con Beppe Gambetta & Tony McManus, Winifred Horan & Séamus Egan
(di Andrea Carpi / foto di Michael Schlueter) – La sedicesima edizione della Acoustic Night, con tre concerti serali al Teatro della Corte di Genova, ha avuto quest’anno come tema il ‘Duo Power’, che trae spunto dall’ultimo lavoro di Beppe Gambetta, il CD Round Trip costruito in duo con il maestro della chitarra celtica Tony McManus. Il duo, secondo Gambetta, è una forma spettacolare di dialogo e sinergia musicale in grado di esaltare le qualità degli artisti e generare poesia, in una equazione in cui – a volte – il risultato dell’addizione ‘uno più uno’ può sorprendentemente diventare ‘tre’. La musica di Round Trip, di cui abbiamo già parlato nella precedente intervista a Beppe nel numero di giugno dell’anno scorso, è un’immaginario viaggio acustico prodotto con paziente lavoro di ricerca e arrangiamento, che unisce lungo un filo di estetica comune melodie antiche che vanno dai campanari liguri ai motivi della tradizione celtica riscoperti da McManus. Nella Acoustic Night 16, Beppe e Tony hanno spaziato lungo questo filo ma anche in direzioni diverse e, per Tony, veterano molto amato dal pubblico dell’Acoustic Night, è stato un ritorno speciale.

Il secondo duo – composto da Winifred Horan al violino e alla voce, e da Séamus Egan alla chitarra con corde di nylon, banjo, mandolino, flauti irlandesi e stomp box – ha rappresentato d’altra parte il connubio perfetto tra modernità e tradizione. I due artisti, nati a New York e Filadelfia da famiglie di emigranti irlandesi, si affermano come principali virtuosi e innovatori della loro tradizione musicale, che aprono in maniera spettacolare al futuro e alla creatività. Séamus e Winifred sono i leader e l’elemento portante della celebrata band Solas, il cui sound si è sviluppato in più di vent’anni di attività attorno all’estetica del loro duo.

Ovviamente, oltre alla spettacolarità dei numeri eseguiti separatamente dalle due coppie, l’Acoustic Night ha avuto il consueto punto di forza nell’incontro e nell’ensemble di tutti i musicisti. Si è trattato di un’edizione particolarmente tinta di colori celtici, che si è prospettata più di altre a cavallo tra la musica del vecchio e del nuovo mondo. Lo spettacolo è stato trascinante, condotto come sempre con disinvoltura e simpatia da Beppe, e curato nei minimi particolari grazie alla regia dello stesso Beppe con la gentile moglie e collaboratrice Federica Calvino, grazie al brillantissimo suono gestito come sappiamo da Lallo Costa e, non ultimo, grazie alla stupenda scenografia di Sergio Bianco. Di Sergio ci piace riportare la sensibilissima nota di presentazione al suo quadro di scena, da lui stesso scritta, perché ci sembra rappresentare con grande acutezza lo spirito di questa Acoustic Night: «La forza del due è l’unione di due cerchi dello stesso diametro. Il centro dell’Uno coincide con la circonferenza dell’Altro. La prima parola quindi è affinità. Questa unione genera una forma centrale che si chiama mandorla sacra. La mandorla sacra è l’origine della vita. L’origine della vita è il suono. Il simbolo creato per questo concerto è un insieme di onde sonore concentriche. Nella mandorla sacra, cuore del simbolo, le linee cambiano da positivo a negativo. Il cerchio musicale dell’Uno si compenetra con la musica dell’Altro. La seconda parola è quindi integrazione. Integrazione significa ascolto e attenzione. La forza del due nella musica, nell’amicizia, nell’amore, nelle imprese e nei fenomeni della vita, è affinità e integrazione ma questo non basta. Nulla accade se nel cuore non c’è la scintilla, l’evoluzione dinamica verso qualcosa di superiore cha va oltre il due e si manifesta a beneficio di tutti.»
All’indomani del concerto del venerdì sera, abbiamo intervista tutti i musicisti protagonisti dello spettacolo, per commentare con loro la serata e non solo.
Beppe Gambetta
Per il tema ‘Duo Power’ di Acoustic Night 16, andava da sé la scelta di Tony McManus. Come è nata invece la scelta di Winifred Horan e Séamus Egan?
Tutte le volte, quando dobbiamo scegliere i partecipanti all’Acoustic Night, diamo molta importanza alla qualità umana degli artisti e alla loro voglia di interagire musicalmente. Come al solito avevamo una serie di nomi e di possibilità, e come al solito siamo anche andati in incognito a vederli in azione, per cercare di capire il loro carattere. Winifred e Séamus poi erano anche una delle opzioni suggerite da Tony e, in più, ci piaceva l’idea di aprire un sipario sulla musica celtica, cosa che non avevamo mai fatto nell’Acoustic Night. Però ci piaceva aprirlo con colori non strettamente tradizionalisti, e loro rappresentano appunto la nuova generazione, l’apertura verso il futuro, verso composizioni nuove. Rappresentano un po’ quello che i New Grass Revival hanno significato per il bluegrass. Il gruppo in cui suonano, i Solas, ha veramente un impatto fantastico. E abbiamo capito che loro due sono persone che amano l’incontro con altri musicisti. Infatti si sono rivelati proprio così, sono stati tra gli artisti che hanno amato di più collaborare alla creazione dello spettacolo, alla sua interazione. E anche come duo portano con sé questo senso di aggregazione, su cui oltretutto si costruisce il lavoro del gruppo dei Solas. Perché, se noi ci pensiamo, Lennon e McCartney si sono trainati i Beatles…
Adesso capisco meglio il senso del “Duo Power”…
Sì, ci sono personaggi che lavorano benissimo in duo, ma il cui duo ha soprattutto un significato di composizione, arrangiamento e produzione, il significato cioè di un progetto artistico più evoluto rispetto al duo stesso. E quindi Winifred e Séamus avevano questa proprietà di rappresentare un duo, non solo affiatato in quanto coppia di virtuosi, ma anche caratterizzato da una visione di gruppo…
Certo, tu e Tony eravate partiti con il quartetto dei Men of Steel, Winifred e Séamus hanno fondato il quintetto dei Solas. Tanto che lì per lì mi ero chiesto come mai aveste scelto due musicisti che non rappresentano un vero duo. Però, da quello che mi hanno raccontato durante le interviste, è venuto fuori proprio che la dimensione del duo è quella che li ha aiutati…
È stata il traino…
Crosby, Stills & Nash in “Helplessly Hoping” cantavano «We are one person, we are two alone, we are three together, we are four each other»…
Il duo è l’embrione, che dà l’esempio per strutture più complesse. La struttura più complessa forse è rappresentata da Bruce Springsteen, che ha iniziato con un gruppo di cinque amici, cinque persone che avevano un contatto artistico profondo e che decisero di passare tutta la vita insieme a far musica, a creare musica sempre a un livello altissimo grazie a questa affinità. E il duo è la prima forma di questa possibilità, la forma più intensa, di cui abbiamo esempi stratosferici. Fabrizio De André, se andiamo a vedere, da solo ha composto probabilmente il trenta per cento delle sue canzoni. Il settanta-ottanta per cento del suo lavoro è sempre avvenuto in duo, con personaggi che sono cambiati, perché lui ha sempre avuto bisogno di trovare stimoli diversi. È interessantissimo ascoltare “Don Raffaè” interpretata da Massimo Bubola come l’aveva forse concepita [cfr. Massimo Bubola, Amore e guerra, 1996 – ndr] e poi com’è diventata nella versione di De André. Oppure è interessantissimo pensare a “We Can Work It Out” di Lennon e McCartney, mentre sono lì insieme che compongono e cominciano con quella melodia meravigliosa della strofa, «Try to see it my way»… però poi John ci pensa e dice: «No, così è troppo positiva, è troppo allegra, nella vita c’è anche il brutto e il negativo», e va in minore: «Life is very short»… Così la canzone si apre, trova la sua intensità vera creata insieme dai due musicisti. E in effetti, nel nostro piccolo, Tony McManus ed io abbiamo lavorato più o meno allo stesso modo. Ognuno ha portato il proprio bagaglio di cultura e di melodie: io ho portato il mio pacchettino di cose italiane, ho detto: «Facciamo qualcosa di mediterraneo, anche qualcosa di greco»; ho portato la “Bergamasca”, le melodie liguri, De André. Lui ha trovato delle musiche inedite e, nel momento in cui le abbiamo messe insieme, è stato bello perché io non ho cercato di scimmiottare un suono esattamente irlandese o celtico mentre accompagnavo; volutamente mi son detto: «No, cerco di suonare proprio come mi viene, come mi sento». E lo stesso ha fatto Tony: quando accompagna le musiche italiane non è come l’accompagnatore del violinista tradizionale Melchiade Benni…
Anche perché si è trovato sicuramente a sperimentare la grande varietà della tradizione popolare italiana, visto che i pezzi che hai scelto sono tutti diversi l’uno dall’altro.
Sì, noi abbiamo questa realtà che la musica italiana è venti musiche diverse, corrispondenti alle nostre venti regioni, una ricchezza infinita! In ogni caso, tornando al tema del duo, che potrebbe sembrare superficiale se non lo analizzi bene, è importante dire che in effetti, alla base dell’energia della musica, c’è questo fattore essenziale dell’interazione, questa scintilla che si crea nella sinergia tra più artisti, a cominciare dal duo. Ed è stato bello che il designer Sergio Bianco abbia creato anche quest’anno un quadro di scena per illustrare il tema dell’Acoustic Night, con l’unione di due cerchi che genera una forma centrale definita ‘mandorla sacra’, a simboleggiare l’origine della vita e del suono. Perché la nostra idea rimane sempre quella di non fare solo un ‘concerto’, ma di realizzare uno ‘spettacolo musicale’. Quando facciamo l’Acoustic Night ci concentriamo sempre sul fatto che deve essere anche uno spettacolo teatrale, con la sua regia, i suoi movimenti, le sue storie, la sua poesia. E quest’anno penso che ci siamo riusciti particolarmente, perché l’ispirazione della scenografia di Sergio era veramente molto intensa, e le luci create in parte anche da Federica Calvino Prina hanno seguìto la musica in modo poetico. Quindi siamo molto soddisfatti, perché l’essenza dell’Acoustic Night vuol essere anche un momento di riflessione, d’incontro e di gioia all’interno della musica indipendente, che quest’anno è riuscito anche di più che in altre edizioni.
Vogliamo fare anche un bilancio più in generale di questa annata?
Per quanto riguarda Round Trip, siamo felici di questo lavoro perché in effetti è stato ‘riconosciuto’. Di questi tempi è difficilissimo avere riconoscimento con un progetto discografico, riuscire a portarlo in giro; ma ‘fisicamente’, con i nostri viaggi e i nostri sforzi, siamo riusciti a proporlo dalla scena australiana a quella canadese e a quella nordeuropea, tedesca, inglese, scozzese. Abbiamo fatto un lungo giro di concerti e abbiamo ottenuto una bellissima risposta, nel senso che il pubblico ha capito esattamente il nostro discorso, questo filo inedito tra mondo mediterraneo e celtico, che non è mai stato percorso, che è un qualcosa di speciale. In Australia, abbiamo incontrato degli uomini scozzesi in kilt che si sono commossi…
La “Bergamasca” è sicuramente un punto di raccordo tra l’Italia e l’area celtica…
Certo, ci sono molti punti di raccordo. In genere il raccordo sta nel fatto che entrambe le musiche vivono di passione, vivono di una passione intensissima per il ritmo. I ritmi sono lievemente diversi, la passione nelle storie d’amore o l’approccio musicale sono diversi, ma c’è un filo conduttore molto forte. Quindi il bilancio di quest’anno è positivo perché, nonostante gli anni che passano, nonostante il fatto che la musica per chitarra passi come sempre attraverso alti e bassi, però concentrarsi su un progetto e portarlo in giro può dare ancora delle belle soddisfazioni. Siamo anche entrati nella Top 70 Folk Airplay di FOLKDJ-L [www.folkradio.org], una classifica stilata in base alle programmazioni radiofoniche dei deejay folk di tutto il Nordamerica. E poi, più si suona in giro in duo, più si entra nel dettaglio, meglio si gestiscono le dinamiche. Per esempio, nel concerto di ieri sera, si capiva che noi siamo un duo vero, che non ci eravamo incontrati in modo estemporaneo, che la nostra performance esprimeva la gioia di tutti i viaggi fatti insieme.
Un altro dato positivo di quest’anno è stata la recentissima pubblicazione in inglese, con distribuzione in tutto il mondo, del mio Trattato di chitarra flatpicking tradotto con il titolo The Flatpicking Sourcebook per Music Sales. La cosa interessante è che non esiste un manuale che possa ‘tecnicamente’ insegnare ad amare la musica, a vivere non di musica ma per la musica e nella musica. Però a volte il didatta prova in qualche modo a superare questa barriera, e in questo libro io ho messo tutto il mio cuore per trasmettere a chi mi segue la poesia di questa vita, di questo mondo dell’arte vera, di questo vivere al di fuori di ciò che una televisione o un talent show può dirti. Alla fine sono soddisfatto, perché alcune persone che hanno cominciato a leggere il libro mi hanno scritto di aver captato questo mio amore per la musica, di aver apprezzato che in questo lavoro didattico molto trasversale c’è un tentativo di attraversare il muro e di far capire, appunto, cos’è l’amore per la musica.
L’unica nota negativa nel bilancio di questa annata è che quasi tutte le cose bellissime che abbiamo fatto sono state fuori dall’Italia. Purtroppo l’artista deve sempre essere pronto con la valigia e andare dove c’è una richiesta, una disponibilità. E in Italia non è che non ci sia la passione per la musica, ma non c’è questa richiesta. Noi cerchiamo di dare un esempio, l’autoproduzione è un nostro punto di forza per le cose che facciamo qui, senza basarci su sovvenzioni pubbliche, però più di tanto non si può fare. Ci teniamo a mantenere un piede in Italia fino alla fine, ma al di là di questo ci si deve muovere dove si viene chiamati. Purtroppo non c’è molta richiesta per questo genere musicale nel nostro paese, ma c’è in altri luoghi, come in Australia per esempio, dove abbiamo girato per un mese e mezzo. Questo non vuol dire né che in Italia non ci sia talento musicale, né che il pubblico non abbia la sensibilità per apprezzare questo tipo di bellezza; perché lo vediamo all’Acoustic Night, al FolkClub di Torino e in tante altre occasioni: nel momento che il pubblico arriva, gli italiani dimostrano di avere la bellezza nel proprio DNA. È solo una questione di struttura, di organizzazione. Ritengo che ci sia da parte degli organizzatori una forma di ‘zerbineria’, di sudditanza. Chi in genere ha la possibilità di organizzare eventi, tende in Italia a diventare uno zerbino di fronte alle star internazionali, molto più che all’estero. In Canada, l’ottanta per cento degli artisti che suonano nei loro festival sono canadesi e vengono venerati. In Australia, che è il luogo per eccellenza dove arrivano artisti da tutto il mondo, gli artisti stranieri rappresentano il venti per cento. Più che in altri luoghi, in Italia l’organizzatore di manifestazioni roots tende a ricercare il nome americano. Generalmente, se tu vai a vedere i roster delle grandi agenzie romane o del Norditalia che propongono musica indipendente, c’è una tendenza a inchinarsi allo straniero. B.B. King o Wayne Shorter hanno sempre suonato molto più in Italia che in America. Poi magari le stesse agenzie trovano personaggi di tendenza tra i cantautori italiani e li spingono, però in tanti altri campi della musica indipendente l’artista italiano trova difficoltà.
Tornando al concerto di ieri sera, ti ho visto suonare diverse chitarre. Ci aggiorni per concludere sulla tua strumentazione?
La mia chitarra principale sono due sorelle, perché non amano i cambi di clima: c’è una sorella che sta in America e una che sta in Italia. Sono esattamente uguali, sono due R. Taylor Grand Symphony che sono andato a prendere personalmente da Robert Taylor, perché mi sembrava che questi nuovi modelli GS avessero delle caratteristiche molto buone per il flatpicking. Tradizionalmente si considerano queste due grandi scuole: da una parte le dreadnought Martin, Santa Cruz e Collings; dall’altra le Taylor e forse le Lowden, le Larrivée, che sono chitarre con un po’ più di sustain e meno ‘botta’ sui bassi, sugli assoli. Ora, questa nuova GS è interessante perché, attraverso una serie di accorgimenti costruttivi, ha acquisito una ‘botta’ molto simile a quella della Martin pur mantenendo il sustain tipico della Taylor e una certa brillantezza sugli acuti. Quindi è una sorta di incrocio che è stato abbastanza snobbato da tutti i flatpicker: non c’è un flatpicker che l’abbia adottata, anche perché non è stata tanto pubblicizzata come chitarra da flatpicking. È incredibile, perché ha una risposta meravigliosa con il plettro. I ‘tradizionalisti’ sono incredibili, in tutti i campi! E quindi sono l’unico artista che usa una R. Taylor per il flatpicking, è un peccato.
Poi ieri sera ho suonato anche una Aldo Illotta accordata ‘aperta’, perché i tempi di questi spettacoli suggeriscono di avere a disposizione una seconda chitarra pronta sull’accordatura più difficile, visto che uso accordature speciali, non solo la DADGAD, ma anche con il Do basso o il Sol basso; e per riempire il tempo necessario per riassestarle, avrei dovuto dire una serie infinita di barzellette sugli scozzesi! La terza chitarra poi era la baritona di Antonello Saccu. Lui ha maturato una grande esperienza nel costruire chitarre ‘giganti’ sarde: adesso ne ha costruite due-tre che sono dei capolavori, che portano la nostra tradizione a un livello di eccellenza. Ed è incredibile che anche stavolta i ‘tradizionalisti’, in questo caso i chitarristi sardi, non lo vogliano ammettere! La mia baritona, che si ricollega a questa esperienza di Antonello sulle chitarre sarde, non è proprio grande come le chitarre ‘giganti’, ma quasi; inizialmente doveva essere una sette corde, che successivamente lui ha trasformato in una baritona. Ed è stato bello usarla per accompagnare “Amara terra mia”, dal repertorio di Domenico Modugno, con l’apporto dei musicisti celtici con i loro flauti celtici! È stato proprio l’emblema dell’Acoustic Night, con questi due cerchi che si incontrano a formare un punto d’unione speciale.
Tony McManus
Nel concerto di ieri sera, quando suonavate in gruppo, usavi quasi sempre il plettro. Penso di non averti mai visto suonare in flatpicking, e mi ha sorpreso l’assoluta naturalezza con cui lo fai: forse è perché avevi suonato il mandolino prima di dedicarti alla chitarra e hai assorbito la tecnica del plettro?
Sì, ho iniziato a sette anni con il violino classico, poi da autodidatta mi sono dedicato al mandolino e quindi alla chitarra. Ed essendo un autodidatta non ho avuto nessuno che mi dicesse di fare una scelta, che dovevo suonare in fingerstyle oppure che dovevo suonare in flatpicking.
Perciò hai suonato indifferentemente nell’uno o nell’altro modo.
E qualche volta anche con il plettro e con le dita contemporaneamente, in hybrid picking. Ma, naturalmente, se vedi un mio concerto in solo, suono soprattutto in fingerstyle.
Anche nella musica irlandese e celtica in generale si trova sia il fingerstyle che il flatpicking?
Be’, in termini di chitarra solista, si usa principalmente il fingerstyle. Non ci sono molti chitarristi che suonano con il plettro in solo, non è come nel bluegrass. Il primo è stato Paul Brady, poi c’è stato Arty McGlynn. Arty è un musicista molto formato: non è un musicista tradizionale, suovava jazz e per guadagnarsi da vivere suonava nelle showbands [orchestre da ballo in voga in Irlanda tra gli anni ’50 e ’70, che suonavano numeri standard da ballo e cover di successi pop – ndr]. Perciò, quando ha cominciato a dedicarsi alla musica tradizionale irlandese, aveva già tutta l’abilità necessaria per suonare jigs e reels, cosa che ha fatto incidendo l’album McGlynn’s Fancy [1979], per la verità poco tempo dopo che lo stesso folksinger e chitarrista Dick Gaughan ha registrato Coppers and Brass [1977], un disco di tunes tradizionali per sola chitarra con esempi di flatpicking.
Ieri sera ho visto che Séamus Egan suona con il plettro su una chitarra con corde di nylon, in uno stile particolare: cosa pensi di questo stile?
Guarda, fino a qualche tempo fa nella musica tradizionale irlandese, con l’accordatura DADGAD e soprattutto nell’accompagnamento, molti chitarristi finivano per suonare tutti nello stesso modo, con sonorità simili e poca originalità. Ora però le cose stanno cambiando: ci sono diversi musicisti in Irlanda che utilizzano le corde di nylon con un plettro heavy, ottenendo un suono molto interessante. Sì, in questo momento emergono molti modi diversi di proporre questa musica, com’è appunto il caso brillante di Séamus. A Montreal poi ho incontrato un giovane molto interessante che viene da Galway, Dave Howley, che esegue l’accompagnamento in DADGAD con grande swing, in maniera molto differente da com’era negli anni ’70. Suona in un gruppo che si chiama We Banjo Three… e sono un quartetto! [ride] È un gruppo che mi piace molto, perché sono molto giovani, pieni di energia, tutti bravi musicisti, e poi non ripropongono gli arrangiamenti degli anni ’70: c’è una forte influenza americana in quello che fanno, old-time e un po’ bluegrass. Sono molto freschi, molto interessanti.
Qui all’Acoustic Night hai portato una Pikasso Guitar di Linda Manzer; ce ne puoi parlare?
Tu sai, ovviamente, che la Pikasso originale è stata costruita da Linda per Pat Metheny. Questa che ho portato a Genova, invece, è stata realizzata in ricordo di un giovane ragazzo, morto tragicamente in un incidente d’auto; si chiamava Taylor ed era il figlio della liutaia Peggy White, che è diventata una cara amica di Linda dopo esserne stata allieva. Ora, questa chitarra è stata proprio quella che ha dato il via alla storia delle chitarre Pikasso: penso che quando ha iniziato a costruirla, Linda non sapesse come sarebbe andata a finire. Ma quello che ne è venuto fuori, alla fine, era assolutamente incredibile. Io e Linda siamo buoni amici, vivo a poco più di un’ora da lei in Canada e vado spesso a trovarla. E un giorno, nel suo laboratorio, mi ha mostrato questa chitarra che era appena finita: era fantastica, mi sono legato immediatamente a questo strumento! Così Linda mi ha permesso di prenderla in prestito, il che è stato un grave errore da parte sua, perché da allora l’ho presa in prestito circa tremila volte e l’ho usata in un paio di altri progetti oltre a Round Trip con Beppe!
Adesso Linda è partita con un’idea nuova, che mi piace molto: esisteva in Canada un gruppo di pittori non più in vita chiamato il Gruppo dei Sette, attivo negli anni ’20 e conosciuto per i suoi quadri ispirati dal paesaggio canadese. Pur facendo parte dello stesso gruppo e di un simile orientamento pittorico, questi pittori hanno ciascuno un proprio stile distinto. E a Linda è venuto in mente di raccogliere attorno a sé un gruppo di sette maestri liutai, che oltre a Linda comprende Jean Larrivée, David Wren, Grit Laskin, Sergei de Jonge, Tony Duggan-Smith e George Gray, i quali stanno costruendo ciascuno una chitarra ispirata dall’opera di uno dei sette pittori. La chitarra che Linda sta costruendo per questo progetto, chiamato Group of Seven Guitar Project, non è ancora terminata. Ma spero di vederla finita alla fine del mese e di poterla inaugurare. È un altro strumento con molte corde…
Bellissimo progetto! Ma, a proposito di tante corde, torniamo alla chitarra Pikasso che hai con te: ce la puoi descrivere?
Certo, è una doppio manico. Il manico principale è un normale manico a sei corde, con sopra un manico fretless più corto, sempre a sei corde. Poi ci sono due gruppi trasversali di dodici corde libere. Sui due manici a sei corde uso un paio di accordature diverse. Per “Ligurian Bells Melody”, che è in Round Trip e che abbiamo suonato ieri sera, uso una variante di un’accordatura che ho imparato da Martin Simpson: sul manico normale è CGCGCD; sul manico fretless è trasposta una quinta sopra, ma con la quarta corda alzata di un altro tono, il che diventa DAEADE. Invece per “Wandering Aengus”, una composizione dei Solas su testo di Yeats che abbiamo suonato come ultimo brano ieri sera, l’accordatura sul manico principale è DADGAD, che trasposta una quinta sopra sul manico fretless diventa AEADEA. Ecco, questo è quello che faccio di solito: quale che sia l’accordatura sul manico principale, l’accordatura sul manico fretless è una versione trasposta di quell’altra. Quanto alle corde libere, generalmente sono accordate sulla scala maggiore di Re.
Per concludere, parliamo della tua Paul Reed Smith.
Ricky Skaggs mi ha segnalato come possibile chitarrista ‘collaudatore’, quando Paul Reed Smith ha avviato il suo progetto di costruire una linea di chitarre acustiche. Ero molto onorato e felice di farlo. Ma ero anche un po’ scettico, perché prima di allora i miei amici costruttori di chitarra erano stati Linda Manzer, Bill Kelday in Scozia, Chris Melville a Brisbane in Australia, che lavorano tutti artigianalmente per conto proprio. E il fatto che un costruttore con duecentottanta dipendenti pensasse di coinvolgermi nella progettazione di una chitarra, mi sembrava un’idea discutibile. Pensavo che probabilmente non avrebbe funzionato, ma mi sbagliavo completamente. Gli strumenti che son venuti fuori si sono rivelati ottimi veramente. La Paul Reed Smith ovviamente era influenzata da decenni in cui ha costruito chitarre elettriche, e i primi esemplari avevano un manico troppo stretto, che era adatto più che altro a chitarristi come Carlos Santana o Alex Lifeson. Così ho consigliato a Paul Reed Smith in persona, con cui sono diventato molto amico, di fare dei manici più larghi. E Paul mi ha chiesto di suggerirgli altri chitarristi da coinvolgere nel progetto. Io ho pensato a Martin Simpson, perché sai che la sua conoscenza dello strumento è enorme…
Ho visto un bellissimo video in cui suonate insieme usando le Paul Reed Smith…
Sì, suonavamo “Shallow Brown”, un bellissimo pezzo afroamericano… E Martin, dal canto suo, ha consigliato di fare dei manici ancora più larghi, perché lui suona una chitarra con un manico molto largo. Insomma, Paul è sempre guidato dal desiderio di migliorare le cose. Per esempio, ha sentito una vecchia chitarra Torres di valore inestimabile di proprietà di Larry Thomas, che è stato il presidente della catena Guitar Center e possiede una vastissima collezione di chitarre. E questa chitarra Torres aveva un suono particolarmente potente, così Paul ha voluto esaminarla ai raggi X, ottenendo un quadro completo dello strumento. La sua conclusione è stata che la chitarra Torres avesse il fondo ‘bloccato’. Così, nelle sue chitarre acustiche, ha deciso di incatenare il fondo in modo abbastanza pesante, e la tavola armonica in modo molto leggero. Quindi è come se la chitarra avesse un unico diaframma, come un tamburo in sostanza, in maniera tale che il top è brillantissimo e il fondo è internamente rigido e si limita a proiettare le vibrazioni. Questa è stata la filosofia delle chitarre acustiche Paul Reed Smith e ho verificato che il loro suono è incredibile, il loro sustain pazzesco. Così mi sono ritrovato a pensare: «Allora sto veramente lavorando con questi ragazzi per migliorare le cose nel mondo delle chitarre acustiche!» E mi sono sentito molto onorato quando mi hanno proposto di realizzare un modello signature, che è la mia chitarra dal 2011.
E com’è amplificata?
Ha il suo proprio sistema. La Paul Reed Smith cerca di realizzare tutto in casa, dai coperchi per pickup alle finiture personalizzate…
È un piezo?
No è un pickup interno a contatto, simile al pickup McIntyre Acoustic Feather. È sistemato sotto il ponte e copre una zona più ampia rispetto al normale piezo, così che anche lo spettro sonoro è molto più ampio. Ed è in combinazione con un preamp alimentato a 18 volt. Questa è la sua filosofia.
Nell’intervista rilasciata a Fabio Lossani su Chitarra Acustica di luglio 2013, parlavi di un buon amplificatore per acustica costruito da Gerry Humphrey.
Sì, non lo posseggo ma amo il suo lavoro.
Non usi l’amplificatore di solito…
No, generalmente non lo uso. È complicato andare in tour con un ampli, ma Gerry fa delle cose bellissime.
Prenderai qualcosa, forse?
Forse. Il suo amplificatore a valvole per chitarra acustica non è certo economico, ma è di fascia molto molto alta. E ora sta parlando di costruire un preampli a valvole, la qual cosa mi interessa molto. Gerry è un mio compatriota scozzese, che vive a Minneapolis, e cerca sempre di fare il meglio del meglio. Sono sicuro che il suo preamplificatore sarà bellissimo.
Andrea Carpi
Grazie a Sergio Staffieri per il contributo alla trascrizione delle interviste.