domenica, 28 Maggio , 2023
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Note di viaggio – Intervista a Tim Sparks

(di Alberto Lombardi) – Qualche mese fa ho avuto il privilegio di suonare con Tim Sparks in giro per l’Italia, e nei lunghi viaggi in macchina abbiamo parlato molto della sua storia, di chitarra, della situazione del mercato discografico e molto altro… I discorsi che di solito alleggeriscono le lunghe attese e gli spostamenti dei musicisti in tour.

Tim Sparks con Alberto Lombardi

Tim è un artista di grande introspezione, conosce benissimo linguaggi distanti come quello balcanico e quello persiano, il jazz sperimentale, il country blues delle origini. E tutto deriva da esperienze vissute, viaggi, collaborazioni. Quasi si respira la distanza di formazione tra me e lui: la quantità di stimoli negli anni ’60 era colossale e gli Stati Uniti erano l’occhio del ciclone. Si intersecavano esperienze di ogni genere e provenienza, ed era facile essere rapito da fascinazioni lontane. E c’era probabilmente un humus culturale che spingeva questi interessi a concretizzarsi in percorsi di vita, studio, scoperta reale. Persone come Tim si mettevano lo zaino in spalla e andavano a scoprire il mondo, che sembrava così lontano ed esotico. Oggi che sembra così vicino, a portata di mouse, lo è davvero? O questo ‘assaggio’ che abbiamo di praticamente ogni cosa, non ci priva forse di quel velo magico che nascondeva il diverso e spingeva alla conquista?

E tutta questa strada io, nelle esibizioni con Tim, mentre aspettavo il mio turno, l’ho sentita, percepita chiara. La Spagna, le amicizie, i Balcani, il klezmer e i sefarditi. Si sente, e soprattutto si sente che non è vista su uno schermo in salotto, perché le cose che ti toccano mentre viaggi, con l’intensità che solo un luogo lontano conferisce alle esperienze più semplici, quelle cose si traducono poi in arte se sei un artista.
E così passavamo a suonare insieme da “Take Five” a “Change the World”, ma anche a “Crêuza de mä” che ha suggerito lui. Mi fa: «Conosci questo pezzo di $£&”&/dré?» E non riuscivo a capire nemmeno cosa stesse dicendo, tanto non mi aspettavo il nome di De André pronunciato da lui. Alla fine abbiamo fatto un arrangiamento ai mezzi, che conservo con cura. Addirittura ne è nato un gioco col pubblico. Io dicevo: «Hey Tim, vuoi suonare quel pezzo della Louisiana del Sud che dicevi ieri?» E iniziavamo con “Crêuza”. Dopo poco le persone se ne accorgevano e si mettevano a sorridere, ma non sapevano che era veramente stato lui a suggerirla!

Comunque di strada ne abbiamo fatta parecchia e ne sono venute fuori molte perle, analisi profonde, ma soprattutto un bello sguardo sulla storia di un chitarrista interessante e originale, intuitivo e prolifico di soluzioni sorprendenti. Senza contare la varietà di stili che suona con estrema nonchalance. Mi sembrava un’ottima idea condividere con i lettori di Chitarra Acustica questa bella esperienza. L’ho messa sotto forma di intervista per praticità, ma immaginate la mia Bravo scassata, un sacco di chilometri sotto le ruote, e due amici che chiacchierano della cosa che amano di più.

Dicci dei tuoi anni della formazione: eri concentrato principalmente sulla chitarra classica? E come hai sviluppato un vocabolario così vario?
All’inizio, come tutti, ascoltavo blues e country, Jimi Hendrix, Beatles, Grateful Dead. Ma la mia più grande influenza era Doc Watson; anche se le mie prime cosette sulla chitarra me le hanno insegnate mio zio e mia nonna! In ogni caso, sono stato principalmente un autodidatta.

Tim Sparks al Big Mama di Roma

Però hai studiato chitarra classica con un discepolo di Segovia.
Ho avuto l’opportunità unica di studiare alla North Carolina School of the Arts quando avevo quattordici anni. Il mio insegnante era Jesús Silva, un protetto messicano di Andrés Segovia e Manuel Ponce. Così ho avuto la possibilità di ascoltare Segovia in concerto e seguire alcune sue masterclass. Il maestro Silva era un insegnante eccezionale e insegnava la chitarra come una specie di yoga, con una postura naturale, una connessione rilassata tra la mente e le dita, attraverso il cuore. Mi ha insegnato a non preoccuparmi degli errori, che sono solo buche sulla strada, e a concentrarmi sulla bellezza.

Hai anche vinto una nota competizione chitarristica: ti ha aiutato nella tua carriera? Pensi che i concorsi siano utili?
Sì, ho partecipato nel ’93 all’International Finger Style Guitar Championship, in Kansas, e sono arrivato primo suonando una selezione dal mio disco The Nutcracker Suite, appena pubblicato per la Acoustic Music Records, nel quale ho riarrangiato sulla chitarra frammenti della Suite da Lo schiaccianoci di Tchaikovsky [se non l’avete sentita, fatevi un favore e cercatela su YouTube – ndr]. È stata fortuna, tempismo. Uno dei giudici era Beppe Gambetta… Comunque sì, i concorsi possono essere di grande aiuto, in effetti. Sono anche ottimi per far conoscere e interagire i musicisti. Al momento c’è un fiorire di giovani chitarristi che stanno portando lo strumento a nuovi livelli, gente come te, o come Sönke Meinen, Philipp Wiechert, Illona Bolou, Antoine Boyer, alcuni vincitori di recenti competizioni. Camilla Conti, Luca Nobis e Giuseppe Tropeano sono altri chitarristi italiani che ho sentito di recente. Quello che mi fa arrabbiare, è come lo scenario della professione musicale sia cambiato negli ultimi dieci anni e, adesso, presenti una strada molto, molto più difficile per i giovani musicisti. Da una parte i social media ci permettono di conoscere nuovi artisti, imparare anche cose nuove con molta più facilità che in passato. Ma allo stesso tempo la rete ha distrutto molte delle nostre fonti di guadagno.

Come hai cominciato a interessarti della musica ebraica?
Negli anni ’70 e ’80 ero un lounge lizard, ‘vagavo’ per i club e suonavo tantissimo jazz. Avevo un gruppo di jazz vocale chiamato Rio Nido, col quale suono ancora oggi. Inoltre suonavo con Jack McDuff, Eartha Kitt, Cab Calloway. Poi, nell’87, sono andato in viaggio nell’Europa Orientale. Lì mi sono incuriosito dei ritmi e delle scale balcaniche. Quando sono tornato in America, ho cominciato a suonare in gruppi dove potevo imparare di più sul ‘suono orientale’. Suonavo e assorbivo il linguaggio klezmer, greco, persiano, la danza del ventre. Alla fine, ho cominciato anche a fare degli arrangiamenti fingerstyle con quei sapori e quei brani.

Raccontami di più del tuo percorso jazz, sembra che tu abbia una profonda conoscenza del linguaggio…
Ho ascoltato tanto e studiato i brani di Duck Baker, Joe Pass, Lenny Breau, Kenny Burrell. In più, quando avevo diciassette anni, suonavo con una band funk che si chiamava Yesterday’s Children. Suonavamo molto intorno a Chicago e ho imparato gli accordi di jazz suonando i brani di Stevie Wonder. Più tardi, a Minneapolis, avevo una band che cantava arrangiamenti jazz vocali; io suonavo l’accompagnamento e non c’erano né basso né piano. Dovevo fare tutto io, insieme a un batterista. Poi ho lavorato molto con le coriste, che facevano serate nei bar e suonavano sempre gli stessi standard, ma in tonalità diverse; così ho imparato molto – essendo costretto – a trasporre continuamente.

Com’è iniziata invece l’esperienza con John Zorn?
A fine anni ’80 avevo incontrato Leo Kottke, che mi aveva chiesto di fare degli arrangiamenti per lui, compresa “Jesus Maria” di Carla Bley. Leo mi aveva invitato a suonare in un festival a Milwaukee, dove c’erano dei grandissimi chitarristi: Chet Atkins, Michael Hedges, John Knowles, Muriel Anderson, lo stesso Leo. Lì ho incontrato anche John Renbourn e gli ho suonato la mia “Nutcraker Suite”, che lui ha poi fatto ascoltare a Peter Finger, che a sua volta mi ha così invitato a registrare per l’Acoustic Music Records. Con l’etichetta di Peter ho registrato anche Guitar Bazaar [1955], che aveva molte influenze balcaniche. Nel frattempo avevo conosciuto Zorn grazie a Duck Baker, e gli ho regalato il disco. Zorn è rimasto colpito e mi ha chiesto di registrare per la Tzadik, la sua etichetta, una reinterpretazione per chitarra della musica ebraica tradizionale [Neshamah, 1999; poi Tanz, 2000; At the Rebbe’s Table, 2002; Little Princess, 2009]. Il repertorio era molto vario: klezmer, sefardita, del Caucaso, dello Yemen; com’era d’altronde vario il vocabolario dell’improvvisazione: gipsy jazz, maqam arabi, modi ebraici, blues, postmoderno… È stato un onore lavorare anche con la cricca di Zorn: Greg Cohen, Cyro Baptista, Erik Friedlander, Marc Ribot.

La compilation Masada Guitars [2003, con brani di Tim Sparks, Bill Frisell e Marc Ribot] è un lavoro molto intenso.
Composizioni molto complicate, con ritmi complessi in sezioni diverse. Ho ascoltato il Masada Quartet e il Masada String Trio per prendere un po’ di idee per gli arrangiamenti.

Adesso invece sembra che tu ti stia dedicando a uno stile più tradizionale, più blues.
Nel 2009 ho inciso un disco di ragtime, blues e jazz tradizionali, che si chiama Sidewalk Blues. Il più recente Chasing the Boogie [2014] ne è una continuazione e contiene anche delle cose che suonavo in tour con Dolly Parton, come “I’ll Fly away” e “Blue Bayou”.

Che approccio hai sviluppato negli anni all’arrangiamento di un brano? Ogni chitarrista sembra avere un suo approccio personale.
In passato lavoravo per molto tempo alla trascrizione del brano, prima nella tonalità originale, poi cercavo di capire se ce ne fosse una migliore più adatta per la chitarra. E questo portava via ancora molto tempo, perché ero meticoloso e trasponevo tutto in diverse tonalità. A volte, dopo un bel po’ di fatica, mi ritrovavo con un arrangiamento discreto e suonabile, ma spesso mi sembrava poco entusiasmante. Oggi invece mi sveglio spesso con un’idea per una canzone, o una melodia, o parte di un arrangiamento in testa. Allora prendo la chitarra e lo concretizzo. Credo che la capacità di arrangiare venga col tempo e con l’esperienza. Mi ricordo la massima di Segovia: «Un buon arrangiamento per chitarra dovrebbe suonare meglio dell’originale». Io penso che un buon arrangiamento debba ‘accendere una luce’. Dovrebbe illuminare il nostro apprezzamento per un brano musicale ed essere un contributo alla nostra comprensione ‘ipertestuale’ di quel particolare frammento musicale. Per ipertestuale intendo la molteplicità di interpretazioni di quella musica, o poesia.

Com’è incidere e suonare live, se lo confronti con dieci-quindici anni fa?
Al momento il recording business è al collasso. Nessuno compra copie fisiche dei CD, e le vendite digitali non compensano questa perdita. È una situazione molto difficile e tutti danno via la loro musica sui social media. Sono stupito dalla Truefire, una compagnia che produce video didattici e che se la passa molto bene…

Sei venuto in Italia molte volte a suonare; anche qui da noi, come hai visto cambiare lo scenario di recente?
Dopo la crisi del 2008 e l’austerità, ci sono pochissimi fondi per la musica. Era molto meglio dieci-venti anni fa. Ci sono tanti bravi chitarristi in Italia e vorrei che ci fosse più lavoro per tutti.

Cosa consiglieresti a un giovane chitarrista?
Non mollare il tuo lavoro ‘normale’. Impara a comporre musica per film. Una carriera a suonare nei club oggi è davvero difficile.

Ho visto che sei molto attratto dall’arte, dalle chiese…
Mentre imparavo a suonare l’oud, molti anni fa, prendevo lezioni da un persiano. Quando gli chiesi come imparare la musica persiana, i suoi modi, mi rispose: «Guarda i tappeti». Quando Astor Piazzolla andò a Parigi per studiare composizione con Nadia Boulanger, lei gli disse che se voleva imparare a comporre doveva guardare i dipinti…

Progetti?
Un disco di jazz, chitarra e voce.

Alberto Lombardi

 

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