Sempre più di frequente sento questa parola: «Professionismo». Uno dei luoghi più comuni dove ascoltare l’oscuro termine è solitamente quello dei festival di chitarra. Si discute e si dibatte sul concetto. Si cerca di capire qual è la differenza tra un musicista dilettante e uno ‘professionista’. Mi chiedo perché. Mi spiegano che è importante distinguere, poiché i comportamenti dei musicisti nei due differenti ruoli saranno essenzialmente diversi. Il dilettante potrà liberamente fare ciò che gli piace, regalando la sua musica e comportandosi come gli pare; il professionista invece dovrà allinearsi a un codice deontologico, che definisca per lui e i suoi colleghi le modalità con cui dare esecuzione alla propria arte. Qual è allora il confine che divide le due categorie di musicisti? Mi scuseranno i professionisti se includo i dilettanti nella loro stessa categoria?
Sembrerebbe che dopo lunghi studi il termine abbia raggiunto la sua formale definizione: «È professionista chi si fa pagare per la propria prestazione». Subito mi è parso che, finalmente, il professionista avesse trovato la sua giusta collocazione: mi pagano, sono professionista, e come tale devo ‘comportarmi’ secondo i principi deontologici della mia categoria. Poi, riflettendo, ho iniziato a pensare che per far questo era necessario – come per tutte le professioni – un ‘tariffario’. Infatti forse non è giusto dire che solo se mi pagano sono un professionista, perché se accetto un panino e una birra (emolumento in natura) o pochi euro per la mia prestazione, e mi metto in concorrenza con chi invece richiede cachet ben più consistenti, non sono realmente un professionista poiché evidentemente non faccio quello per vivere. Quindi probabilmente, per essere un vero professionista, devo chiedere il giusto cachet (quale?) secondo le normali tariffe (quali?). Anche qui però una nuova eccezione: nella mia lunga carriera ho incontrato decine di talenti e di musicisti che per sopravvivere hanno svenduto la propria arte solo per una cena o semplicemente una birra; e di molti di questi non potrei certo mai dire che non sono validi e seri professionisti.
Ci sono poi le correnti alternative, le quali sostengono che è professionista chi fa quel mestiere e vive (sopravvive) solo suonando. Anche qui mi sento in dovere di ricordare che questa definizione escluderebbe dalla lista decine di eccellenti e famosi musicisti, che oltre alla musica hanno svolto differenti lavori (Enzo Jannacci, Chet Atkins, Stefan Grossman…).
Come capirete da queste poche righe sembra che sia vero tutto e il contrario di tutto, il che vorrebbe un po’ dire che non è vero niente. E in un periodo in cui le associazioni di categoria stanno subendo la loro grande crisi d’identità e si parla addirittura della cancellazione di molti ordini ‘professionali’, mi sembra strana questa ansiosa ricerca di una classificazione che delinei il profilo e i confini di un artista.
Ecco, ho detto la parola: «Artista», e la scrivo con la «A» maiuscola. In tutto questo dibattere di idee e opinioni, si è dimenticato che questa dannata professione ha alla base una forma d’arte che non può essere delimitata o ingabbiata in termini o regole definite, in quanto l’artista produce arte e come tale ha l’obbligo di esprimerla come gli pare, nei luoghi e nelle modalità a lui più congeniali, senza porsi i problemi di come e quanto farsela pagare e di chi verrà ad ascoltarlo, senza dover sottostare a dei principi rigorosi che ne scandiscano il comportamento, senza dover subire le regole di un progresso che fin qui ha sbagliato a raggruppare e inglobare uomini e idee, solo per poterne fare – forse – un ennesimo ‘movimento’.
Il mondo degli artisti dovrebbe essere il primo a ribellarsi alla catalogazione, riportando l’arte alla sua forma più naturale, quella del confronto con la gente e di conseguenza con le regole ‘naturali’ del mercato. Credo che all’ascoltatore non freghi nulla della reale professione di un artista. Quando va in un pub, si siede, ordina una birra e sente una chitarra che inizia a suonare, poco gli importa se quel musicista passa la sua vita a suonare oppure fa il medico, l’avvocato o l’ingegnere, se è stato pagato e quanto. È lì ad ascoltare, e se gli piace tornerà anche la sera dopo e poi tutte le volte che saprà che quell’artista si esibirà. Così cresceranno per l’artista fama e cachet, interesse e curiosità, e il tramite allora sarà la musica e non la definita professionalità.
È inutile dire che l’arte va tutelata, incoraggiata e supportata, poiché una civiltà si riconosce e si ricorderà grazie ai propri artisti. A far questo non devono pensarci gli stessi artisti ma le istituzioni, che dovrebbero dare aiuto e sostentamento a chiunque cerchi di vivere d’arte. E non parlo solo di contributi finanziari, ma anche di semplici opportunità. Ma sembra che ultimamente…
Reno Brandoni