(di Luca Masperone) – Da che Sud è Sud, il nuovo disco del cantautore napoletano, si apre con una commistione di generi, strumenti e ritmi sospesi fra tradizione e modernità. Il testo in italiano, le voci femminili quasi gospel in inglese e una parte rap in lingua araba rappresentano un messaggio chiaro: non ci sono confini e non è il caso di porsene nell’ascolto. Il lavoro prosegue alternando frasi semplici e citazioni ricercate, fra tamburi, streghe, briganti e chitarre battenti. L’epopea e la cultura del Sud Italia trovano di nuovo moderna rappresentazione e la critica al famigerato medico Cesare Lombroso, accennata nella title track, non è casuale: vietato giudicare un libro dalla copertina, molto meglio ascoltare a fondo, scoprendo magari la storia nascosta del Sud, fra strumenti acustici, il ritmo delle tarantelle e un’altra verità sull’Unità d’Italia. Disco fedele alle tematiche e alle sonorità che Eugenio ha fissato in precedenza con brani come “Brigante se more”, “Ninco Nanco”, “Che il Mediterraneo sia”, Da che Sud è Sud è anche l’occasione per ripercorrere insieme a lui un frammento della sua storia pluridecennale, dalla fondazione e successivo abbandono della Nuova Compagnia di Canto Popolare negli anni ’70 fino ai prossimi concerti di febbraio nei teatri.
Il tuo ultimo album mette insieme influenze e mondi differenti, tanto musicali quanto geografici. Qual è il filo conduttore?
Sicuramente il punto di partenza è il Sud, e questo vale per tutta la mia storia. Tanti anni fa partecipai alla fondazione di un gruppo che si chiamava Nuova Compagnia di Canto Popolare: eravamo ragazzi atipici, che sceglievano ritmi, formule musicali e strumenti diversi, fortemente in controtendenza rispetto ai tempi – gli anni ’70 – quando tutti i giovani erano orientati verso la formazione chitarra elettrica, basso e batteria. Io invece fui colpito da uno strumento raro e antico che si chiamava mandoloncello, dotato di cinque coppie di corde, Do basso, Sol, Re, La, Mi, e che apparteneva alla tradizione napoletana anche se all’epoca era completamente superato. Lo acquistai, incominciando a ricavarci dei suoni, ma soprattutto un modo di impiegarlo che era sicuramente innovativo. Il passo successivo è stata la chitarra battente, strumento a quei tempi assolutamente sconosciuto, malgrado ci fossero ancora liutai raffinati che continuavano a costruirla. È caratterizzata dal fatto che tutte le corde si trovano più o meno nell’ambito di un’ottava, quindi senza la presenza di bassi. Cominciammo a suonarla nello stile della tradizione popolare della Calabria e della Puglia, ma con il tempo la chitarra battente ha portato con sé una sonorità assolutamente nuova: sia una forza ritmica, sia la capacità di creare una sorta di pad fatto di corde che risuonano nello stesso range, provocando dei battimenti; da qui il suo nome.
Vuoi approfondire il discorso, partendo dal testo di uno dei brani presenti in Da che Sud è Sud, “Questa non è una festa”, dove racconti di «quando ero studente e cominciavo a studiare l’arte di Sacco Andrea e la sua leggenda»?
Certamente. A quei tempi, andare nelle campagne e ascoltare questi cantatori che ci riportavano al grande blues dell’epopea americana, sia nel modo di cantare che in quello di suonare, era qualcosa di inatteso, di incredibile. Ancora oggi mi chiedo come mai a vent’anni io abbia fatto questa scelta: incoscienza giovanile o forse il coraggio di varcare delle frontiere di sonorità e di strumenti.
Un percorso non dissimile da quello degli etnomusicologi statunitensi, che andavano a registrare i bluesman nella zona del Delta del Mississippi.
Esatto, però non con il gusto della scoperta fine a sé stessa, ma con la volontà di seguire un’estetica musicale che io trovavo estremamente attraente. Oggi osservo il riconoscimento ottenuto da un movimento artistico come Taranta Power, da me fondato alla fine degli anni ’90, il quale ha cambiato profondamente la struttura della trasmissione di questa musica, nel senso che oggi ai miei concerti ci sono decine di migliaia di spettatori, soprattutto ragazzi, al Sud come al Nord. Tutto questo non era previsto, evidentemente queste intuizioni hanno avuto un riscontro, portandoci a scoprire un modo di fare musica, di essere musicisti che è risultato nuovo, per certi versi rivoluzionario, come dico nel brano da te citato.
Puoi spiegarci meglio cosa intendi quando sostieni che, oggi, questa musica è diventata un ‘coro’?
Voglio dire che si tratta di un fenomeno di massa, che ormai non rappresenta più i numeri ristretti di un fenomeno d’élite. La chitarra battente oggi è costruita a ritmi altissimi, venduta e suonata. C’è una risposta significativa soprattutto da parte di una nuova generazione di interpreti: esistono grandi chitarristi battenti, potrei citare Francesco Loccisano, calabrese che è diventato un concertista di livello internazionale. Questo ci ha dato presenza nell’ambito della world music. Nel 2001 ho partecipato al WOMAD Festival di Peter Gabriel in Australia e poi ancora a Singapore. Questi sono stati i primi segnali della presenza di sonorità di strumenti della nostra tradizione nella musica world.
Ci parli ancora di Andrea Sacco, storica figura legata al canto tradizionale e alla chitarra battente?
Sacco è stato un’esplosione d’arte nel Gargano. Da ragazzino ascoltai una registrazione di Alan Lomax, grande etnomusicologo che era venuto in Italia nel 1954-55 per documentare insieme a Diego Carpitella la nostra musica tradizionale. Lomax registrò una breve traccia di Andrea Sacco, voce e chitarra battente, qualcosa di straordinario. Per cui io corsi lì per conoscerlo ed eleggerlo mio maestro. È l’esempio di una miracolosa esplosione di musicalità. Sacco non aveva mai conosciuto i maestri del blues, però ritengo facesse parte di quella categoria.
L’accostamento non fa una piega: dopotutto Alan Lomax è l’uomo che, all’inizio degli anni ’40, scoprì e registrò per primo Muddy Waters nella sua casa presso la piantagione Stovall, appena fuori Clarksdale nel Mississippi. Torniamo alla Nuova Compagnia di Canto Popolare: come mai intorno alla metà degli anni ’70 i vostri percorsi si sono divisi?
Dopo aver partecipato al Festival di Spoleto e avere girato un po’ il mondo, cominciavo ad avvertire la necessità di andare avanti, di scrivere nuova musica. Tutto quello che avevo imparato a livello di tecniche, emozioni e melodie, mi portava a una consapevolezza interna per cui volevo cimentarmi in cose nuove, mettere le tecniche popolari al servizio di composizioni attuali, moderne. Cosa che ho fatto e che continuo a fare.
Sei però ospite nel loro album del 2016, 50 Anni in buona compagnia…
Bisognerebbe dire che in realtà non si tratta proprio di cinquant’anni, sarebbero un po’ di meno: la fondazione della NCCP può essere assegnata al 1970, ma hanno forzato un po’ la mano per fare cifra tonda. Comunque sì, in quell’occasione i miei ex compagni, rimasti pochissimi della formazione originale, mi hanno chiesto di partecipare e io ho fatto volentieri un’ospitata nel loro disco.
Un brano in Da che Sud è Sud che mi è sembrato rappresentativo dell’opera è “Vietato”, dove racconti la storia di un ‘Sud ribelle’ a partire dal Concilio di Trento, fino ad appropriarti della tradizione rivendicandola in prima persona («con i miei ritmi da terzo mondo / di Sud profondo vietato / col mio DNA, quello di sempre / di Sud ribelle vietato»). Come nasce il pezzo?
Innanzi tutto facendo osservare agli ascoltatori che nella musica occidentale, quella classica, per molto tempo è stata assente la tensione ritmica. Nell’orchestra mancavano proprio gli strumenti a percussione; pensa alla musica barocca, che li ignorava completamente. Questo a causa di un evento storico importante, che ha condizionato la nostra cultura occidentale vietando l’uso dei tamburi. Il divieto fu sancito dal Concilio di Trento, che considerava la percussione, cioè l’elemento ritmico, e il ballo come fattori troppo corporei e quindi associati al demonio. La mia canzone racconta l’epopea di questo divieto, che fu trasgredito però nelle feste popolari, ma soprattutto nella terapia dei tarantati, proprio perché si invocava la necessità assoluta che il ritmo guarisse dal morso della tarantola, che poteva anche provocare la morte. In questo caso c’era la deroga a questo divieto, che è storico, reale, non psicologico.
Nel disco, oltre agli strumenti che appartengono alla tradizione, fate ampio uso anche di strumenti attuali, come la chitarra elettrica. Come è avvenuto il bilanciamento tra antico e moderno?
Bisogna dire che come autore, soprattutto negli ultimi tempi, io sono ben lontano dal purismo, ma sono invece teso alla contaminazione. La chitarra elettrica è uno strumento straordinario, insostituibile dei nostri tempi, tuttavia può essere utilizzato in chiave diversa dando spazio a elementi tipici della musica popolare. Come la ciclicità: per esempio Re minore, Sol settima, Do, Re minore, Mi settima, La minore è un giro armonico proprio della musica terapeutica del tarantismo; questo, come altri giri, realizza una ciclicità che è tipica della musica popolare ed è presente anche nella nuova musica africana. Ci si allontana molto dalle caratteristiche della musica leggera, che procede in maniera aperta per arrivare ai grandi finali. Qui invece quasi non si prevede alcun finale, ma una ciclicità inesauribile, presente in tutti i brani del mio ultimo album, che rispettano una circolarità che potrebbe durare per ore e ore.
E la chitarra elettrica in tutto ciò come si inserisce?
Lo fa piegandosi a questo schema, comunque immettendo delle sonorità che esprimono il presente a cui sarebbe, secondo me, riduttivo rinunciare. Oltretutto questo disco, per quanto riguarda i testi, porta tematiche molto legate alla storia contemporanea, quindi sarebbe assurdo rinunciare alla grande prospettiva degli strumenti elettrici, in particolare alla chitarra, che può essere considerata lo strumento più importante dell’ultimo secolo.
Nei testi del disco misceli in modo efficace lingue diverse, se non sbaglio italiano, francese, inglese, latino, spagnolo, arabo, brasiliano, dialetto. Lo fai per la musicalità o per rafforzare quest’idea di unione tra culture differenti?
Essenzialmente per la musicalità. Sono partito un po’ di anni fa dal rap arabo, che mi ricordava molto da vicino un certo rap dei dialetti del Sud ed era funzionale a dare energia e, soprattutto, a rappresentare in modo contemporaneo la realtà musicale odierna. Nell’ultimo album forse ho esagerato un po’ con queste citazioni, ma l’ho fatto perché la comunicazione attuale è condizionata da Internet, che porta nella nostra quotidianità sonorità provenienti da lingue diverse, per cui anche un ragazzino nei colloqui usa delle espressioni che vengono magari dall’inglese o dal francese.
Al di là della musicalità, il fatto di utilizzare varie lingue porta comunque a un abbattimento delle barriere tra le culture, sei d’accordo?
È vero. Quando scrissi “Che il Mediterraneo sia”, che tra l’altro è da circa vent’anni colonna sonora del programma Rai Lineablu, la prospettiva era quella di un reale abbattimento di frontiere, di diffidenze. Quando porto la mia ‘musica di taranta’ in Marocco, in Egitto o in Tunisia c’è un riscontro forte; quindi parliamo di una realtà mediterranea che è vera, non è retorica, è un fatto reale. Tornando all’ultimo album, quando ho pensato di scrivere una canzone contro la guerra, avrei potuto chiamarla semplicemente “No alla guerra”, invece ho usato l’espressione “Pas de guerre”, in francese, che è la voce del mondo coloniale africano che urla; e questo grido risuona anche da noi. Oggi dire “No alla guerra” in italiano ha un senso un po’ retroattivo, invece “Pas de Guerre” è il presente, è l’Africa che si ribella e lotta per la propria libertà.
Uno dei brani che riflettono maggiormente il tuo lavoro fra tradizione e modernità è il già citato “Questa non è una festa”, dove, tra chitarre acustiche ed elettriche che collimano alla perfezione, citi la figura dei briganti, a te molto cara. Vuoi parlarci di quelli che diversi libri hanno dipinto come ‘sanguinari nemici dell’Unità d’Italia’?
Quella del brigante è una figura in qualche modo ghettizzata e messa nel dimenticatoio della storia, un po’ come i maestri cantori che andavo a scoprire negli anni ’70, personaggi tagliati fuori dall’attenzione collettiva. I briganti – e questo sta venendo fuori sempre di più – erano degli ‘uomini contro’, un po’ come succede a tutte le latitudini e in tutte le epoche. In questo senso mi viene in mente un grande brigante che si chiamava Ninco Nanco: c’è una foto dopo che gli hanno sparato a tradimento, nella quale si vede il suo volto che ricorda da vicino l’icona classica di Che Guevara. Dare spazio, ridare voce ai briganti è sicuramente qualcosa che mi viene attribuito; basti pensare al brano “Brigante se more”: lo scrissi tanti anni fa insieme a Carlo D’Angiò, entrambi fuoriusciti dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, ed è diventato una sorta di inno. Ora ritrovo che questo canto viene intonato dai No Tav di Val di Susa, così come dai Forconi della Sicilia; quindi dal Nord al Sud queste rivendicazioni di briganti sono vissute oggi in maniera molto contemporanea.
E visto che sei genovese, vorrei aggiungere che per il cosiddetto ‘popolo della Taranta’ – questa legione di giovani che hanno fatto una scelta di rifiuto della musica globalizzata – uno dei punti di riferimento, forse il più importante, è il grande Fabrizio De André: si può fare una festa di tarantella calabrese e si finisce col cantare “Bocca di rosa” o “Via del Campo”.
A questo proposito parli di «briganti di ultima generazione», di «figli di una rivoluzione senza fucili e senza barricate». Vuoi spiegare meglio cosa intendi?
Esiste una tipologia di pubblico molto pacifica però motivata: io li definisco i ‘briganti di ultima generazione’, quelli che si contrappongono ai talent show, allo scempio televisivo della globalizzazione, cioè al tutti uguali sul modello unico. I briganti sono i ragazzini, come ne trovi ai miei concerti, che hanno dieci anni, vengono dall’Abruzzo, dalla Calabria, e sono già dei virtuosi di tamburello: ecco, quelli sono personaggi in controtendenza rispetto alla massificazione globale.
Il tema dei briganti si ritrova anche in uno degli ultimi brani del disco, “Mille diavoli rossi”, che parla di Garibaldi e dove sottolinei che «la resistenza è brigantaggio / perché non ha licenza regolare» e «perché vale la legge del più forte”; e fai dire allo stesso Garibaldi: «diavoli rossi non eroi / questo siamo noi». La descrizione che dai è molto diversa da quella ufficiale; cosa puoi dirci a proposito?
Nella storiografia ufficiale, per quanto riguarda Garibaldi, ci sono dei limiti. Ad esempio manca un racconto dettagliato sul suo passato in Sud America, quando lui era praticamente un corsaro. Chiaramente spumeggiante, personaggio pittoresco, però proveniente da un passato nebuloso, è arrivato in Italia, ha fatto la Spedizione dei Mille e poi è ‘scomparso’. Questa scomparsa di solito non viene spiegata, né raccontata. Quando lui nel 1862 venne ferito in Aspromonte, tutti pensano che siano stati i briganti a ferirlo, invece fu l’esercito italiano: Garibaldi, una volta esaurito il suo compito, venne emarginato e finì poi esule o prigioniero a Caprera. È questa epopea che ho voluto raccontare in “Mille diavoli rossi”.
Come mai la scelta di un arrangiamento ska per questo brano, con le chitarre in levare e i fiati?
Mi sembrava che l’ironia, già insita nello ska, fosse il modo migliore per sottolineare musicalmente la storia di Garibaldi.
Puoi parlarci dei musicisti che hanno realizzato con te questo lavoro?
Vorrei citare Ezio Lambiase, che viene dalla chitarra classica però è un grande chitarrista elettrico: lui è la controprova di come oggi anche uno strumentista classico debba conoscere il rock, avere in mente la storia del blues e conoscere la tecnica della chitarra a plettro, le improvvisazioni di Hendrix o di Al Di Meola; è importante incamerare in un discorso nuovo tutti questi elementi fondamentali. Poi c’è Stefano Simonetta, soprannominato ‘Mujura’, autore calabrese ma anche lui grande chitarrista acustico e bassista. Infine vorrei citare un terzo personaggio: Elio ‘100 grammi’, che fa parte del gruppo dei Bisca dell’underground napoletano, quello più arrabbiato; lui però negli ultimi tempi è diventato un cultore degli strumenti popolari.
Nel brano “Canzone di periferia” canti la musica «che gira lontano dal giro che conta» e dal «carro dei vincitori»; qual è il suo potere?
“Brigante se more” la cantano in tutte le regioni italiane, eppure non si sente in televisione o alla radio; molti non sanno nemmeno che l’ho scritta io. Nella “Canzone di periferia” parlo della capacità di una melodia, di un tema, di una strofa di arrivare al cuore della gente in modo diretto.
C’è chi dice che se la sai a memoria ma non sai chi l’ha scritta, allora è musica folk…
Esatto. In questo senso sono molto fiero di questa composizione, mi auguro che nell’ultimo disco ce ne siano altre che abbiano la stessa sorte.
A febbraio ripartirà il tuo tour nei teatri, ce ne parli?
Si tratta di un percorso coraggioso: invito i miei ascoltatori, che spesso nelle piazze fanno rumore e grande festa, a entrare nei teatri, dove si sacrifica un po’ l’atmosfera di trasporto diretto, ma c’è la possibilità di trasmettere dei messaggi. Il teatro per me è il posto ideale per la musica, perché c’è l’ascolto attento, vorrei dire severo, di chi sta seduto su una comoda poltrona e ha di fronte degli strumenti acustici. È una scommessa che mi sento di poter vincere. Poi il mio pubblico alla fine si scatena comunque, perché ai miei concerti c’è una reazione corporea molto forte.
Quale formazione ti accompagna in questa avventura?
Ci sono ‘Mujura’ ed Ezio Lambiase, che ho citato prima, c’è Sonia Totaro, corista ma soprattutto ballerina di taranta, la più forte che abbia conosciuto. C’è una percussionista, Francesca Del Duca, che è napoletana però ha vissuto molto in America e in Australia, quindi ha una forte esperienza di sintesi di sonorità diverse; poi c’è Mohammed El Alaoui, in rappresentanza della nuova legione araba.
So che recentemente hai partecipato anche a un singolo, “Domani”, con i tuoi fratelli Edoardo e Giorgio: com’è nato il progetto?
È stata un’iniziativa di un nostro comune amico, Gino Magurno, autore della canzone, il quale ci ha proposto di cantare un pezzo insieme e noi, con molta leggerezza, lo abbiamo fatto. È stata una bella rimpatriata, perché noi tre siamo partiti da bambini assieme, abbiamo pochi anni di distanza l’uno dall’altro. Quindi ci siamo ritrovati in questa avventura quasi come fosse un gioco.
Luca Masperone