
(di Reno Brandoni) – Quando leggo di nuove generazioni, come sul numero di settembre di Chitarra Acustica, non riesco a trattenere la penna. Il termine ‘generazioni’ mi sussurra riflessioni e ricordi. Mi trovo spesso sul palco con i ‘moderni’ chitarristi, che usano la chitarra come un tamburo a sei corde: vedo nei loro occhi sogni e speranze. Anche se spesso non condivido e non apprezzo buona parte di ciò che a me arriva, non posso dimenticare di essere stato un tempo una ‘nuova generazione’; un tempo in cui comprensione e tolleranza non venivano esercitate con la medesima capacità attuale dai genitori. Almeno così mi sembrava…
«Nel nome del padre»… quante volte abbiamo pronunciato queste parole, inconsapevoli, talune volte distratti dall’abitudine, spesso sorpresi dal suono familiare più che dal senso reale della frase. Chi ha ricevuto un’educazione cattolica si è perso, come spesso accade, nell’oblio della ‘ripetitività’, trascurando messaggio e contenuto. «Nel nome del padre» è spesso solo un inizio, seguito da decine di parole e intenzioni più importanti, e come tale può essere trascurato.
Ci vorrà del tempo per riprendere la ritmica di quella frase e analizzarla. Ci vorranno età ed esperienza per percepire in questo incipit una mancanza, una dimenticanza o un semplice gravissimo errore. Quasi sempre troppo tardi!
Ripeto da un po’ questa frase, ma col pensiero sono lontano dal suo significato religioso. Sento invece la mia infanzia che riemerge, suoni e profumi della domenica ‘tutti insieme’, le lunghe code in macchina la mattina per andare a scuola, e quel forte odore di profumo e dopobarba che mi facevano desiderare di essere già uomo.
Con lui, prima, solo regali e abbracci. Di questi ultimi mai tanti per la verità, poi le discussioni, i conflitti, l’indifferenza o peggio l’insofferenza. Ricordo tanto o poco, non lo so, ma sono innumerevoli i frammenti che s’infilano in ogni pensiero: la somma mi fa pensare a una presenza costante ma inavvertita.
Ricordo il suo sorriso sornione durante la festa di fine anno ai Salesiani. Ero con la mia band della scuola media e ci esibivamo per la prima volta durante un concorso scolastico. Che lui ci fosse mi sembrava normale, dovuto! Forse per questo, dimenticato.
Ricordo il primo manifesto ciclostilato che portava il mio nome e la data di un concerto, conservato chissà per quanti anni in una sua agenda. O la mia foto con la chitarra, esposta in una cornice di cuoio sulla scrivania vicino a quel libro, Come il mare di Wilbur Smith, regalatogli una notte in ospedale per fargli compagnia, e mai aperto. Il libro, già… l’unico ricordo che mi ha fatto lacrimare mentre cercavo di dimenticare il vizio del fumo, per non ricadere nel suo stesso errore.
È solo polvere del mio passato, che spazzolo per non impolverare il mio presente. Ma, sotto il tappeto, rimane annidato ancora un po’ di quell’odore. Solo adesso, da adulto, lo cerco e l’annuso. E la sequenza di ricordi si ripropone piena di eventi che pensavo di avere rimosso. Come se si rigenerassero, più ne cancello e più altri ne arrivano.
Ora che ho una delle sue ‘età’, mi chiedo se avrei mai potuto essere un suo compagno, uno di quelli che costringeva a passare lunghe giornate di pesca nel mare del suo stretto. È strano come io oggi cerchi un amico come lui, che mi accompagni nella medesima fissazione. Trent’anni di differenza hanno cambiato la nostra vita, facendoci sfidare invece che lasciarci amici. Per questo strano gioco del destino, non c’è che il rimpianto.
La mia passione la devo a quella sua chitarra, una Carmelo Catania del 1966, appoggiata sul divano, accordata in Sol aperto. Non conosceva gli accordi e chissà per quale ragione aveva quell’accordatura, che gli permetteva di suonare usando un solo dito della mano sinistra. Solo ora ho provato a suonare su un brano popolare che lui cantava, e nei concerti amo mentire raccontando che è un mio arrangiamento di tanti anni fa.
Mi guardo allo specchio e gli assomiglio. Così, per ricordarlo, la mia mano prosegue nel gesto e silenziosamente recito: «Nel nome del padre… e del figlio».
Dall’ultimo ciao sono passati ventidue anni, e giusto oggi mi sembra solo ieri.
Reno Brandoni