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Un’introduzione al banjo (1) – La storia

L’immagine del banjo è, per la maggior parte del pubblico comune, legata alla musica country-bluegrass e, per gli amanti del jazz, al jazz tradizionale, New Orleans o Dixieland, reso popolare in Italia da musicisti come Lino Patruno e Carlo Loffredo. Vi è in realtà molto di più, in quanto il banjo moderno ha una storia di quasi due secoli cominciata attorno agli anni ’30 del secolo XIX, epoca in cui lo strumento cominciò a prendere una forma definitiva e ad essere impiegato al di fuori dello stretto ambito rurale e afroamericano, in cui esso era nato e veniva utilizzato fino ai primi anni dell’Ottocento.

William Sidney Mount -The Banjo Player, 1856
William Sidney Mount -The Banjo Player, 1856

Lo strumento

Il banjo può essere sinteticamente descritto come un tamburo munito di manico, su cui sono tese delle corde originariamente di budello e in un secondo tempo di metallo. Le origini di questo strumento vengono solitamente fatte risalire a strumenti africani come il banjar, che spesso venivano ricavati da zucche su cui veniva tesa una pelle di animale. Questi strumenti vennero ‘importati’ in America e costruiti in loco dai neri ridotti in schiavitù, e furono successivamente adottati anche dai musicisti bianchi.
Lo strumento come lo conosciamo oggi è composto da un cerchio di legno (rim secondo la terminologia inglese) o, nei modelli più economici, di alluminio di 11 o 12 pollici di diametro, su cui è tesa la pelle originariamente di animale e oggi in materiale sintetico. Nei modelli migliori, su questo cerchio è appoggiato un tone ring, cioè un anello di ottone che serve a sviluppare un timbro migliore e più volume di suono; questo anello può avere lo stesso diametro del rim o, nei modelli di banjo cosiddetti archtop, può avere un diametro interno più stretto ed essere rastremato verso l’alto in modo da ridurre la superficie vibrante della pelle, per sviluppare un timbro più brillante.
Ci sono due versioni dello strumento: la versione open back, quella più antica, che non è chiusa posteriornente; e quella con resonator, nata a metà degli anni ’20 del Novecento, nella quale sotto il rim viene avvitata una coppa di legno che chiude la cassa e che serve a riflettere il suono verso l’esterno. Il manico è munito di tastiera in palissandro o ebano e di tasti come una chitarra, a meno che non si tratti di un modello fretless (come nel cosiddetto minstrel banjo).

La sua storia

È interessante notare come l’evoluzione dello strumento che lo ha portato alla forma attuale appena descritta sia indissolubilmente legata all’evoluzione della musica stessa degli Stati Uniti. Agli inizi dell’Ottocento, quando lo strumento era utilizzato solo nei campi e da musicisti afroamericani, il banjo era uno strumento molto più povero: il manico, a volte un semplice manico di scopa, era senza tasti; le corde potevano essere anche semplicemente degli spaghi legati alla meno peggio, e la pelle era assicurata al cerchio in maniera molto approssimativa, semplicemente inchiodata sui bordi, cosa che rendeva pressoché impossibile qualsiasi intonazione e regolazione.
La prima versione del banjo che ebbe una prima uniformità, divenuta standard costruttivo nella prima metà dell’Ottocento grazie ai primi costruttori come Boucher, fu il cosiddetto minstrel banjo; così detto perché veniva impiegato nei minstrel show, spettacoli caricaturali allora molto in voga, in cui attori di pelle bianca si pitturavano la faccia di nero e le labbra di bianco (il cosiddetto trucco blackface) facendo il verso ai neri delle piantagioni, spettacoli che oggi definiremmo grotteschi e assolutamente scorretti politicamente, ma che allora avevano molto successo, paradossalmente, anche presso il pubblico di colore. Gli stessi afroamericani riprendevano il blackface pitturandosi la faccia in quella maniera caricaturale e si cimentavano in questi spettacoli facendo la parodia di quella che già era una parodia. In questi spettacoli il nero era fondamentalmente un uomo di buon cuore, un sempliciotto che veniva deriso per la sua dabbenaggine, vestito con abiti della borghesia bianca spesso di taglia troppo grande o troppo piccola e imbracciava altrettanto spesso un banjo. Alcuni commentatori fanno, tra l’altro, risalire a questo periodo la nascita del genere popular music, con l’aggiunta di elementi afroamericani attraverso la canzone del 1828 “Jump Jim Crow”, cantata da Thomas Dartmouth (T.D.) ‘Daddy’ Rice e nata, a quanto pare, sull’imitazione di una danza eseguita da uno schiavo africano di nome Jim Crow (cfr. Bob Carlin, 2007).
Lo strumento imbracciato da questi attori-musicisti era detto appunto minstrel banjo ed era già un’evoluzione del ‘banjo rurale’, in quanto aveva elementi estetici che richiamavano in maniera evidente gli strumenti della musica classica di matrice europea: aveva un manico senza tasti, ma una paletta con un riccio ispirato a quello del contrabbasso (e molto simile a quella che molti decenni dopo Leo Fender avrebbe adottato per le Telecaster e Stratocaster). Il numero di corde, inizialmente variabile, si stabilizzò in cinque, di cui la quinta più corta delle altre in quanto arrivava a metà manico (corrispondente al quinto tasto per i banjo con tasti) con funzione di bordone.

Joel Walker Sweeney
Joel Walker Sweeney

Il merito di aver reso popolare il banjo a 5 corde anche presso pubblico e musicisti non afroamericani è senz’altro ascrivibile a Joel Walker Sweeney (1810-1860), figura leggendaria che all’epoca ebbe una popolarità che i critici oggi paragonano a quella conosciuta da Elvis Prestley nella seconda metà del secolo successivo. Sweeney nacque in Virginia da genitori di origini irlandesi e, come lui stesso raccontò, imparò a suonare il banjo dagli schiavi delle piantagioni. Egli fu, di fatto, il primo musicista bianco ad adottare stabilmente il banjo come strumento, strumento che egli modificò sensibilmente rispetto ai rozzi strumenti rurali che erano usati dagli afroamericani, adottando come cassa armonica un cerchio di legno (la leggenda vuole che si trattasse di una scatola di formaggio) al posto della zucca o segmento di zucca con cui gli strumenti venivano originariamente fabbricati. Inizialmente venne attribuita a Sweeney anche l’introduzione della quinta corda (la cosiddetta chanterelle) a metà manico. Secondo la leggenda egli l’avrebbe aggiunta allo strumento per far divertire la nipotina; in realtà, come risulta anche da foto d’epoca che rappresentano strumenti del XIX secolo, la quinta corda era già presente in precedenza ed è più probabile che egli abbia aggiunto in realtà non la quinta ma la quarta corda.
Sweeney iniziò a suonare professionalmente attorno al 1830 e pochi anni dopo si associò a un circo iniziando a girare prima la East Coast poi tutti gli Stati Uniti, esibendosi nei citati minstrel show. Con Sweeney il banjo divenne uno strumento conosciuto e apprezzato anche dalla borghesia bianca americana, presso la quale riscosse un veloce e sempre crescente successo al punto che, all’inizio degli anni ’40 del secolo XIX, egli fece anche una tournée in Europa. Sweeney, ormai una star, entrò anche a far parte dei Virginia Minstrels, il più famoso gruppo di blackface dell’epoca.
Lo stile di Sweeney era definibile come stroking e consisteva nel pizzicare la quinta corda (con funzione prevalente di bordone) col pollice e le altre corde con l’unghia dell’indice verso il basso (questo stile, lievemente modificato, sarà successivamente denominato clawhammer). Il repertorio era quello dei minstrel dell’epoca e comprendeva brani della musica folk irlandese (Sweeney era tra l’altro di origini irlandesi) come jigs, reels e breakdowns, canzoni dell’epoca e brani della tradizione americana.

La rivista “S.S. Stewart’s Banjo and Guitar Journal”
La rivista “S.S. Stewart’s Banjo and Guitar Journal”

A questo periodo denominato dagli storici Early Banjo, e la cui epoca d’oro va grossomodo dal 1810 fino alla guerra di secessione (1861-1865), seguì l’epoca del cosiddetto Classic Banjo (circa 1850-1920) che fece del banjo uno strumento ‘colto’. Gli eventi della Guerra di Secessione e l’abolizione della schiavitù fecero conoscere il banjo ai ‘nordisti’, che lo portarono con sé al rientro dalla guerra. Lo strumento cominciò a uscire dal ghetto dei minstrel show e ci si accorse che era idoneo anche ad essere strumento solista e a suonare musica più ‘erudita’. Il banjo venne elevato di rango e passò ad essere apprezzato nei salotti della borghesia bianca, in cui veniva eseguito un repertorio appositamente creato (da cui il nome di questa musica, parlor music, ‘musica da salotto’). Lo strumento stesso venne innovato, si passò dai vecchi minstrel banjo senza tasti a strumenti con i tasti e un manico e paletta ripresi da quelli della chitarra. Vennero fondate riviste musicali dedicate al banjo come la S.S. Stewart’s Banjo and Guitar Journal, che contenevano articoli e trascrizioni dedicate al banjo (per chi fosse interessato, l’Università di Rochester ha messo a disposizione la collezione completa di questa rivista sul proprio sito http://hdl.handle.net/1802/2586). Gli strumentisti, la maggior parte musicisti bianchi, si presentavano vestiti in frac con il banjo sotto il braccio, come avrebbe potuto fare un violinista di musica classica. La tecnica stessa cambiò, si passò attorno agli anni ’60 del XIX secolo dallo stroking a una tecnica derivata direttamente da quella della chitarra classica: il mignolo rimaneva appoggiato alla pelle mentre pollice, indice e medio pizzicavano le corde con i polpastrelli (senza i moderni picks). In genere il banjoista si esibiva in duo accompagnato dal pianoforte o da un altro strumento.
A dispetto del nome, il repertorio non era necessariamente tratto dalla musica classica, sia pur presente: esso era costituito prevalentemente dalla citata parlor music, scritta specificamente per il banjo da compositori dell’epoca essi stessi banjoisti (come Emile Grimshaw, Frank Lawes e Joe Morley); c’erano poi ragtime, cakewalk, le marce di John Philip Sousa e arie di operetta arrangiate per lo strumento.
Musicista di collegamento tra l’epoca dell’Early Banjo e quella del Classic Banjo fu William Albert Huntley (1843-1929), considerato il primo banjoista a suonare nei minstrel show senza usare il trucco blackface e il primo ad adottare il frac, cosa che gli guadagnò il soprannome di The Classic Banjoist. Huntley debuttò nei minstrel show nel 1860, fu un compositore prolifico (oltre cento brani) e innovatore, in quanto portò all’attenzione del pubblico anche il banjo a sei corde (banjo guitar).
L’interprete più importante di questo stile fu però sicuramente Vess L. Ossman (1868-1923), considerato il primo musicista in assoluto ad aver inciso su disco un brano di musica afroamericana, “Gayest Manhattan”, un assolo di banjo con accompagnamento di pianoforte inciso nel 1897 su un disco a una sola faccia per la Berliner. Ossman era considerato dalle cronache dell’epoca il più grande banjoista di tutti i tempi, le sue composizioni erano ricche di inventiva e innovative per l’epoca e le sue trascrizioni di famosi ragtime sono tra le migliori mai realizzate per banjo. Come esecutore Ossman aveva una tecnica eccellente, ampliò l’utilizzo della quinta corda non più relegata alla sola funzione di bordone. Tenne anche, nel 1900, una tournée europea di gran successo che lo portò a suonare anche per il re Edoardo VII, a sua volta banjoista dilettante; questo, tra l’altro, fece prendere l’avvio alla scuola di banjoisti inglesi. Il suo declino fu però inevitabile nel momento in cui la Original Dixieland Jass Band, con la sua prima incisione nel 1917, impose prepotentemente come nuova musica alla moda il jass (subito ribattezzato jazz per motivi di decenza, visto che la prima parola privata della ‘j’ aveva un significato poco nobile).
Voglio qui anche ricordare Fred Van Eps (1878-1960), padre del famoso chitarrista jazz George Van Eps, che fu sicuramente l’epigono più importante di Ossman. Strumentista di gran valore, Fred Van Eps, a differenza di Ossman, non limitò le proprie interpretazioni al ragtime ma, anche grazie al fatto di essere più giovane e più longevo, si dedicò anche a quella nuova musica appena nata, il jazz, appunto. Il suo nome viene spesso accostato a quello di Frank Lawes, compositore di musica per banjo di cui eseguì parecchie composizioni. Van Eps nel 1930 lasciò il banjo per dedicarsi alla chitarra, che aveva ormai rimpiazzato il banjo nelle orchestre di jazz; con la chitarra suonò con vari jazzisti dell’epoca tra cui Benny Goodman. Oltre a ciò, Van Eps fu anche un costruttore e perfezionatore di banjo, avendo fondato un’azienda che produsse il modello Van Eps Recording Banjo.
Se è vero che il Classic Banjo viene solitamente considerato un genere suonato prevalentemente da musicisti bianchi, vi furono tuttavia anche afroamericani come Horace Weston (1825-1890) che transitarono dai minstrel show al nuovo genere alla moda lasciando anche pregevoli composizioni.

L’epoca d’oro del Classic Banjo terminò grossomodo alla fine degli anni ’10. Nel primo dopoguerra l’imporsi di nuove musiche come il tango, il jazz e l’adozione del banjo anche nell’ambito della musica folk irlandese fece desiderare a molti musicisti, che suonavano altri strumenti, di imbracciare a loro volta uno strumento ormai divenuto popolarissimo negli Stati Uniti. Le nuove musiche richiedevano però uno stile di accompagnamento cosiddetto strumming da eseguirsi con il plettro (il cosiddetto 4 to the bar del jazz) cosa che portò i musicisti prima a togliere dai loro strumenti la quinta corda, che era di ostacolo alle pennate, e poi a utilizzare strumenti progettati direttamente con sole quattro corde. Al contempo, l’esigenza di avere un volume di suono che potesse competere con quello degli strumenti a fiato portò ad adottare corde di metallo e il già citato resonator, coperchio che chiude sul retro il banjo riflettendo verso l’esterno il suono.
I primi banjo costruiti direttamente con quattro corde erano identici come struttura al classico banjo a cinque corde, ma avevano la tastiera leggermente più stretta per agevolare le veloci pennate sulle quattro corde con movimenti del polso molto stretti. Questi strumenti, che per il resto erano identici come struttura e dimensioni (scala di 26,75” e 22 tasti), presero il nome di plectrum banjo in quanto nascevano per essere suonati con il plettro. Il plectrum banjo è ampiamente in uso ancora oggi ed è lo strumento preferito nell’ambito del jazz tradizionale dai solisti: esso infatti mantiene l’accordatura tradizionale senza la quinta corda, cioè CGBD, che è estremamente comoda per l’esecuzione degli accordi a parti strette e quindi perfetta per lo stile cosiddetto chord melody, in cui la melodia e gli accordi vengono suonati assieme un po’ come nello stile pianistico block chord.
I violinisti e i mandolinisti, dal canto loro, sentivano la necessità di suonare uno strumento che avesse la stessa accordatura per quinte del violino per non dover imparare da capo tutte le posizioni. Nacque così il tenor banjo con manico più corto e 17 tasti portati successivamente a 19. L’accordatura partiva sempre dal Do ma saliva per quinte giuste e diventava così CGDA come quella di una viola.
Due sono i musicisti di quest’epoca che non possono non essere ricordati: Eddie Peabody (1902-1970) e Harry Reser (1896-1965). Entrambi suonavano sia il plectrum banjo che il tenor banjo, ma il primo divenne famoso soprattutto come virtuoso del plectrum di cui sviluppò anche il nuovo modello Vegavox in collaborazione con la Vega Company. Questo nuovo modello di banjo, molto elegante esteticamente e ancora oggi molto diffuso tra gli specialisti del plectrum, prevede che la cassa del banjo venga inserita completamente dentro il resonator, ottenendo così uno strumento dal profilo più compatto e sottile.

Plectrum banjo Vegavox IV appartenuto a Eddie Peabody
Plectrum banjo Vegavox IV appartenuto a Eddie Peabody

Harry Reser a sua volta si specializzò nel banjo tenore che suonava sia in tenor tuning, sia in Chicago tuning (DGBE). Il repertorio degli anni ’20 era anch’esso variegato, ma le cosiddette novelty songs, suonate nel nuovo stile jazzistico imposto dalle band di Paul Whiteman e Jean Goldkette, la facevano da padrone. La popolarità di Reser fu favorita da The Clicquot Club Eskimos, spettacolo radiofonico in cui il banjoista si esibiva col suo gruppo. Clicquot Club era la ditta produttrice di una nota bevanda ginger ale che sull’etichetta della bottiglia riportava il disegno di un ragazzo esquimese vestito appunto con l’eskimo: per aggirare le limitazioni alla pubblicità radiofonica allora in vigore, Reser e i suoi si presentavano in pubblico vestiti con gli eskimo come il ragazzo dell’etichetta; questa divertente trovata contribuì al notevole successo che la band riscosse negli anni ’20. Reser era un vero virtuoso del tenore e lo stesso Mel Bay, nel suo Tenor Banjo Method, gli rende omaggio.
Per tutti gli anni ’20 il banjo e la chitarra si affiancarono nelle orchestre di jazz. Si può forse ravvisare una prevalenza della chitarra nelle grandi orchestre di Jean Goldkette e Paul Whiteman dove suonò Eddie Lang, il primo grande chitarrista jazz, e del banjo nelle piccole formazioni come quelle di Louis Armstrong; ma, a partire dagli anni ’30, la chitarra cominciò a soppiantare del tutto il banjo, cosa che divenne definitiva con l’avvento della chitarra elettrica alla fine del decennio. Il banjo rimase però uno degli strumenti caratteristici del jazz tradizionale ed ebbe nuova popolarità quando questo stile ebbe un revival negli anni ’40. Va anche segnalato che nel periodo di massimo fulgore del banjo, molti strumentisti passarono dalla chitarra (strumento prediletto nel blues) al banjo e, non volendo apprendere nuove diteggiature, si fecero costruire banjo a sei corde accordati come la chitarra (il già citato banjo guitar o banjtar). L’esponente più famoso di questo strumento fu probabilmente Johnny St. Cyr, il banjoista di Louis Armstrong che può essere ascoltato nelle registrazioni degli anni ’20 degli Hot Five e Hot Seven.

Moderno Irish banjo a scala corta
Moderno Irish banjo a scala corta

Una storia a sé ebbe l’Irish banjo, che altro non è se non un banjo tenore che mantenne la scala corta a 17 tasti, ma con un’accordatura abbassata di una quarta per renderla analoga a quella del violino. Questi strumenti nati per la musica irlandese sono estremamente compatti e comodi da suonare, in quanto i tasti molto ravvicinati e l’accordatura per quinte consentono l’impiego delle stesse diteggiature del violino e la possibilità di suonare le scale a quattro note per corda, cosa molto difficoltosa su strumenti a scala lunga dove i tasti sono più distanti l’uno dall’altro.

Domenico Lobuono

PUBBLICATO
Chitarra Acustica, 10/2014, pp. 50-53

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