venerdì, 22 Settembre , 2023
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Per una visione più allargata delle possibilità di uno strumento puro – Intervista a Sergio Altamura

(di Gabriele Longo) – Nel corso del suo lungo percorso musicale iniziato in ambito rock, Sergio Altamura ha sperimentato quasi tutto. Dopo vari album registrati con diverse formazioni, ha debuttato nel 2004 con il suo primo progetto discografico solista, Blu, pubblicato con l’etichetta Imaginary Road Music e prodotto negli Stati Uniti da Will Ackerman, fondatore della storica Windham Hill.

Sergio Altamura - foto di Michele Cipriani
Sergio Altamura – foto di Michele Cipriani

Nel 2009, con l’etichetta americana CandyRat, è seguìto Aria meccanica, che in forma di concept album ha esplorato tutte le possibili sonorità create dalla e ‘contro’ la chitarra acustica. Loop, voci processate, percussioni, oggetti ed elettronica sono sapientemente miscelati in una folgorante visione poetica, in cui il musicista pugliese mostra la vastissima gamma di possibilità timbriche e compositive della chitarra acustica contemporanea. Nel disco così come dal vivo, Sergio suona la 6 e la 12 corde utilizzando una serie infinita di cose, anche di uso quotidiano (archetto, ventole, bulloni, radio), nonché live electronics, loop e voce processata; e l’aria meccanica prodotta è proprio quella mossa dagli ingranaggi di tutti questi oggetti, che preparano la chitarra a dare ciò che Sergio desidera in quel momento. L’orchestrazione definitiva, frutto di sovrapposizioni e di elaborazioni, rimanda a una gamma di suoni davvero impressionante e a una poetica visionaria di fortissimo impatto: un’esperienza musicale per l’ascoltatore, che vive una dinamica emozionale di tensione e di distensione.
Abbiamo avuto il piacere di assistere a un concerto privato di Sergio Altamura a Roma, avvenuto il 26 dicembre scorso proprio il giorno dopo il suo compleanno, e di fare un’interessante chiacchierata con lui, poco prima dell’esibizione, sul suo fare musica, sul suo rapporto con lo strumento e su altro ancora.

Ciao Sergio, grazie di aver accolto l’invito di Chitarra Acustica. Vorrei subito entrare nel vivo, chiedendoti di parlare del tuo modo di intendere lo strumento e conseguentemente del tuo fare musica.
Sì, diciamo che le due cose sono assolutamente concatenate, perché il mio utilizzo peculiare della chitarra deriva soprattutto dagli ascolti che ho fatto in passato, sia da giovane che da adulto. Ho spaziato tra le varie musiche del mondo, la musica europea, il jazz, il blues, tanta sperimentazione in ambito rock, molta musica contemporanea, sia classica che elettronica. Questi ascolti molto diversificati mi hanno portato a ricercare sullo strumento un certo tipo di suono, che comunque sentivo derivare da questi ascolti. Ed è per questo che l’utilizzo dell’archetto o di alcuni oggetti per produrre suoni particolari con la chitarra, non è altro se non l’esigenza molto estetica, mentale se vuoi, di ottenere quel certo tipo di suono in quel momento lì, in quella composizione lì. Ecco, questo è fondamentalmente il mio modo di concepire lo strumento chitarra…

Non, quindi, perché vuoi far scaturire dalla chitarra acustica una sonorità ‘inedita’ tout court, ma proprio per un’esigenza artistica di voler ottenere quella sonorità di cui senti il bisogno…
Certo, certo, funziona in questo modo. Almeno per me funziona così. Non è un sottoporre necessariamente la chitarra a degli sforzi assurdi. Per me è solo una questione legata alla composizione. In quel momento lì io ho bisogno di un suono che rappresenti un certo tipo di cosa all’interno della composizione, e me lo vado a cercare. E lo inserisco. Infatti, una delle particolarità che penso di avere nelle mie composizioni è la linea melodica, che metto sempre in primo piano e che lega tutto ciò che avviene successivamente, con questo mondo sonoro molto esteso che creo intorno. Per cui, c’è un trait d’union nell’utilizzo di questi rumori, di questi suoni, alcuni bellissimi, altri ‘bruttissimi’…

Sergio Altamura - foto di Simona De Vincenzo-
Sergio Altamura – foto di Simona De Vincenzo-

Colpisce questa valutazione da parte dello stesso compositore…
No, perché il ‘rumore’ inserito all’interno di una concezione compositiva abbastanza definita può apportare un qualcosa di molto bello alla composizione stessa… Altrimenti sarebbe come se noi vivessimo un quotidiano sempre tutto molto bello: sarebbe noioso. E invece c’è sempre quella parte del quotidiano che ci mette un po’ d’ansia, ma quell’ansia poi può scaturire in gioia, in felicità. Ecco, quest’alternanza di suoni crea un dialogo con chi ci sta ascoltando, il quale può essere infastidito da certe cose, ma subito dopo può rilassarsi perché trova un elemento di distensione.

Insomma, una parafrasi del fluire della vita, con le sue sofferenze e difficoltà che sfociano poi in gioia e in emozioni positive. Questo scenario è molto più realistico, credibile, che non un isolare da puri esteti solo suoni belli e armonie consonanti
Certo. Noi siamo fatti di tante cose, tante emozioni e… anch’io lo sono, per cui metto fuori sia il mio lato irrequieto, sia quello rilassato, pacifico. Secondo me questa è una componente molto importante, almeno per me che compongo musica.

E la chitarra, nel tuo ruolo di compositore, è un qualcosa da cui parti e a cui ritorni, oppure può essere solo un transito, un tratto di strada?
Dal punto di vista dello strumento, diciamo che io suono la chitarra… per caso! Non ho mai scelto di suonare la chitarra. La realtà è che la suonava mio padre, per cui per me era normale che, volendo suonare qualcosa, suonassi la chitarra. Le chitarre le trovavo in casa e così mi è venuto istintivo iniziare a suonarle. Sono passati tanti anni, dopo i quali mi sono fatto anche delle domande circa il fatto di aver ‘scelto’ di suonare questo strumento, perché poi ho cominciato a interessarmi ad altri, come quelli ad arco, a fiato, a percussione…

Sergio Altamura - foto di Maria Pansini
Sergio Altamura – foto di Maria Pansini

E questo si vede abbastanza chiaramente da come ricerchi, ora con l’ausilio dell’archetto del violino, ora con la percussione sulla cassa della chitarra, altri modi di esprimerti legati ad altri strumenti che non sono necessariamente la chitarra.
Certo, certo. Questo, come ti dicevo prima, viene fuori anche dal fatto che – dal punto di vista creativo – capita di pensare a una composizione dove in certi punti vorresti sentire degli archi, per esempio, e allora mi sono messo lì come un bambino a cercare di tirar fuori quei suoni lì. Poi, naturalmente, con gli anni i suoni sono via via migliorati, la tecnica è migliorata, alla fine tutto ciò fa parte del mio bagaglio che esprimo nei miei concerti. Questa sera vedrai e ascolterai un concerto che sarà più completo di quello cui hai assistito l’agosto scorso [al Festival internazionale della chitarra di Menaggio], perché in quell’occasione ho suonato per circa quaranta minuti. Stasera, invece, l’esibizione durerà un’ora e un quarto circa, e ci sarà il suono naturale della chitarra acustica, ma anche la chitarra con il loop e la chitarra suonata in maniera percussiva, poi ancora un synth a pedale che si chiama Taurus, della Moog, con cui faccio delle linee di basso mentre eseguo delle linee melodiche sulla chitarra, quindi le voci processate e infine… sorpresa!

OK, Sergio! Ci hai parlato dei due aspetti del tuo fare musica, concatenati tra di loro: il chitarrista e il compositore, dove il compositore quasi plasma e piega alle proprie esigenze il chitarrista. Per quanto riguarda Sergio Altamura e la sua chitarra, qual è il rapporto del chitarrista col proprio strumento nella quotidianità?
Allora, io considero due fasi: la fase della mattina che è quella degli esercizi, e sono gli esercizi più tradizionali; e quella del pomeriggio, più libera, più creativa. La mattina suono gli arpeggi, le scale e, avendo avuto problemi di tendinite, tutta una serie di esercizi specifici per non avere dolori alla mano. Comunque sia, l’esercizio giornaliero secondo me serve molto, perché inizi a intrattenere con lo strumento un contatto quotidiano e, tra virgolette, ‘artigiano’; no? Poi, dopo questa fase, comincio a ‘suonare’. Diciamo che, da un punto di vista creativo, le ore del pomeriggio sono le migliori… ma detto questo non è poi sempre così, perché magari il pomeriggio non ti viene niente! [ride] Sai, è tutto molto aleatorio: puoi fare un pezzo bellissimo e completarlo in cinque minuti, ma il problema è quando ti arrivano ’sti cinque minuti! Comunque, diciamo che alterno un rapporto molto tradizionale con lo strumento a una fase di ricerca, di sperimentazione, che è un ampliamento della modalità classica di procedere. Insomma, io non rinnego niente di alcuni miei pezzi tipo “Luna”, “Mr. Art Valnades”, o “Fog” [tratti da Blu – N.d.R.], che sono brani arpeggiati, senza effetti, senza niente se non il suono della chitarra acustica suonata in maniera ‘pura’. Detto questo, io non sono un purista, non sono un chitarrista acustico puro, proprio perché suono uno strumento elettrificato che mi permette una serie di cose, che la chitarra acustica in sé non mi permetterebbe di fare. Cioè il segnale passa attraverso un cavo, poi un mixer, poi un impianto… Questo segnale fa un ‘percorso’, il quale percorso può incontrare un sacco di ‘amici’ e diventare qualcos’altro. Tutto questo, possiamo dire, rappresenta una visione più allargata delle possibilità che può avere uno strumento puro; però sempre collegata al fatto che senti l’esigenza di certi suoni e – conseguentemente – ti fai venir fuori delle idee per poterli ottenere e inserire nelle composizioni.

Certo; che poi è tutto qui. C’è chi sceglie, come te, di partire da uno strumento acustico per ampliarne le potenzialità attraverso la tecnologia; oppure chi si ‘ferma’ alla valorizzazione delle naturali potenzialità dello strumento.
Ma sai, come ti dicevo prima, tutto è partito dalle esigenze maturate in base agli ascolti che ho fatto in passato, e che mi hanno riportato a quel tipo di sonorità che sono andato poi a ricreare. Io, per esempio, sono stato un chitarrista elettrico fino ai miei venticinque-ventisei anni. A vent’anni, comunque, ho iniziato a studiare la chitarra acustica, fino a che queste due strade a un certo punto si sono unite. Per cui ho scelto, sì, la chitarra acustica, ma non ho abbandonato l’effettistica che avevo usato con la chitarra elettrica. Nel mio caso, quindi, uno strumento non ha escluso l’altro. Poi, ciò che conta sono le idee.

Sergio Altamura - foto di Circolo H
Sergio Altamura – foto di Circolo H

Quando suonavi l’elettrica che genere suonavi?
Come ti ho anticipato prima, mio padre era musicista, per cui la prima musica che ho ascoltato è stata quella che suonava mio padre. Cioè tutta la musica rock degli anni ’50, ’60, ’70 da Elvis ai Led Zeppelin, Pink Floyd compresi. Sono cresciuto con quegli ascolti lì: mio padre suonava quella musica, per cui le prime cose che ho imparato sono state quelle; sai, me le ha insegnate proprio lui. C’erano quei dischi in casa e io ascoltavo quelli. Per me, quindi, la chitarra elettrica era la chitarra rock, Jimi Hendrix, Jimmy Page…

Qual è stata la tua prima chitarra elettrica?
Una Stratocaster del ’66 di mio padre. Ce l’ho tuttora, insieme all’ampli Fender Twin Reverb del ’67, sempre di mio padre.

Beh, penso sia stato un privilegio aver avuto un padre che ti ha trasmesso un bagaglio simile di prima mano.
Sì, sì, certo… Ma, sai, sempre un genitore era: quando ha intuito che avrei voluto fare il musicista di professione, non l’ha presa tanto bene! Sai, un genitore si preoccupa sempre del futuro dei propri figli. Poi, pian piano, è venuto a sentire qualche mio concerto con l’acustica, e lì s’è convinto. Anzi, m’ha spronato tantissimo ad andare avanti, m’ha aiutato molto. E anche mia madre l’ha fatto.

Tornando al tuo periodo di formazione come chitarrista rock, componevi già allora?
Sì, l’ho sempre fatto. Ti racconto tutta la storia. Mio padre, oltre ad essere musicista, era gelataio; sai, quando sono nato, lui s’è dovuto dare una mossa! Così si è messo a lavorare al bar gelateria di mio nonno, trasferendo anche a me il mestiere imparato da suo padre. Ho cominciato all’età di otto anni e da allora ho sempre lavorato: dai miei tredici anni in su lavoravo d’estate sui camioncini per i gelati – la mia famiglia, nel frattempo, si era trasferita in Belgio – e mi sentivo come fossi in tournée, solo che facevo il gelataio ambulante! Con il guadagno di quelle prime estati, però, comprai il mio primo registratore 4 tracce Tascam a nastro; e da allora ho sempre registrato composizioni mie. All’inizio erano alquanto rockettare, diciamo fino ai diciassette-diciotto anni. Poi, una volta trasferitomi a Bologna, ho comprato l’ADAT, il registratore digitale a 8 tracce. Molti anni dopo sono passato al computer e… ora sono ritornato al nastro: ho comprato un registratore Telefunken M15 24 tracce a nastro che mi ha venduto Roberto Carlotto, il tastierista dei Dik Dik; era il registratore che si trovava negli studi dell’etichetta discografica CDI, un apparecchio di modernariato degli anni ’70. Sai, in confronto ai registratori digitali, utilizzandolo mi è cambiato anche il modo di suonare: con il nastro devi saper suonare, devi fare musica in diretta; mentre il problema del registrare in digitale è che suoni per mezz’ora, poi stai davanti al computer per una settimana! Si smanetta tantissimo, troppo. Tant’è vero che a volte ascolti dei dischi che suonano benissimo – da quando è entrato il digitale non ci sono più errori! [ride di gusto] – poi magari vai ad ascoltare quel certo musicista dal vivo… e c’è qualche problema!

Quello che dici è molto vero. Ci sono dischi di grandi del passato che riportano degli errori lasciati lì, perché comunque la musica camminava alla grande…
Era una cosa più umana rispetto a quello che ascoltiamo oggi. La maggior parte delle cose che si ascoltano adesso non sono molto vere, corrispondono perlopiù all’idea di come dovrebbe essere… Non c’è il musicista che si presenta onestamente, nella sua bravura ma anche nella sua debolezza.

Sergio, cosa stai progettando per il prossimo futuro?
Sto preparando un CD dove inserirò tante cose diverse e nuove. Nel concerto di stasera suonerò solo uno dei miei nuovi brani, giusto per anticipare il prossimo lavoro. Sarà un disco dove utilizzerò più strumenti, non solo la chitarra acustica: ci saranno anche dei sintetizzatori e la chitarra lap steel, oltre ovviamente alla chitarra acustica preparata, suonata con l’arco e gli altri miei ‘giocattoli’, quella che è un po’ il mio stampo. Il tutto con delle sonorità molto allargate. Penso a questo CD come a un’estensione del lavoro che ho fatto in Aria meccanica, il mio secondo disco solista. Anche perché considero i miei dischi l’uno successivo all’altro: ad esempio l’ultimo brano di Blu e il primo di Aria meccanica sono in un certo senso lo stesso pezzo che si evolve. In effetti sono legato a queste cose da concept album degli anni 70’! Mi sembra che possa essere una specie di gioco, nel quale lascio un indizio su come posso essere io come persona in evoluzione e in rapporto alla musica. Registrerò il disco nel mio studio, in analogico appunto, a Bologna dove vivo e lavoro, affiancando questa produzione a quelle che realizzo per terzi. Ho già prodotto tre lavori, uno dei quali è il disco dei Nagel, duo formato da un tastierista elettronico e un violoncellista, con il titolo Seven Songs for a Disaster: un titolo già molto premonitore!

E che mi dici del trio Guitar Republic?
Beh, guarda, noi ci divertiamo un sacco a suonare insieme. Quello che è molto impegnativo è trovare date per i concerti, cosa che non sta accadendo come dovrebbe accadere. Perché secondo me Guitar Republic è una delle realtà chitarristiche più potenti a livello mondiale: una realtà che porta innovazione, musica intelligente, divertimento; insomma c’è tanto nel trio. Guarda, io non voglio essere presuntuoso, ma forse siamo arrivati vent’anni in anticipo! Sai, a quarantacinque anni appena compiuti certe affermazioni me le posso permettere! Secondo me oggi le cose più interessanti per la chitarra acustica stanno venendo dall’Europa, e non più dagli Stati Uniti, non più dal Canada. Stiamo parlando di cose nuove, di aria fresca. Una volta arrivata la chitarra acustica in Europa, qui da noi hanno cominciato a ragionarci sopra, a mostrare la consapevolezza di una tradizione secolare: è come se avessimo ampliato il linguaggio della chitarra acustica, che viene certamente dall’America, ma a cui abbiamo aggiunto qualcosa di diverso. Un po’ come è successo nel jazz, dove con i musicisti europei è arrivata aria nuova fatta di contaminazioni con la nostra tradizione della musica classica e contemporanea, rinnovandone ed evolvendone il linguaggio. Tu hai visto che la piazza di Menaggio, dove abbiamo suonato col trio, era gremita di gente per la maggior parte vacanziera, che però è rimasta lì per tutto il concerto. E allora vuol dire che se le cose vengono proposte con onestà, sincerità e dedizione, il pubblico lo capisce. Una cosa che mi dispiace dell’Italia, è che gli stessi organizzatori di concerti dovrebbero promuovere molti più artisti italiani di quanto non facciano. Invece di fare un concerto col grande nome, fanne tre, quattro con artisti italiani, così metti in moto nuove forze di musicisti che propongono cose fatte bene. Questo è quello che penso.

Mi auguro che quanto auspichi per il trio e per la buona musica italiana diventi prima o poi una realtà!
Eh, sì… sperando di non diventare troppo ‘grandi’ nel frattempo!

Gabriele Longo

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