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Povero Bob

(di Reno Brandoni) – Ogni tanto mi capita di leggere L’Osservatore Romano. Non che io sia un affezionato habitué di questo quotidiano, ma cercavo commenti sull’uscita del nuovo disco di Bob Dylan, Shadows in the Night, e mi sono imbattuto in un articolo che aveva come titolo “Povero Bob”. Incuriosito da questa inusuale apertura, ho letto: «Certo Bob Dylan è uno di quegli artisti che possono permettersi il lusso di fare ciò che vogliono. Ma forse, malgrado tutto, di questo Shadows in the Night non si sentiva il bisogno».

dylan_shadows-in-the-nightRicordando gli avversi trascorsi di Ratzinger, grande oppositore della partecipazione di Dylan al concerto per Papa Wojtyla, si potrebbe pensare a una sorta di diffidenza, anzi di ‘paura’ da parte della Chiesa nei confronti del carismatico ‘mito’. Ma visto che il giudizio negativo su questo lavoro trova una platea molto più ampia, ho azzerato l’idea del complotto e ho iniziato a interessarmi alla cosa.
Devo anticipare, per correttezza, che io sono un ‘fedelissimo’ del cantautore, per cui ogni mio giudizio potrebbe apparire parziale e non obiettivo, anche se cerco sempre di esprimere un parere onesto e – quando una cosa proprio non mi piace – preferisco non parlarne piuttosto che mentire.
Inizio a pormi qualche domanda: ma Dylan aveva necessità di fare questo disco per confermare la sua fama e la sua notorietà? Non credo! La deduzione che ne deriva è scontata: allora tutto è stato fatto solo per i soldi, semplice show business! Sembrerebbe la domanda (e la risposta) più ovvia. Riflettiamo: in questo caso avrebbe scelto come tema la reinterpretazione del repertorio di Frank Sinatra, quando con minor fatica (e offrendo di meno il fianco alla critica) avrebbe potuto realizzare qualsiasi altra cosa? Frank Sinatra è conosciuto come The Voice, Bob Dylan invece proprio per la sua voce rauca e ‘atonale’. Perché questo salto nel vuoto, perché questo ennesimo tentativo di stupire?
Ecco allora una terza possibile opzione: la voglia di stupire! Ricordate i tempi di Newport, quando Dylan si presentò per la prima volta con la chitarra elettrica e fu ‘condannato’ per aver tradito e abbandonato i suoi seguaci ‘acustici’? Quello era semplicemente l’inizio di una rivoluzione e, frenato da ogni possibile mortificante critica, con quel suo azzardo diede vita a uno dei momenti più importanti e creativi della storia della musica.

Pensiamo a un’altra ipotesi, meno complessa: Dylan ha sempre confessato di essere stato un ammiratore di Frank Sinatra; e un suo sogno è sempre stato quello di realizzare un disco tributo all’artista, cercando di non crearne una falsa copia, ma dandogli ‘nuova vita’ attraverso la sua interpretazione. Lui stesso, in un’intervista, dichiara che la cosa più difficile è stata proprio quella di scrollarsi di dosso gli arrangiamenti maestosi e portare la musica del grande crooner in una dimensione più ‘eseguibile’. Personalmente sposo quest’ultima ipotesi, poiché mi sembra l’unica genuina verità. Certe volte ‘non c’è niente da capire’, c’è solo voglia di fare…
Così ho deciso di comprare il disco e l’ho ascoltato più volte, contro il parere ‘del mondo’. Manca la batteria, i suoni sono soffusi, nessuno sproposito orchestrale, solo la sua voce protagonista, quasi narrante, che non imita Sinatra, non prova a sfidarlo alla Michael Bublé (in questo caso però la critica non ha fiatato… anzi, è stato un coro di «Ma quanto è bravo!»). Dylan non ha cantato Sinatra, ma ha fatto sì che Sinatra cantasse alla Dylan, importandolo dentro il suo universo, infinito e irripetibile.

Ora potrei tentare un confronto tra Sinatra e Bublé. Ma a quale scopo, per vedere chi è il più bravo? Mi sembra un esercizio inutile, ma proviamoci. Entrambi hanno grandi orchestre, sontuosi arrangiamenti e bellissime voci. Chi è allora il vincitore, l’originale Frank o il suo giovane imitatore? Il progetto piace, vende e fa audience; ed ecco che la critica lo appoggia. Vince il business
Facciamo ora il confronto tra Frank e Bob (i lettori mi permetteranno questa ulteriore audace confidenza). Dalla parte di Bob, arrangiamenti inesistenti, voce dylaniana ben lontana da quella avvolgente, calorosa e potente di Sinatra. Non c’è sfida, non c’è un tentativo di imitare, c’è solo la passione che Dylan ha sempre confessato. Bob non osa profanare la memoria dell’altro, ma lo trascina per la sua ‘cattiva strada’.
Il disco è magico, ipnotico, romantico. Cattura per la sua melanconica, adorabile nostalgia, per il rispetto e l’intelligenza, per il coraggio e la forza che nasconde dietro ogni singola nota.

Mi chiedo, allora: perché questo accanimento? Perché dissacrare ogni cosa che non segue l’iter disegnato dal mercato? Per cantare Sinatra devi avere l’orchestra e una gran voce, altrimenti lascia stare. Ma se hai l’orchestra e una gran voce potrai solo imitare e reinterpretare, mai aggiungere qualcosa a ciò che già è.
Qui voglio far entrare in ballo anche il nostro strumento. Diciamo che oggi i ‘giovani’ chitarristi seguono essenzialmente due strade: quella di Tommy Emmanuel, cercando di imitarne bravura, suono, abbigliamento e atteggiamento; o quella di Michael Hedges, con tanto di tapping sulla vecchia D-28. Le imitazioni sono ormai talmente numerose da non poterle più contare. Qualcuno ha mai aggiunto niente di nuovo, ha mai dato nuova vitalità a quei lavori? Proprio no! Il tentativo di imitazione soffoca ogni nuova possibile creatività. Ed è sempre più brutto poter/dover dire «quello suona alla Tommy, o alla Hedges», riconoscendo nello stile la paternità dei due grandi maestri.

Ecco allora perché amo e preferisco Dylan, che ha il coraggio di osare, cambiare, seguire immune dalle critiche il proprio pensiero. Vi invito allora a una riflessione, che forse nella musica può trovare una prima storica opportunità. Non è giunta forse l’ora di avere il coraggio di cambiare?
Don’t think twice, it’s all right!

Reno Brandoni

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