quel periodo le cose andavano così… La mia formazione si è sviluppata molto sul campo: da un lato facevo quello che era uso fare in quel periodo, cioè ‘tiravo giù i pezzi’ dai dischi, avendo avuto sempre un buon orecchio; da ragazzo ascoltavo i Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco Guccini, insomma i cantautori italiani e la musica rock inglese e americana. Dall’altro lato, ho avuto la fortuna di suonare tanto. Avrò avuto quindici-sedici anni quando già suonavo accompagnando delle compagnie teatrali amatoriali, in cui c’erano dei cantanti ‘improbabili’ che cantavano delle canzoni in maniera ‘impossibile’; la maggior parte erano ‘superstonati’. Ecco, io mi trovavo a doverli accompagnare con la chitarra e, molto spesso, a cambiare gli accordi della canzone per adeguarmi a loro. Questa è stata la mia scuola ed è stata la cosa che mi sono ritrovato negli anni come bagaglio importantissimo. Infatti, ancora oggi ho molta facilità a riconoscere gli accordi senza avere la chitarra in mano, proprio grazie a questa lunga pratica che chiamerei ‘studio dell’armonia direttamente sul campo’. Delle tre componenti della musica, la melodia, l’armonia e il ritmo, quella che mi ha sempre interessato di più è l’armonia, l’accompagnamento, lo studio degli accordi, delle tonalità.

Penso che questa tua propensione ti abbia aiutato a sviluppare una tendenza ad arricchire armonie originali elementari e abbia dato un nuovo impulso sonoro e dinamico ai pezzi di tuo interesse.

È una delle cose che mi piace di più, infatti. Ancora oggi insegno ai miei allievi sia a suonare la chitarra che a sviluppare l’interesse per l’armonia. Quello che mi attira è osservare come i grandi musicisti reinterpretano le canzoni pop. Ad esempio come Ray Charles suona e canta i pezzi dei Beatles: ascoltarlo da questo punto di vista è uno studio meraviglioso di armonia, perché lui prende fondamentalmente la canzone com’è, non la stravolge, ne mantiene perfettamente la struttura, però ci mette al suo interno cinque-sei ‘pennellate’ – dico io – che sono degli accorgimenti per offrire al brano una chiave per reinventarlo. Questo tipo di lavoro è bellissimo e importantissimo, perché rappresenta per noi musicisti l’esempio perfetto di come dare a una canzone scritta da altri il nostro modo di interpretarla senza stravolgerla, senza tradirla. In ambito italiano mi viene in mente la collaborazione tra Gino Paoli e Danilo Rea, dove un artista sensibile e intelligente come Rea ha dato a quelle canzoni pop dalla struttura molto semplice una veste più profonda, più ricca ma mantenendone inalterata l’anima popolare.

Ritornando al tuo percorso, perché la chitarra e non per esempio il pianoforte, alla luce della tua passione per l’armonia?

Be’, ti racconto semplicemente come sono andate le cose. Avevo undici anni quando ricevetti in regalo una scatola di cioccolatini, a cui era accoppiata una piccola chitarra giocattolo di plastica. Era insuonabile, ma ci passavo le ore mimando performance fantastiche. Fino a che i miei genitori decisero per il Natale del 1974 di regalarmene una vera: un momento che ancora ricordo con tanta emozione! E da lì cominciai a suonare tutto da solo, come ti ho detto prima.

A questo punto vorrei toccare i tre aspetti che ti contraddistinguono, cioè quello di musicista-chitarrista, quello di compositore e quello di didatta.

Sì hai centrato la questione: mi ritengo un interprete, un compositore/arrangiatore e un insegnante. Insegnare mi piace molto: non sono di quelli che pensano di essersi ridotti all’insegnamento perché non suonavano abbastanza. Io ho sempre insegnato, fin da ragazzo. Ho formato tantissimi giovani e continuo a farlo. Inoltre ho scritto e pubblicato alcuni metodi, e questa è stata una delle cose che mi ha dato più soddisfazione. Ho iniziato nel 2000 con un metodo che s’intitola Modelli armonici per chitarra, per le Edizioni Effigi, un metodo non specializzato su un genere o un aspetto particolari. È una pubblicazione che sviluppa la conoscenza della chitarra tramite le cosiddette geometrie. Noi chitarristi dovremmo pensare in termini di gradi più che in termini di note, cioè ragionare basandoci sull’armonia funzionale, che in sintesi fa rientrare tutti gli accordi in tre grandi aree, la tonica, la dominante e la sottodominante, aree che vengono definite tali dalla loro funzione reciproca.

Quando è arrivato d’altra parte il tuo innamoramento per la chitarra brasiliana?

È arrivato in modo casuale a metà degli anni ’90, e da lì è nata la mia grande passione per la Musica Popolare Brasiliana e lo studio molto intenso di questa cultura. Anche in questo caso non ho trovato pubblicazioni che aiutassero ad approfondire la chitarra brasiliana, né in Italia, né nello stesso Brasile, dove la propensione alla didattica istituzionale è molto limitata, a favore invece di un approccio istintivo, diretto, legato in una prima fase all’imitazione, per poi essere sviluppato successivamente grazie al talento. In quegli anni, precisamente nel 2008, conobbi Marco Volontè e Germano Dantone, che lavoravano alle edizioni Carisch. Scrissi così il mio primo metodo di chitarra brasiliana, con DVD allegato, che grazie a loro fu pubblicato con il titolo Violão – la chitarra brasiliana. In seguito, nel 2011, è uscito sempre con Carisch un mio album di arrangiamenti di classici del samba e della bossa nova, intitolato Brazilian Guitar Solos. Qui, applicando la teoria del chord melody (che potrebbe suonare in italiano come ‘melodia dentro l’accordo’), cioè della chitarra completamente autosufficiente in quanto realizza da sola la melodia, gli accordi e le linee di basso, ho arrangiato una decina di classici. E poi l’ultimo libro del 2017 con voi di Fingerpicking.net, sempre sulla chitarra brasiliana e stampato anche in inglese, dal titolo Come suonare la chitarra brasiliana: il compimento di vent’anni di studio assiduo e appassionato sulla chitarra brasiliana.

Cosa ne pensi della peculiarità della musica popolare brasiliana in quanto crogiolo di culture musicali europee contaminate dai ritmi e dai sapori tropicali, che hanno trovato nello choro il primo importante linguaggio espressivo?

Una delle cose più affascinanti dei brasiliani è questa consuetudine nel mescolare razze, stili e culture diversi, di cui la musica ovviamente risente tantissimo. Mischiare le influenze, gli stimoli, le ispirazioni dà sempre risultati positivi e creativi. Tu hai citato lo choro, che potrebbe essere descritto in modo semplificato come la fusione della musica classica tradizionale europea con i ritmi del samba, che è a sua volta di origine africana. Così come il genere al quale mi sono dedicato di più, la bossa nova, sempre semplificando, nasce dall’incontro dei ritmi del samba con le armonie del jazz intorno alla fine degli anni ’50, quando avviene un magico incontro: il papà della bossa nova, Antonio Carlos Jobim, pianista di estrazione classica amante di autori come Debussy e Ravel, insieme con il cantante-chitarrista João Gilberto ha dato vita a questo stile. In particolare, Gilberto inventò letteralmente quel modo nuovo di suonare la chitarra, che inglobava i ritmi del samba fondendoli con le armonie sofisticate dei suoi accordi. Questo incontro ha cambiato profondamente la storia della musica popolare in Brasile. Certo, devo dire che quando parliamo di musica brasiliana è impossibile darle una definizione onnicomprensiva, perché parliamo della cultura di un paese che da solo è più grande dell’Europa intera. Dire ‘musica brasiliana’ è come dire ‘musica europea’, è molto limitativo e superficiale. C’è il Nord del Brasile, che risente dell’influenza caraibica con la musica reggae, c’è il Nord-Est con il samba, nella zona di Rio è importante la bossa nova. Quello che ho scelto io è stato concentrarmi nella didattica, e anche nei miei brani, che ho scritto proprio sulla base della bossa nova; perché ho pensato fin dall’inizio che forse, da un punto di vista chitarristico, fosse lo stile più interessante, più stimolante. Soprattutto per la sua ricchezza armonica.

E poi va detto anche che nella bossa nova c’è il canto, c’è una melodia cantata.

Certo. La bossa nova richiede di entrare nel cosiddetto balanço, in quell’atteggiamento ritmico portato avanti dalla mano destra, che ha tutto un suo stile particolare. E poi lo studio degli accordi. In definitiva, con lo studio della bossa nova mi sono ritrovate tutte queste cose che ho sempre amato fin da ragazzo. Infatti, fin da allora, oltre che col plettro per la musica rock ho sempre prediletto suonare con le dita. Tant’è che uno dei miei chitarristi di riferimento è Mark Knopfler, proprio perché anche in un contesto rock suona con le dita. In definitiva ho mutuato questa impostazione quando ho cominciato a studiare la bossa nova.

Caspita, un interessante trait-d’union per arrivare alla bossa nova! Hai ragione, la riconoscibilità del chitarrismo di Knopfler passa anche – e molto – dal suo suono, di cui sono artefici le sue dita. Ma comunque, a proposito di suono, ci vuoi parlare delle tue chitarre?

Ho avuto chitarre elettriche come la Stratocaster, che ho tuttora, e ho una bellissima semiacustica Gibson, la 335. Poi, nel corso degli anni a seguire, mi sono dedicato quasi esclusivamente al nylon. La mia storia nasce quindi con la Gibson Chet Atkins, che ho suonato per tantissimi anni. Successivamente, volendo un manico giù largo, negli anni duemila sono passato alla Godin, che allora era distribuita da Carisch e per la quale fui anche endorser. Ancora oggi la suono: è il modello Multiac Grand Concert. Mi ci trovo molto bene, mi dà anche la possibilità di usare un po’ il MIDI, per ottenere ad esempio il suono dei violini, a me che sono un moderato utilizzatore di tecnologia. E mi dà un po’ di sustain, la cosa che manca a noi chitarristi acustici. Negli ultimi anni poi ho avuto la fortuna di diventare endorser per Roberto Fontanot, un’eccellenza della nostra liuteria. Lui mi ha dato la sua Punto G, una bellissima semiacustica con corde di nylon, con il manico largo da chitarra classica e con un sistema di amplificazione eccellente. La prediligo quando suono da solo. Infine, quando voglio ottenere un suono classico nel senso più tradizionale, suono una Cordoba Fusion 14, un ottimo strumento.

Con quali di queste chitarre in particolare suoni la musica brasiliana?

Con la Godin e soprattutto con la Fontanot Punto G, che mi risulta molto leggera, maneggevole, con un manico confortevolissimo. Colgo l’occasione per esprimere ancora una volta la mia gratitudine a Roberto per avermi dato uno strumento di altissima qualità.

E adesso parliamo del tuo aspetto compositivo, che si manifesta in particolare nei tuoi CD Corpo e alma [recensito nel n. di aprile 2013] e Mani, testa e cuore del 2015 con il percussionista David Domilici.

Sì, certo. Ho sempre amato scrivere musica, canzoni. Nei miei dischi ci sono dei brani influenzati dalla musica brasiliana e dai miei viaggi in Brasile. Infatti, molti di questi brani li ho scritti quando mi trovavo lì. Certamente gli stili samba o bossa nova o anche choro sono quelli più presenti nei miei pezzi. Ma naturalmente anche il fatto di essere italiano si riflette nelle mie composizioni, dove trovo aspetti folk o popolari della nostra musica, e un certo rock o il blues, che pure per me è stato alla base dei miei primi studi. Ti faccio un esempio. Tra i miei tanti progetti live ce n’è uno dedicato a Bob Marley, dove mi sono inventato un modo di suonare per cui faccio contemporaneamente la parte del basso e quella della chitarra ritmica, e che è esattamente il contrario di quello che succede con la bossa nova o nel fingerpicking in generale: normalmente noi facciamo una figura che ritmicamente è regolare col pollice, mentre con le altre tre dita della mano destra abbiamo tutta la libertà di creare delle sincopi, degli anticipi, dei ritardi; nel reggae è esattamente il contrario: lì il basso ha la funzione della sincope, non suona sul battere, mentre le tre dita fanno la funzione della chitarra ritmica che marca in levare i movimenti della battuta. Ecco, questa tecnica che ho fatto mia l’ho poi trasferita in alcune mie composizioni, a riprova che il bagaglio che mi sono creato suonando nelle esperienze live l’ho riportato dentro le mie idee compositive. E poi amo moltissimo Stevie Wonder, Paul Simon, James Taylor, i cui ascolti mi hanno influenzato non poco.

Con me sfondi una porta aperta: sono anche per me tra i miei preferiti!

Ma sì, perché poi c’è un filo che unisce questi musicisti con la spiritualità della musica brasiliana, che è condensata nel concetto della saudade, questa sorta di nostalgia addolcita dal pensiero di qualcosa che dovrà accadere. Una sua definizione che mi ha sempre colpito molto, di Carlos Hilsdorf, recita così: «Saudade è la presenza costante di qualcuno assente.» Questa è una cosa che tengo ben presente quando suono, perché rende l’idea, no? Un qualcosa che è sempre dentro di noi e che nello stesso tempo non c’è, ma che arriverà prima o poi.

Tornando alla mia attività di insegnante, una cosa che cerco di trasmettere ai miei allievi è di non rimanere confinati allo strumento chitarra, sebbene noi siamo chitarristi, ma di aprirsi alla musica di altri strumenti. Ci sono tantissimi esempi di situazioni in cui possiamo tirare giù parti di altri strumentisti, tipo gli assolo di Miles Davis alla tromba in un disco come Kind of Blue, dove lui suona delle frasi meravigliose basate anche su scale semplici come la pentatonica. L’idea di trasportare sulla chitarra il suono di altri strumenti costringe noi chitarristi a trovarci una ‘nostra’ via al fraseggio, un ‘nostro’ modo di suonare, cosa che avverrebbe di meno se ci limitassimo soltanto a replicare il fraseggio di un altro chitarrista. Viceversa le frasi di Miles, rimanendo all’esempio che ho citato, con tutte le peculiarità legate alla tromba, saremo costretti a reinventarle sulla nostra chitarra e –così facendo – codificheremo un nostro modo di proporre chitarristicamente quel certo fraseggio preso a modello.

Perciò un buon bagaglio tecnico-espressivo, per i chitarristi, deve passare per ascolti e approfondimenti legati a musica prodotta da altri strumenti, come la tromba, ma anche il piano e via di questo passo…

Sì, ho citato prima Ray Charles proprio per questo: i pianisti hanno una capacità armonica maggiore di noi chitarristi e quindi il loro ascolto è uno stimolo importantissimo. Noto, d’altra parte, come i chitarristi che si concentrano esclusivamente sul proprio strumento acquisiscono un livello tecnico elevatissimo, ma generalmente difettano in musicalità, perdono il gusto della melodia, della cantabilità dei propri fraseggi; tutte cose che si possono trarre dall’ascolto di strumenti a fiato o della stessa voce umana col canto.

Condivido appieno il tuo pensiero. Parlaci allora dei vari duo che tieni in piedi per le tue attività dal vivo.

Ho un’attività live abbastanza intensa e molto versatile. Se è vero che dal punto di vista didattico mi sono specializzato nella chitarra brasiliana, tenendo seminari e master class in tante scuole e partecipando a vari festival, nelle mie attività dal vivo suono tante cose diverse, apparentemente molto distanti tra loro. Per esempio suono nell’ambito del teatro-canzone, che trovo molto stimolante, in quanto la fusione dei due elementi – testo recitato e canzone – contribuisce a trasmettere contenuti sia a livello emotivo che culturale e sociale. Nel concreto sto portando avanti due progetti: uno dedicato a Giorgio Gaber, con i suoi monologhi che realizzo con tre attori/cantanti; e l’altro che mette insieme dei brani di Lucio Dalla, a sostegno di un testo con delle parti dell’Odissea di Omero rivisitate, in cui si racconta dell’esperienza di Telemaco, dipinto come un senzatetto che abita sulla riva del mare, dove resta in attesa che il mare gli porti notizie del padre Ulisse mai tornato. Ma dal mare arrivano racconti di persone e di creature misteriose. Ed ecco lo spunto per cantare e suonare le tante canzoni di Dalla dedicate o ispirate dal mare. Nello stesso tempo però sto scrivendo una commedia musicale con delle mie canzoni originali. E ancora, due progetti sulla canzone italiana: uno dedicato a Fabrizio De André con il titolo Ostinati e contrari, che esiste da tanti anni, e un altro dedicato a Pino Daniele, con delle formazioni piccole, generalmente in duo o in trio. Prediligo queste piccole formazioni, dove la mia chitarra d’accompagnamento sostiene quasi completamente la parte musicale, in modo da dare il giusto rilievo ai testi, che meritano attenzione da parte del pubblico. E poi un progetto che s’intitola Zingareska, dove abbiamo unito delle canzoni popolari dell’Europa dell’Est – Moldavia, Romania, Russia, Ucraina – con dei brani classici, quindi Ciaikovskij, Mozart, Brahms, riarrangiati in forma folk. Con la partecipazione di musicisti russi in una formazione con chitarra, pianoforte, violino e voce, proponiamo il “Rondò alla turca” di Mozart in forma quasi ska! Inoltre mi piace la world music e, dallo scorso anno, sono promotore di un grande progetto che si chiama MioMondo, nel quale abbiamo raccolto alcuni ragazzi africani dai centri di accoglienza qui a Grosseto e li abbiamo invitati a esprimere le loro potenzialità artistiche. Ci sono giovani del Gambia, della Nigeria, del Senegal insieme ad alcune donne dell’Europa orientale, per formare un gruppo di tredici elementi dove noi italiani siamo solo in quattro. Abbiamo potuto mettere insieme brani musicali africani, dell’Est europeo, italiani e miei originali, e questo a dimostrazione della possibilità di integrazione, della voglia di inclusione, del superamento dei pregiudizi: insomma, un progetto che mi dà grande soddisfazione, che va al di là del pur importante valore artistico che esprime. Ciò mi riempie di gioia e speranza, perché vedo che di progetti come il mio ce ne sono moltissimi in Italia, per fortuna, e constato che i risultati sono sempre positivi.

Osare, sperimentare sempre: la musica lo consente e noi come musicisti abbiamo questa grande fortuna. Abbiamo la libertà di farlo e il dovere di non trascurarla.

Paolo, mi sembra la chiosa perfetta a questa bellissima intervista: musica e libertà, due grandi ricchezze che devono rimanere sempre insieme!

Gabriele Longo

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