(di Giovanni Palombo) – La scomparsa di John Renbourn è un momento doloroso per il mondo della musica e ancor di più per quello della chitarra acustica, di cui John è stato sempre uno dei riferimenti più importanti. Un talento visionario lo aveva condotto a uno stile trasversale e dunque, necessariamente, originale. Uno stile in cui convivevano il classico e il barocco, il folk e il blues, la curiosità verso il jazz e, in definitiva, il tentativo di riunire in una sola voce l’eredità musicale europea con i nuovi stimoli di oltreoceano, traghettati dal blues.
Inizialmente inviso ai puristi sia della chitarra classica che del folk più tradizionale, insieme a Bert Jansch – con cui divideva musica e appartamento – aveva conquistato in breve tempo un posto di prestigio e notorietà nel nascente folk revival inglese, fino a dare vita con Bert al gruppo dei Pentangle, che in poco tempo si trovò in cima al pantheon dei protagonisti della nuova musica acustica, innovativa e aperta a influenze disparate. La musica dei Pentangle, con la ritmica di Danny Thompson e Terry Cox, e la voce di Jacqui McShee oltre alle chitarre di John e Bert, era il riflesso di un periodo ricco di forti cambiamenti, di un rimescolamento culturale che nella musica vedeva nascere e progredire nuove idee. Oltre a una fortunata tournée inglese, i Pentangle si trovarono immediatamente proiettati negli Stati Uniti, dove ebbero l’opportunità di suonare nei luoghi in cui stava accadendo tutto il nuovo, dal Newport Festival ai locali californiani più noti, come il Fillmore, condividendo serate con musicisti come i Grateful Dead, i Canned Heat, Sonny Terry e Brownie McGhee, e tanti altri.
Ho incontrato John Renbourn a Roma nei primi anni ‘80, attraverso Stefan Grossman, ma giusto per uno scambio di battute. Però possedevo più o meno tutti i suoi dischi del periodo e cercavo di non perdere nessuno dei suoi concerti al Folkstudio. Per me, giovane musicista, era un mito e rappresentava un esempio di espressione e ricerca musicale importante. Talmente importante da riproporre nel mio gruppo di allora, gli Albacustica, negli ovvi limiti del possibile, alcuni brani dei Pentangle.
Particolarmente interessante era il fatto che utilizzasse la tecnica della chitarra classica su delle chitarre steel-string, con un risultato sorprendente sia per dinamica che per sonorità, un suono convincente e intenso ma allo stesso tempo leggero e pulito. Questa nuova interpretazione della chitarra operata da Renbourn e da alcuni altri precursori degli anni ‘60, come lo stesso Jansch e prima ancora Davey Graham, hanno influenzato in modo permanente tutto il movimento della chitarra acustica europea; e, in un gioco di rimando, anche di quella americana successiva.
Numerosi artisti hanno incarnato un suono o uno stile. Un numero minore sembra qualche volta rappresentare lo spirito stesso di una rivelazione più ampia, che abbraccia e riporta esperienze, forme e sentimenti in un modo che tocca l’animo di tanti. Ecco, direi che John Renbourn sia uno di questi.
Giovanni Palombo