domenica, 1 Ottobre , 2023
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Dal Folkstudio a Sanremo e alla musicoterapia – Intervista a Grazia Di Michele

(di Andrea Carpi) – Grazia Di Michele è stata una pioniera della canzone d’autore al femminile. È partita nel 1978 dal piccolo e glorioso mondo del Folkstudio di Roma e dell’etichetta discografica It di Vincenzo Micocci. E da allora ne ha fatta tanta di strada, in numerose direzioni e con una quindicina di album all’attivo. Ha conosciuto il suo primo successo importante con Le ragazze di Gauguin, poi negli anni ha portato al festival di Sanremo canzoni significative come “Io e mio padre”, “Se io fossi un uomo”, “Gli amori diversi” in collaborazione con Rossana Casale, e l’anno scorso “Io sono una finestra” con Mauro Coruzzi. Inoltre si è diplomata in musicoterapia, mettendo successivamente in pratica delle sperimentazioni innovative. È da anni insegnante di canto della trasmissione Amici e porta avanti un’attività didattica musicale nelle scuole e nelle università. Si è aperta a colori jazzistici collaborando con il pianista Paolo Di Sabatino. Insomma una donna contemporanea a tutto tondo, volitiva, curiosa, per così dire ‘multiprocessuale’. L’abbiamo incontrata in una pausa delle registrazioni che ha appena avviato per il suo prossimo disco.

grazia-di-michele-2Quando hai cominciato a esibirti al Folkstudio di Roma nella seconda metà degli anni ‘70, la tua performance aveva già una forma compiuta, in particolare con arpeggi di chitarra ben confezionati e sonorità alla Joni Mitchell, realizzate accordando il Mi cantino in Re e usando – mi sembra – anche l’accordatura aperta di Re. Qual era stata la tua formazione musicale fino ad allora, per quanto riguarda la chitarra, la voce e la composizione di canzoni?
Io quando ho incominciato non avevo nessuna base, non avevo studiato musica, non avevo studiato chitarra e mi improvvisavo cantante. Perché in realtà la cosa che è partita prima è stata la composizione, la scrittura delle canzoni insieme a mia sorella Joanna. Strimpellavo la chitarra ad orecchio e ho incominciato a cantare le nostre composizioni, ma diciamo che il mio arrivo al Folkstudio è avvenuto simultaneamente, nel senso che abbiamo scritto le prime due canzoni e una domenica sono andata al Folkstudio a suonarle. La chitarra l’avevo in casa perché me l’aveva regalata mio fratello, e non conoscevo gli accordi, arpeggiavo naturalmente e il mio rapporto con lo strumento è stato assolutamente spontaneo. Mettevo le dita a caso sulla tastiera, senza sapere se componevo accordi o che cosa fossero o come si chiamassero, però quando mi suonava bene e mi sembrava ci fosse un bel passaggio, mi segnavo su un foglio di carta, con un sistema rudimentale, quella posizione per non dimenticarla: facevo le sei righe della tastiera e mettevo anche le indicazioni di indice, medio e anulare [della mano sinistra – n.d.r.]. A modo mio avevo fatto un libretto di posizioni, e dentro quel libretto anni dopo Lucio Fabbri avrebbe decifrato accordi sospesi, di nona, di quarta…

È buffo, ma spesso meno dita si mettono sulla tastiera, più sono complicati gli accordi…
Infatti Lucio, che aveva collaborato al mio secondo disco Ragiona col cuore [1983], guardava quello che facevo con le dita e mi chiedeva: «Ma come nascono questi accordi?» Così ho tirato fuori quel libretto e gli ho detto che alcuni me li ero segnati, altri venivano fuori così. Lui rimase molto colpito da questa cosa, perché ha studiato, quindi ha un background da conservatorio, e mi diceva sempre: «Sei molto libera, hai la libertà di fare questi ‘inguacchi’ perché non sei irregimentata in nessun modo». Io costruivo anche delle accordature particolari e non sapevo neanche che accordature fossero. Non era solo il fatto del Mi cantino abbassato in Re: quando mi suonava bene una cosa, allora era il momento buono che tiravo fuori un’altra canzone. Quindi un approccio più naturale di così non ci poteva essere. Per quanto riguarda poi il canto, sapevo di non avere una grande estensione, sapevo di non poter fare dei generi che richiedono acrobazie vocali, ma non m’interessavano neanche. Perché sono nata come cantautrice e allora negli anni ’70, ma ancora oggi, il cantautore è qualcuno che fondamentalmente porta un messaggio. In fondo i primi cantautori con cui mi sono confrontata, Tenco, Paoli, De André, avevano una grande personalità timbrica ed espressiva, ma non avevano una vocalità pazzesca. Tutt’oggi nel mondo dei cantautori non si richiede di essere come Mariah Carey o Whitney Houston, che fanno le acrobazie con la voce e il loro genere è quello di sbalordire con l’uso della vocalità. Se vai a chiedere, credo che nessuno tra Vasco, Jovanotti, Paolo Conte o Fossati abbia mai studiato canto. Quindi diciamo che per me era sufficiente scrivere e raccontare delle cose. In quel periodo c’era il femminismo, cominciavano a sentirsi i primi bagliori del movimento femminista, e io iniziavo a scrivere delle canzoni dalla parte delle donne. Nel mio primo album registrato per l’etichetta discografica It, tutte le tematiche – dalla prima all’ultima canzone – avevano a che fare con il mondo della donna: il rifiuto di certi stereotipi, di certi cliché, e l’album si chiamava per l’appunto Cliché [1978], oppure la storia di un aborto con il suo vissuto emotivo, insomma un tipo di contenuti che non si erano mai sentiti. Prima di tutto perché in Italia non c’erano ancora delle donne che avessero mai scritto. Quando sono nata io non esisteva neanche la parola ‘cantautrice’: mi ricordo che il patron della It, Vincenzo Micocci, aveva coniato l’espressione ‘le cantautori’ e ci fu un disco intitolato Le cantautori [AA.VV., Le Cantautori – Settembre 1975: musica dal pianeta donna, RCA]. Ma per me non c’era un vero repertorio da cui attingere: quando ho incominciato a parlare in prima persona della condizione femminile, cosa che non ho mai smesso di fare, e della vita emotiva di una donna, esprimendola nelle canzoni e nel canto, il mio punto di riferimento era internazionale, era Joni Mitchell. Non era italiano, perché in Italia non c’erano autrici; sì, c’era Gianna Nannini, che però era un fenomeno rock, era tutta un’altra storia. Io invece ero affascinata dal mondo poetico di Joni Mitchell, anche se non era una cantautrice femminista…

Però femminile sì.
Ma molto, molto femminile. A parte che è una grande musicista, con una grande vocalità, una grande creatività, e non è stata mai uguale a se stessa, ha fatto un sacco di esperimenti e si è messa in gioco tante volte nel corso degli anni. Allora, quando ho comprato Blue, il primo suo disco che ho avuto, sono rimasta incantata dalla semplicità, dalla immediatezza delle sue canzoni. Mi sono messa a tradurre i testi e ho scoperto tutto un mondo poetico. Così sono andata a ricercare anche i suoi dischi precedenti. Da lì è partito l’interesse per i cantautori, cerano James Taylor, Carole King, Carly Simon, era quel mondo lì. E poi ho amato Bob Dylan, tanto, ma proprio tanto, lo amavo per i testi, per il suo mondo sonoro oltre che per il suo mondo poetico. Però diciamo che se un riferimento musicale avevo quando ho incominciato a scrivere, era quello di Joni Mitchell.

grazia-di-micheleÈ quello che arrivava anche a noi che ti ascoltavamo. E volevo chiederti se, nel tuo percorso di apprendimento da autodidatta, l’ascolto di Joni Mitchell abbia influenzato il tuo uso di accordature aperte.
Sì, assolutamente. Le canzoni di Joni Mitchell io le suonavo, e guarda che non mi capitava mai – e non mi capita neanche adesso – di suonare brani di altri; avevo ‘tirato giù’ le canzoni di Blue e le conoscevo tutte, le suonavo tutte. Anche dal vivo avevo le mie due-tre chitarre, perché una magari era accordata un tono sotto, una era normale e una era proprio in accordatura aperta.

Come è nato il tuo modo di comporre, tra testo e musica, e come si è sviluppato negli anni?
Tra me e mia sorella c’è un anno e mezzo di differenza, quindi abbiamo vissuto tutto insieme: andavamo a scuola insieme, tornavamo insieme, vivevamo in camera insieme. E mia sorella scriveva tanto, proprio tanto, lei ha sempre scritto poesie, filastrocche, storie. Stava sul suo lettino e scriveva, mentre io ero nel mio lettino che strimpellavo la chitarra, così a un certo punto le ho chiesto: «Mi dai una cosa che hai scritto?» Lei me l’ha data e io ho cominciato a musicarla, in questo modo è nata la prima canzone. Da lì ho capito che era molto facile per me; magari cambiavo alcune parole quando mi sembrava che non suonassero bene, che non fossero musicali. Ricordo che il primo disco Cliché è nato alla velocità della luce. Come ti dicevo, quando sono andata per la prima volta al Folkstudo avevo solo due canzoni. Ed Ernesto Bassignano mi portò da Vincenzo Micocci dicendo che secondo lui poteva essere interessato alle cose che facevo. Quando poi Micocci mi ha messo in contatto con Arturo Stalteri, che sarebbe stato il produttore dell’album, non avevo altro che quelle due canzoni. Però avevo detto che ne avevo tante, anche se non era vero, quindi i tempi per preparare il disco erano abbastanza stretti e le altre canzoni, con mia sorella, le ho scritte molto velocemente, molto di getto. Non mi è mai successo di dire: «Adesso devo scrivere una canzone». Succedeva che c’era un fermento creativo tra me e mia sorella, un fermento molto forte, per cui prendevo i suoi testi e le cose fluivano con semplicità. In alcuni casi mi ponevo un po’ lo schema della strofa e dell’inciso, ma in altri casi manco quello, né sapevo cosa fosse un ponte. Andavo e raccontavo la mia storia.

Grazia-Di-Michele-in-concerto-allo-Studio-2-di-Rete-Uno4Anche Joni Mitchell segue una metrica libera.
Non so se è per quello, forse sarebbe stata la stessa cosa anche se non l’avessi seguita. Perché io non toccavo i testi di mia sorella, e quei testi non erano costruiti metricamente come una canzone. Questo è stato il mio approccio alla composizione, al canto, al mio primo disco. Per quanto riguarda i contenuti, ho sempre pensato che fosse importante avere qualcosa da dire. Se non avevo niente da dire, non mi sono mai messa lì a voler comporre per forza, a voler fare per forza un disco. Quello è stato un periodo che avevamo tutte e due questa attività febbrile; io arrivavo persino a raccattare i fogli per terra che lei buttava, ed è stato un periodo che è durato un po’, abbiamo continuato a scrivere tanto insieme. Poi le nostre vite hanno preso delle strade diverse, lei è diventata medico, io sono andata a vivere a Milano, ed è diventato un po’ difficile proseguire. Allora ho incominciato a collaborare con altre persone, con Pasquale Panella, con Raffaele Petrangeli, che è il mio nuovo collaboratore. Poi mi è successa una cosa strana con Piero Ciampi, in cui ho rivissuto quello che mi succedeva con mia sorella: nel 1995 è stato allestito uno spettacolo, dal quale nel 2000 è stato tratto un disco, Inciampando, partendo dalle poesie di Ciampi che il fratello aveva trovato dopo che l’artista era morto; ed è stato uno spettacolo bellissimo, nel quale ogni musicista intervenuto prendeva il testo che voleva e ci faceva quello che voleva. L’altro giorno ho ritrovato quel blocco con tutte le sue poesie, che era rimasto dentro un cassetto, così ne ho scelte un paio e mi è successa la stessa cosa che mi succedeva con mia sorella: l’ispirazione per la composizione contestuale, al volo.

Per i testi collabori sempre con altre persone?
No, in seguito ho incominciato a scrivere da sola, e tutt’ora scrivo da sola. Sono andata al festival di Sanremo nel 1990 con “Io e mio padre”, che era un pezzo mio, e ho fatto tante altre cose da sola. Ma il mio brano più conosciuto forse è “Le ragazze di Gauguin” del 1986, che è stato scritto da Riccardo Giagni per la parte musicale e da me e mia sorella per la parte testuale. È il brano che mi ha dato la possibilità di farmi conoscere di più, di farmi conoscere oltre il mondo iniziale della It, un mondo bellissimo tra l’altro, che ha rappresentato un grande momento creativo. C’era Vincenzo Micocci che amava creare incontri tra gli artisti, ricordo in particolare una tournée insieme a Rino Gaetano e Goran Kuzminac, ed è stato lui che mi presentato un sacco di collaboratori nel tempo. Era un periodo magico, veramente magico, mai più visto e vissuto.

Nei primi anni ’90 hai intrecciato un rapporto di collaborazione con Rossana Casale, che è culminato nel vostro terzo posto al festival di Sanremo del 1993 con la canzone “Amori diversi”: cosa ha rappresentato per te questa collaborazione dal punto di vista della vocalità e della ispirazione jazzistica?
Io e Rossana abbiamo collaborato ai nostri due album di quell’anno, il mio Confini e il suo Alba argentina, veramente a quattro mani, sia a livello di scrittura musicale che del testo letterario. Vivevamo insieme, andavamo in studio insieme, ascoltavamo musica e andavamo ai concerti insieme, quindi era nata un’amicizia e da questa amicizia anche un confronto artistico. Rossana mi ha aperto un po’ la voglia di lavorare sulla mia vocalità, perché lei proveniva dal jazz e io le invidiavo quella libertà, quella capacità di improvvisare, aspetti che a me mancavano. Così, quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, ho incominciato a capire che forse con la voce potevo osare un pochino di più, il che voleva dire osare di più anche con la scrittura. Nel momento in cui mi sono resa conto che la mia estensione vocale mi costringeva nella composizione musicale a non fare più di tanto, perché pensavo vocalmente di non poter fare delle note più acute o più basse, questo mi ha aperto nuovi orizzonti anche dal punto di vista della scrittura. Perché ho cominciato a scoprire che, studiando, potevo per esempio migliorare i suoni, migliorare l’estensione, l’agilità, la fluidità, cose che da ‘brava cantautrice’ non avevo. Tant’è che dopo è iniziato un percorso di scrittura diverso da quello precedente. E da lì poi si è sviluppato anche l’amore per la musica jazz, non soltanto per l’influenza di Rossana, che ne ascoltava e ne aveva fatta tanta, ma anche perché in fondo ho avuto sempre un amore per quella musica: mi sono resa conto che a un certo punto, nella mia auto, avevo soltanto dischi di jazz e questo mi aiutava a fare percorsi lunghissimi, mi faceva stare bene, mi metteva in sintonia con il paesaggio e con il mondo. Insomma mi sono resa conto che il mio interesse musicale ad un certo punto andava da quella parte. E l’incontro con il pianista e compositore jazz Paolo Di Sabatino non è stato tanto casuale…

Quando hai incominciato a collaborare con lui?
L’ho incontrato sei-sette anni fa, perché lui stava preparando il disco Voices [2011] con brani cantati da altri artisti, e siccome voleva dedicare un pezzo in memoria di Mike Francis, che era mio cugino Francesco Puccioni da poco scomparso, mi chiese di scrivere il testo e di cantare questo brano; che si chiama appunto “Francesco”. Da li poi è nata la voglia di cominciare a collaborare, e lui è uno che capisce qual è il mio mondo, comprende che è un mondo cantautorale e lo rispetta, non lo stravolge. Però le sonorità, gli arrangiamenti, il mondo dei miei ultimi due dischi Giverny [2012] e Il mio blu [2015], nati in collaborazione con lui, cambiano totalmente rispetto a quelli precedenti. E di conseguenza anche le tournée dal vivo sono delle tournée diverse dalle precedenti.

Tornando appunto ai tuoi percorsi musicali precedenti, nel 2001 ti sei diplomata in musicoterapia: com’è nato questo interesse e come ha interagito con la tua vita di musicista?
Tramite Lucio Fabbri, che suonava nella PFM, ho conosciuto Franco Mussida, una persona che proprio amo. Lui, tanti anni fa, è stato uno che mi ha preso per mano e mi ha portato a lavorare con sé a Milano. In quel momento si occupava del CPM, faceva degli interventi nelle carceri, cominciava a parlarmi di musicoterapia, e io l’ho seguito in alcune di queste situazioni. Quando poi sono tornata a Roma, avevo deciso che quel percorso formativo mi interessava e mi sono iscritta appunto in una scuola di musicoterapia. È stata tosta: pensavo fosse una passeggiata di salute, ma non era così. Ho fatto tre anni pieni di formazione e in questa disciplina, che è fondamentalmente un intervento terapeutico dove si utilizza il suono e non la parola per esprimere dei disagi o delle nozioni, in molti casi si utilizzano degli strumenti musicali per creare un dialogo sonoro, ma non necessariamente; a volte, quando non è possibile, quando con i pazienti non è possibile relazionarsi attraverso gli strumenti, la voce diventa un elemento fondamentale, non la parola ma la voce. Quindi, all’interno di questi tre anni di formazione, ho seguito un laboratorio della voce, che consiste nella lettura delle emotività attraverso il suono, cioè in definitiva quello che permette a una mamma di capire se un bambino piange per fame, per sonno, per la pappa, perché è sporco, perché è capriccioso. Insomma, mentre la parola arriva a definire e a dare dei nomi, ma anche a nascondere un po’ i nostri stati d’animo, questo ‘suono’ invece non mente. Tant’è che nei tribunali, se da una parte l’eloquio viene spesso considerato la cosa più importante per capire se un delinquente non dice la verità, è anche vero che il modo con cui egli racconta, le pause che prende, le dinamiche che usa – tutti elementi che sono a disposizione del canto alla fine – sono elementi essenziali per comprendere là dove comincia a esserci una frizione tra la verità e quello che dice…

Grazia-Di-Michele-in-concerto-allo-Studio-2-di-Rete-Uno13Insomma, tu hai iniziato questi studi per una questione d’impegno sociale più che musicale…
Lo è stato e lo è, perché la musica mi stava stretta, perché volevo che servisse a qualche cosa, che andasse oltre. Perché è vero che a ogni disco magari si cambia tutte le volte sala di registrazione, tanto per dirne una, ma in tutto questo c’è comunque una routine. Per cui, siccome poi io non mi fermo mai, volevo fare altro e attraverso la musicoterapia ho fatto tante cose.

Più avanti, nel 2003, sei diventata insegnante di canto della trasmissione televisiva Amici, una cosa che ha sorpreso un po’ quelli che ti avevano conosciuta ai tuoi inizi…
Un po’ ha sorpreso anche me! Terminata la scuola di musicoterapia, e fresca fresca di quel laboratorio sulla voce, ho tenuto per due anni un corso di canto all’Università della Musica, ma è stata una classe particolare: alcuni cantanti avevano delle problematiche non dettate dalla loro apparecchiatura fonomeccanica, ma dalla loro condizione psicologica. Cioè il problema non era che non ti esce la voce e allora ti do il cortisone; il problema era, per esempio, che non ti esce la voce perché tuo padre e tua madre urlano dalla mattina alla sera e hai associato all’emissione vocale un’aggressione. Insomma è stato un modo diverso di approcciare il fattore vocalità. E dopo due anni di questo corso di canto, bello tra l’altro, una bellissima esperienza, la mia formazione da insegnante poteva considerarsi completa. A questo punto è successo che il mio amico Peppi Nocera, che allora era un autore della trasmissione, mi ha invitato a fare la giudice in una sfida. Mi hanno presentato come ‘Grazia Di Michele, cantante musicoterapeuta’, e la prima volta che ho messo piede in quello studio, non sapevo neanche bene di cosa si trattasse. Comunque ho presenziato a questa sfida tra due ragazze cantanti e ho detto quello che pensavo sulla loro voce. Fatto sta che mi hanno richiamato una seconda volta, poi una terza, e alla quarta mi hanno chiesto se ero intenzionata a lavorare con i ragazzi. Per me è nata un’altra nuova esperienza, e adesso siamo giunti al tredicesimo anno! Ma si tratta di un’attività didattica un po’ particolare, fatta a modo mio, tenendo conto che non avevo una formazione da insegnante tradizionale; cosa che poi ho acquisito nel tempo; perché la responsabilità ti viene immediatamente, quando sai che stai lì per insegnare la tecnica a dei ragazzi. Però, mi chiedo, cos’è mai questa tecnica? In Italia non c’è un cantante pop che abbia studiato canto: mi sono interfacciata con chiunque, e se tu mi dici un nome qualsiasi, ti dirò che non ha studiato… Ranieri, sai come ha studiato? Da piccolo lo hanno portato in America per esibirsi come Gianni Rock, ma la sua voce era acerba, così andava in una palestra di pugilato e tirava pugni al pungiball: quando sentiva che la voce cadeva, continuava. In questa maniera lui oggi, alla sua età, fa ancora le acrobazie mentre canta e ha una tenuta di voce pazzesca. Ma a questo c’è arrivato da solo. Per cui, alla domanda sul perché in Italia i cantanti che ho ascoltato per una vita e che amo non hanno mai studiato, rispondo: perché hanno una personalità artistica molto forte, hanno una personalità timbrica, hanno una personalità comunicativa, insomma sono delle persone che hanno delle caratteristiche. Nessuno va da Jannacci e gli dice: «Guarda che sei calante!» Oppure come ti può venire in mente di dire qualcosa a Paolo Conte o a Jovanotti, che c’ha la ‘zeppola’, o a Vasco Rossi che ha un estensione minima? Penso che se a qualcuno fosse venuto in mente di mettere questi personaggi in mano a un insegnante, forse li avrebbe pure rovinati. Quindi la tecnica è importante per imparare come ottenere il massimo dalla tua voce a livello di potenzialità espresse, come mantenerla sana attraverso l’igiene vocale, come migliorare la tua estensione, come lavorare bene sui suoni, come usare la voce nei diversi generi musicali. Lo studio della tecnica è sicuramente molto importante. E da questo punto di vista ho avuto la fortuna di essere stata affiancata negli anni da amici professionisti, a cui io devo molto e con cui ho lavorato: Beppe Vessicchio, Luca Pitteri, Gabriella Scalise, Fabrizio Palma. Però il lavoro sulla personalità, che poi è il lavoro sull’interpretazione, mi ha sempre riportato al punto da cui sono partita, cioè all’ascolto della voce legata alle emozioni in maniera pura, in maniera naturale. E lo studio della personalità artistica o si basa su questo, oppure imparare una canzone dietro l’altra per migliorare la tecnica non approderà mai a nulla.

Nel contesto di Amici sembra prevalere uno stile di canto ‘muscolare’, mentre il tuo è più intimo ed espressivo; come hai vissuto questa apparente contraddizione? C’è stato anche qualche conflitto, o comunque qualche discussione tra te e qualche altro insegnante?
Ci sono stati dei casi in cui questa cosa l’ho espressa. Tante volte ho anche detto che è una roba senz’anima imparare a fare delle cose pazzesche senza raccontare nulla di sé. L’altro giorno ho scoperto cosa vuol dire la parola ‘interprete’: viene dal latino interpres, e si riferiva a colui che chiariva all’acquirente le intenzioni del venditore, cioè a colui che diceva a chi voleva comprare: «Guarda che adesso ti spiego io cosa ti sta dicendo». Per cui, quello che un interprete fa oggi con una canzone è la stessa cosa: prende ciò che l’autore voleva dire attraverso questa canzone e te lo rende comprensibile; ma è lui in prima persona che ti racconta questa cosa, questa cosa passa attraverso la sua sensibilità, le sue corde emotive, la sua ‘interpretazione’. Ho avuto un sacco di ragazzi che non erano questi tipi ‘muscolosi’. Uno di quelli che ho amato di più è il cantautore Pierdavide Carone, che in seguito è stato preso sotto l’ala protettrice di Lucio Dalla, con cui è andato in coppia a Sanremo. Da altri invece mi sento dire che vogliono fare gli interpreti nella vita, allora per loro è importante lo studio della tecnica là dove di siano delle falle, delle problematiche. Insomma, non esiste un solo metodo di canto: sono arrivata alla conclusione che esistono le persone, e ogni persona è un mondo a sé. Là dove uno c’ha un suono nasale, magari a lui sta bene, mentre a un altro lo devi togliere perché è un vizio. Non esiste il suono nasale brutto in quanto tale: sì, è vero, è un suono compresso, ma nel soul per esempio si usa. Puoi anche fare delle lezioni collettive, quando si parla di tecnica in senso stretto, quando devi spiegare come siamo fatti, come funzionano i nostri organi di respirazione, come funziona la respirazione. Poi ognuno è un mondo a sé, ognuno respira a suo modo, ognuno c’ha il suo tempo interiore, c’ha il suo modo di stare sul tempo, il suo modo di gestire le dinamiche, di percepire il testo e di pronunciare le parole, di articolare i suoni. Ognuno è un mondo per il quale non puoi pensare di rendere il lavoro ‘globale’.

Rispetto alla tradizione ‘colta’, nella quale c’è stato uno sforzo storico di creare uno stile interpretativo unitario e uniforme, nella musica pop – grazie al cielo – si trovano diversi tipi di emissione vocale per i vari stili, ci sono scuole diverse…
Io giro un sacco di scuole di musica in Italia. E quando capita per esempio di lavorare sul blues, di studiare la vocalità nel blues, allora impariamo cos’è la nota blu, come si prende, com’è il glissando. Però queste sono cose che, se canti in italiano, assumono un senso diverso. Non è che in una canzone pop in italiano ci puoi mettere le acciaccature del fado! Cioè, lo puoi anche fare, ma io in genere rispetto molto gli stili musicali…

Non si può isolare la tecnica dallo stile…
Non solo, ma non si può neanche isolare dalla storia. L’altro giorno, facendo sempre un lavoro sul blues, parlavamo anche della nascita del soul, della differenza tra la parola blues e la parola soul: perché la musica soul è la musica dell’anima e il blues non lo è? E lì emerge tutto un movimento politico-sociale, le Black Panther, Malcom X, l’orgoglio nero, le etichette discografiche nere, l’idea degli afroamericani di riprendersi la musica, di andare in classifica, fino allo sviluppo della musica funky e del rap. Non è possibile decontestualizzare un fenomeno musicale dal contesto storico, sociale, politico e religioso da cui nasce. E il modo di cantare è strettamente legato a questo. Quindi, nello studio che faccio sul canto, passo delle giornate intere a far ascoltare e basta, a far ascoltare e comprendere. Poi, quando incominciamo ad aver chiaro un fenomeno musicale, possiamo anche approcciarlo vocalmente: si ascolta, si capisce e dopo si vede come è fatto tecnicamente. Perché se arriva un ragazzo che mi dice «io canto blues, ti faccio un pezzo di Etta James che si chiama “At Last”» e mi canta l’apertura andando dritto sulle note, capisco che non sa neanche di cosa sta parlando; se invece arriva uno che mi fa il glissato con il vibratino finale, allora già cominciamo bene. In una scuola di Pinerolo invece abbiamo fatto un lavoro sulle canzoni di Vecchioni e a un certo punto è venuta fuori “La bellezza”, una canzone che lui ha scritto su Morte a Venezia. Allora da “La bellezza” siamo andati a studiarci la scrittura di Vecchioni, siamo andati a vedere il film Morte a Venezia, siamo andati a leggere Thomas Mann. Tutto questo serve tantissimo, perché quando poi canti quella canzone, sai bene che stai cercando di immedesimarti in un uomo di una certa età che si innamora di un bambino, che si innamora della vita, il che è uno sforzo disumano se hai diciassette-diciott’anni, se sei una femmina. Quindi la costruzione della personalità di un cantante passa attraverso questo tipo di lavoro.

Hai svolto un’attività didattica anche al Conservatorio ‘Alfredo Casella’ dell’Aquila: come hai trasportato la tua esperienza di canto ‘popular’ in questo contesto accademico?
All’Aquila, che è stata la mia prima esperienza in un conservatorio, sono arrivata l’anno dopo il terremoto. Tant’è che all’inizio siamo andati a lavorare in un capannone prefabbricato che è la nuova sede provvisoria del conservatorio, poi ci siamo trasferiti nella sede dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese che stava proprio nel centro storico. Quindi è stata un’esperienza incredibile, perché praticamente io e questi studenti eravamo l’unica cosa viva tra le camionette della polizia, in uno spettacolo terribile di rovina spettrale. Tuttavia l’opportunità per questi ragazzi è stata fantastica, perché consisteva nell’avviare l’Accademia della Canzone, un laboratorio di canto pop all’interno del conservatorio, avendo a completa disposizione i bravissimi musicisti dell’orchestra dell’ISA, una formazione molto viva e aperta alle contaminazioni, che aveva già tenuto concerti con Noa, Alex Baroni, Amii Stewart. Il che voleva dire che i ragazzi hanno avuto la possibilità di scegliere dei brani di musica pop e di pensare creativamente come realizzarli con l’ausilio degli strumenti dell’orchestra. Per esempio abbiamo messo su un pezzo dei Rolling Stones, “My Sweet Lady Jane”, con voce, piano e archi. E con un’allieva abbiamo realizzato un duetto con l’accompagnamento di chitarra, archi e percussioni per la canzone brasiliana “Samba em prelúdio” di Vinicius de Moraes e Baden Powell. Da lì poi è nato uno spettacolo, con il quale abbiamo fatto un sacco di date in giro per l’Abruzzo e che è culminato nell’incisione del disco I colori della musica [Icarus Recording Studio, 2012] con dieci studenti protagonisti insieme a me e all’orchestra.

Ti sei anche applicata alla creazione di un’incubatrice sonora per bambini nati prematuri, attualmente in fase di sperimentazione: ce ne puoi parlare?
Durante i miei studi di musicoterapia, ho lavorato per delle esperienze applicative. In primo luogo con una ricerca del Policlinico Gemelli all’ospedale Santo Spirito, che portava avanti una sperimentazione del lavoro musicoterapico con i comatosi, un gruppo di ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni traumatizzati cranici. La situazione era bella tosta, anche perché si richiedeva la collaborazione dei parenti, che in quei momenti ti aiutano poco. Si faceva l’anamnesi sonora del paziente, non l’anamnesi medica, per capire come intervenire con i suoni, con le musiche, con le voci. Poi ho trascorso un periodo al Forlanini con i pazienti psichiatrici, quindi un lavoro all’associazione Anni Verdi con i ritardati mentali con varie problematiche. Infine, quando stavo finendo il corso, dovevo pensare alla mia tesi di diploma e un giorno, mentre stavo con un ragazzo al Santo Spirito, mi sono resa conto che viveva una situazione di sospensione dalla vita, era vivo, non era morto, tutti i suoi parametri si vedevano sul computer. E ho pensato che un bambino nato prematuro era nella stessa identica condizione. Cosa succede, che il personale medico e paramedico, che si prende cura dei pazienti talvolta in maniera devo dire commovente, non considera la problematica psicologica. Tant’è che nei reparti mettono della musica a tutto volume e noi, che avevamo studiato la percezione del rumore nei comatosi, seguendo le testimonianze di chi poi era uscito dal coma, sapevamo che le percezioni uditive sono mostruose: un piccolo suono diventa un suono terribile e, con tutto l’amore per Antonello Venditti, ma nel reparto c’era la sua musica a manetta…

C’era una voce che una volta un bambino si era svegliato ascoltando Venditti…
Ma non era una voce, scientificamente la cosa è provata, funziona così. È un problema di connessioni neuronali, quindi si provano tutta una serie di tecniche per far sì che questo processo si possa attivare. Ora, la musicoterapia parte proprio dal presupposto che l’ascolto è il primo elemento che ci mette in comunicazione con il mondo, perché il bambino ha un senso formato alla ventiquattresima settimana, ed è l’orecchio. Tutti gli altri si formano dopo che nasce, e per quanto riguarda la vista si comincia a veder chiaro dopo un bel po’. Allora, partendo da questo presupposto, l’udito è un elemento formidabile su cui lavorare. Tant’è che quando lavori con un comatoso e gli invii uno stimolo sonoro, i suoi parametri sul computer ti fanno leggere se c’è un cambiamento nella pressione, nel sangue, nella sudorazione. Impari a leggere se uno stimolo ripetuto nel tempo provoca sempre lo stesso tipo di reazione. Allora quello diventa uno stimolo positivo, e questo stimolo può essere la voce della nonna che canta una ninna nanna, ma può essere qualunque cosa, può essere il cane che abbaia, può essere l’inno della Roma, non è che ci sia una legge in particolare. Per questo è utile l’anamnesi sonora, per capire come può reagire una persona da un punto di vista sonoro. E da lì mi sono detta: il bambino che nasce prematuramente perde un contenitore acustico, perché lui dalla ventiquattresima settimana comincia a sentire il respiro della mamma, il sangue, la voce, e più avanti nella sua crescita percepisce anche i rumori esterni. Poi improvvisamente nasce e perde tutto, viene messo in una incubatrice, che è un posto dove fisiologicamente è monitorato, ma non da un punto di vista psicologico. Tant’è che fino a poco tempo fa, stiamo parlando dei primi del ’900, facevano delle manovre invasive sul bambino prematuro, pensando che non avesse il sistema nervoso ancora a posto, che non provasse dolore. Il fatto di considerare il neonato come una persona giuridica, è un fenomeno molto recente. E così è nata l’idea della incubatrice sonora, che è stata l’argomento della mia tesi, cioè uno spazio all’interno del quale, per quanto possibile, il bambino prematuro potesse non ricevere effetti acustici nocivi, come il rumore stesso del motore dell’incubatrice, ma piuttosto continuare a percepire la voce della mamma, i suoni familiari. Per la sperimentazione di questo progetto, siamo stati sovvenzionati da un centro ricerche in Sardegna che si chiama Polaris, ed è stato un viaggio che è durato dieci anni anni. La difficoltà principale è stata capire come fare per togliere quel rumore. E negli anni ci hanno seguito costruttori di incubatrici, tecnici del suono, primari che ci hanno aperto le porte dei loro ospedali, a Cagliari, a Brescia. Alla fine abbiamo capito che la soluzione era un trasduttore di grande livello, che appoggiato sull’incubatrice in un certo modo manda al suo interno quelle sonorità che sono familiari per il piccolo. Chiaramente sono argomenti che richiederebbero un approfondimento, ma ho voluto soltanto farti capire come è nata questa storia dell’incubatrice.
A questi argomenti si ricollega per certi versi anche la mia tesi di laurea in giurisprudenza, che ho discusso due anni fa. Infatti avevo iniziato da ragazza a studiare giurisprudenza, poi avevo mollato per via della musica. E l’argomento di questa tesi riguarda il paesaggio sonoro negli ambienti giudiziari, in particolare con riferimento alle situazioni in cui i bambini devono andare a deporre, per esempio nelle cause di separazione e di divorzio. Anche in questo caso si tratta di creare, dal punto di vista del paesaggio sonoro, un contenitore favorevole per le difficili emozioni dei bambini.

Sono bellissime queste storie, non sapevo che avessi fatto tutte queste cose. Ora quasi mi riesce difficile ritornare al nostro specifico musicale. Ma dicci almeno, per concludere, se stai preparando un disco nuovo.
Sì, ho già iniziato le registrazioni. Sarà un disco molto diverso da tutti quelli miei precedenti. Ma è ancora presto per parlarne.

Andrea Carpi

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