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La notte in cui inventarono il rock

La notte in cui inventarono il rock
Jimi raccontato agli adolescenti
di Reno Brandoni / illustrazioni di Chiara Di Vivona

Avevo in mente l’idea di un libro illustrato su Jimi Hendrix, dedicato ai più giovani. L’impresa era ardua da realizzare: bisognava convincere il coeditore, ma soprattutto i genitori dei possibili futuri lettori, che Jimi non era quel concentrato di ‘dissolutezza’ e perversione narrato nelle leggende della storia del rock. Jimi era un ragazzino come tanti, affamato dalla povertà, emarginato, discriminato a causa del colore della sua pelle e vessato per il suo mancinismo.

Sembra strano soffermarsi su quest’ultimo punto, ma vi ricordo che negli anni ’50, negli Stati Uniti, chi usava la mano sinistra invece della destra veniva curato con l’elettroshock. Oggi rimaniamo stupiti, basiti e increduli nel sentire questa storia, ma così andavano le cose. Come dico sempre negli incontri con i ragazzi per presentare il mio libro: «Chissà quante risate si faranno domani i nostri posteri, nel ricordare quelle che noi, oggi, consideriamo ‘diversità’!»

Ma torniamo a Jimi. Suo malgrado, fu costretto a suonare la chitarra nel modo ‘giusto’, utilizzando la destra invece della sinistra… L’obbligo di suonare la chitarra in maniera ‘innaturale’ rispetto al suo istinto lo aveva costretto ad avere una visione totalmente diversa, e forse innaturale, della struttura tecnico-musicale dello strumento. La sua attitudine lo portava a usarlo da mancino, ma – per non insospettire il padre, racconta il fratello – riuscì a sviluppare un’eccellente tecnica ‘ambivalente’, per cui era in grado di suonare un brano iniziando da mancino per concluderlo da ‘destro’ (e non da ‘giusto’) se sentiva dei passi arrivare nella sua stanza.

Ecco cosa era Jimi, un ragazzo dai mille sogni, che viveva in una delle situazioni peggiori in cui si potesse trovare un giovane a metà del secolo scorso negli Stati Uniti. Ma era anche un grande talento. Curioso, disciplinato e costante nello studio del suo strumento. Un musicista dotato di grande personalità e carisma. Infatti fu notato subito per la sua bravura e ricevette un’offerta di lavoro persino da una star come Little Richard, che aveva bisogno di un chitarrista che lo accompagnasse nei suoi concerti.

Jimi avrebbe potuto cambiare vita, avere un lavoro, essere ben pagato. Ma il desiderio di rappresentare sé stesso, di giocare le sue carte per riprodurre la sua musica, lo rendevano invadente facendolo allontanare da tutti. La sua musica era troppo prepotente, troppo caratterizzata e il pubblico, incuriosito durante i concerti, non guardava che lui. Troppo, anche per una star come Little Richard. Così ogni contratto di lavoro svaniva prima ancora di iniziare.

Lo pregarono di adattarsi, di accettare sul palco un ruolo secondario, tanto da potersi guadagnare qualcosa per sopravvivere. Jimi, invece di modificare il suo ego in attesa di tempi migliori, preferì la fame pur di difendere la sua onestà intellettuale. Fu una scelta dolorosa che lo costrinse persino all’espatrio. Abbandonò gli Stati Uniti alla volta di Londra, cercando di conquistare un altro territorio, in quel momento più fertile e più vicino alla propria musica e alle proprie idee.

Partì pieno di entusiasmo convinto che l’Inghilterra, in quel momento affascinata dal blues, sarebbe potuta diventare la sua nuova patria musicale. Ma partì soprattutto attratto dal desiderio di conoscere Eric Clapton, considerato all’epoca il ‘dio della chitarra’; infatti, nel presentare i concerti di quest’ultimo, si citava quasi sempre la frase «Clapton is God». Inutile raccontare dell’incontro tra i due: basti sapere che lo stesso Clapton rimase stupito e attratto dalla tecnica e dal suono di Jimi. Come lui altri personaggi che non potremmo certamente definire minori, per esempio i Beatles, gli Who, i Rolling Stone… ovvero, quasi tutta la scena inglese.

In Inghilterra Jimi raccolse il successo che meritava e poté così tornare in America, da ‘straniero’ ma anche da eroe, conquistando il Monterey Pop Festival col suo gesto più inaspettato e famoso: quello di dar fuoco alla sua chitarra sul palco.

Cos’è quindi Jimi? Un’icona del mal pensiero, della turbolenza depravata, un menestrello della cultura psichedelica delle droghe e degli stravizzi? Tutto questo potrebbe far parte della vita di ogni uomo, ma nel caso di un musicista serve solo per trasformarlo in un ‘artista maledetto’: così come piace tanto al pubblico, nascondendo la fatica e le vere ragioni del suo successo.

Jimi invece era un extraterrestre venuto da una galassia lontana, mille anni avanti a noi. Aveva talento, competenza, spirito di abnegazione, determinazione, diffidenza verso le mode dettate dagli altri e sempre alla ricerca di un proprio modello, che rispecchiasse il più possibile il suo intimo più profondo.

Ecco cosa racconto ai ragazzi sotto lo sguardo spaventato ma affascinato di genitori e insegnanti. Preoccupati che tra le tante storie emerga la parte più becera e irraccontabile del mito del rock.

Io invece mi soffermo sull’impegno, sulle delusioni, sulle amarezze, sulla fatica necessaria per trasformare un sogno impossibile – altrimenti che sogno è – in realtà. Jimi ci insegna che ci si può lanciare, affrontando ogni ostacolo, fidandosi solo del proprio istinto e del proprio talento, anche contro tutto e tutti. Ecco cosa mi piace di lui, l’aver creduto intensamente in sé stesso.

Reno Brandoni

 

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